Sotto il cielo di Berlino, si trema

Si mormora, in terra teutonica, che il sistema bancario tedesco sia in crisi. Si sa infatti che il credito è un coltello a doppio taglio: se da una parte porta profitti con gli interessi, dall'altra non dà certezza di rientri. Ne è un esempio la Deutsche Bank che, nel tentativo di recuperare l'insolvenza di un costruttore americano, s’era ingegnata a gestire un casinò a Las Vegas, perdendoci circa due miliardi di dollari e chiudendo così il 2015 con una perdita di 6/7 miliardi di euro (cfr. La Stampa, 13/2/2016). Ma non è solo la Deutsche Bank ad arrancare: la Commerzbank, seconda banca del paese, tornerà a pagare un dividendo per la prima volta dal 2007, ma l'attuale prezzo in Borsa resta comunque in perdita di 3 miliardi e mezzo di euro. L'intervento statale (cioè pubblico) per salvare le banche colpite dalla crisi del 2008 non è ancora quantificabile, visto che è ancora in corso.

Stando alle cifre più aggiornate, di 144 miliardi di interventi ne sono rientrati finora solo 27,6: citiamo come esempio la Hsh-Nordbank, la cui possibile chiusura o svendita potrebbe creare perdite gravissime alla città di Amburgo e a tutto lo Schleswig-Holstein. Ed è lo stesso ministro delle finanze Wolfgang Schauble a tracciare uno scenario da brividi, quando afferma che la Germania deve risparmiare in modo rigoroso, se non vuole ritrovarsi in una situazione simile a… quella greca. Ma risparmio equivale a ristrutturazione... e già si parla di tagli: ridurre i costi del 30% e il personale del 20%, nell'arco di un decennio. Il giro di vite inizia il suo movimento: c'è già chi parla di troppi sportelli bancari sul territorio nazionale…

Freno a mano?... Tirato

Dunque, è arrivata la frenata. Il mondo non riesce più ad assorbire i prodotti cinesi: i milioni di container che partono dai porti cinesi, diretti ai quattro angoli della terra, hanno subito un calo. La sovrapproduzione di merci è tornata alla ribalta, agitando non poco le notti dello Stato-Capitale maoista e dei dirigenti del Partito. E così Lor signori cercano la soluzione del problema nella formula: “Meno esportazioni e più consumo interno”. Quest’inversione di marcia non è però cosa di facile attuazione: ridurre le esportazioni significa calo della produzione, e calo della produzione significa chiusura di fabbriche con aumento di tensioni sociali. Infatti, secondo il “China Labour Bullettin”, una ong di Hong Kong riferisce che le manifestazioni operaie sono raddoppiate nel 2015, raggiungendo quota 2774, con 400 episodi nel solo mese di dicembre 2015. E la situazione è talmente grave che la polizia ha cominciato ad arrestare alcuni “sindacalisti”.

Lo stesso “China Labour Bullettin” sottolineava poi che, nei primi mesi di questo 2016, possono verificarsi numerosi licenziamenti, soprattutto nella provincia del Guangdong, il centro industriale più importante del paese (si pensi che, negli ultimi tre anni, i licenziamenti hanno già toccato il 5% della forza-lavoro!).

Ma non è solo il problema della ristrutturazione industriale a disturbare i sonni dei nostri amici: c’è anche la questione del salario. Se infatti i salari calano (come calano, in questa fase di crisi di sovrapproduzione), addio potere d'acquisto: e i consumi interni non partono.

Il professor Salvatore Bones, docente di politica sociale all'università di Sydney, spiega che “La Cina di oggi, in termini di reddito pro-capite, è ancora più povera del Messico e Russia e leggermente più povera del Brasile […] avrebbe bisogno di continuare a crescere a un tasso superiore al 6% se si vuole costruire un sistema sanitario pubblico e migliorare le scuole...”. Ma il futuro prevede un 2016 al 6,5%... Non solo: secondo alcuni economisti, il tasso reale di crescita cinese non dovrebbe superare il 4%. E il 4%, per la Cina, significa mettere mano a licenziamenti di massa e chiudere le aziende statali in bancarotta. Il problema di questi apparati “obsoleti” è che hanno ricevuto continui finanziamenti bancari, che non sono in grado di pagare... (dati e citazioni tratti da l'Espresso 11/2/2015).

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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