INTRODUZIONE

Il grande impulso ricevuto dall’economia giapponese dopo il “bagno di giovinezza” del secondo macello imperialista ha dovuto fare i conti, in un primo tempo, intorno agli anni ’70, con il risveglio delle “tigri asiatiche” e soprattutto dell’economia cinese (ma anche con l’ostilità dell’ex amica USA); in un secondo tempo, con la situazione di crisi economica mondiale, la sua brusca e grave impennata a partire dal 2007, lo scontro sempre più agguerrito con tutti gli altri paesi capitalistici, dentro e fuori la regione. Parliamo di quella che è ancor oggi la terza potenza economica mondiale, ovviamente; ma il dato peculiare e significativo, espressione evidente della gravità della situazione economica mondiale, sembra la sua impossibilità di fare altri “passi avanti”: una sorta di “blocco generale” che dura ormai da due decenni. Un declino, certamente, ma comunque relativo se messo a confronto con quello più rilevante dell’Europa continentale, con eccezione della sola Germania.

A questo “blocco” il governo giapponese ha ripetutamente risposto, sia immettendo “liquidità” nel sistema e provocando così più o meno grandi bolle speculative, sia alternando la stessa misura con l’aumento della spesa pubblica, come è avvenuto con i recenti provvedimenti del 2012 (la cosiddetta Abenomics). In tutti i casi, la situazione non si è comunque “sbloccata”, come auspicavano soprattutto molti keynesiani dell’ultima ora, a riprova di quanto sia generalizzata e profonda l’attuale crIsi mondiale di sovrapproduzione. Anche dentro questa lunga e tormentata congiuntura negativa, il capitalismo giapponese riesce comunque a dare prova della sua straordinaria forza strutturale (tecnologica, scientifica, organizzativa). I problemi con i quali oggi si dibatte si chiamano: PIL troppo basso, debito pubblico attorno al 220% sul PIL, rapporto deficit/PIL sul 10%, bassi investimenti e bassa capacità di esportazione, bassi livelli dei salari a confronto con gli altri grandi paesi capitalistici, bassi livelli dei consumi interni, deflazione (basso livello dei prezzi).

 

Il “GLORIOSO PASSATO”

Prima dell’ultimo conflitto mondiale

Dopo la forzatura degli stati occidentali (a base di ripetute minacce militari) contro la sua chiusura autarchica, l’economia giapponese ebbe un forte impulso a partire dal 1868, con l'avvento del “Governo Illuminato” dell’imperatore Mutsushito, che, abbattendo i vincoli del preesistente regime feudale, rispose anche alle sollecitazioni sempre più pressanti di una nuova borghesia, mercantile e imprenditoriale. Lo Stato, facendo propri i poteri degli antichi feudatari, si fece promotore di una rapida accumulazione originaria di ingenti capitali, che investì in imprese di tipo industriale, favorendo l'affermarsi della nascente classe imprenditoriale. L'industria divenne ben presto arbitra della situazione interna del Paese. Si formarono i cosiddetti zaibatsu, concentrazioni di industrie dominate da grandi famiglie, che a poco a poco raccolsero nelle loro mani le preesistenti piccole e medie aziende, favorite in ciò dalla politica governativa tesa ad accelerare lo sviluppo del Paese mediante il sostegno a questi pochi ma grandi complessi a carattere monopolistico. Questa fase di iniziale espansione, si avvantaggiò di un forte protezionismo doganale, volto a difendere dalla concorrenza straniera i prodotti nazionali, ancora tecnologicamente poco avanzati, mentre si diffondeva una propensione a imitare le produzioni già sicuramente affermatesi all'estero. Il rapido sviluppo industriale determinò inevitabilmente il progressivo decadimento dell'economia agricola, nonostante l'avvenuta riforma fondiaria che, con l'abolizione dei latifondi feudali, aveva assegnato la terra ai contadini, con la conseguenza di un'estrema frammentazione dei fondi e, quindi, redditi agrari del tutto insufficienti (1). Seguì soprattutto l'esodo dalle campagne di grandi masse contadine tradizionalmente lige al dovere, con abitudini frugalissime, e per le quali lo zaibatsu continuava, di fatto, a incarnare il vecchio potere feudale.

La sovrabbondanza di manodopera (sovrappopolazione operaia) a costi estremamente bassi fu uno dei fattori determinanti della rapida industrializzazione del Giappone, che per gli approvvigionamenti di materie prime fu spinto a perseguire una politica militarista ed espansionistica, con l'occupazione sia della Manciuria che della Corea. Superata senza gravi conseguenze la crisi degli anni ’30 del ‘900 attraverso una politica dapprima di restrizione monetaria e di austerità e, poi, di liberalizzazione e di investimenti pubblici, il Giappone vedeva rafforzarsi le industrie di base (metalmeccaniche, chimiche, elettriche) e crescere il proprio peso commerciale, trovando nell'Asia orientale e nell'area del Pacifico importanti fattori di sviluppo: dalle materie prime alla manodopera e a nuovi sbocchi di mercato.

Dopo il conflitto

Nonostante l'esito catastrofico del secondo conflitto mondiale, il Giappone, grazie a una straordinaria capacità di ripresa, superiore a quella pur formidabile della stessa Germania, si pone, nel prosieguo del secolo XX, come la maggiore potenza economica del pianeta dopo gli Stati Uniti. Inizialmente, la ricostruzione postbellica fu decisamente favorita dagli stessi Stati Uniti, che videro nel Giappone una barriera all'espansione politica della Cina, fornendogli cospicui aiuti finanziari.

Ma emersero i fattori endogeni della ripresa, primo fra tutti l'organizzazione di nuove e agguerrite holdings: le cosiddette keiretsu-ka, che sostituivano gli zaibatsu (aboliti con una legge “antimonopolistica”), imperniate su grandi banche e dotate di capacità imprenditoriali per la gestione di grandi mezzi finanziari. La disponibilità di questi ultimi, derivante anche dalla spiccata propensione al risparmio, si associava alla forte domanda del mercato interno, grazie a una continua e sensibile crescita dei salari reali, che moltiplicava di ben 4,5 volte il potere di acquisto nel periodo 1955-70. Lo Stato esercitava un'accorta politica di incentivi e sosteneva un'efficiente organizzazione commerciale, coordinata dal Ministero del Commercio Internazionale e dell'Industria (MITI), il quale orientava le strategie produttive di fondo. Pur rimanendo fedele ai principi dell'economia liberista, lo Stato giapponese veniva assumendo un ruolo sempre più rilevante nella programmazione economica, che si dimostrava, nei fatti, non priva di notevoli successi.

L’economia giapponese nel dopoguerra era organizzata dunque centralmente: investimenti e crediti erano orientati e selezionati dalle strategie del Governo. Le principali società giapponesi furono sempre tenute al riparo da pressioni finanziarie a breve termine.

Il motore principale dell’impetuoso sviluppo capitalistico giapponese postbellico fu dunque rappresentato da questi vecchi monopoli “democratizzati“, le Keiretsu, ragnatela di rapporti tra società formalmente indipendenti, ognuna al centro di un impero con altre imprese autonome ad esse collegate, indipendenti ma vincolate l’una all’altra da ferree partecipazioni incrociate: Mitsubishi, Itah, Sumitomo, Mitsui, Marubeni, Nissan-Iwai, Tomen, Nichimen, Kenematsu – questi i nomi dei keiretsu che costituirono la base del “miracolo economico” giapponese degli anni ’60 del ‘900. Il bisogno di accaparrarsi materie prime e di esportare capitali in eccesso farà bruciare al Giappone le tappe della formazione del capitale finanziario (simbiosi o fusione del capitale bancario con quello industriale). Se prendiamo in considerazione, come abbiamo fatto a partire dagli anni ’50 del ‘900 con il nostro “Corso del capitalismo mondiale”, i dati del decennio 1963-72 e i grafici relativi al periodo 1970-94, vediamo che la bilancia commerciale giapponese, in miliardi di dollari, risulta, insieme a quella tedesca, sempre positiva (anzi, nei primi anni ’90 il saldo giunge a superare quello stesso della Germania); al contrario, già alla fine degli anni ’60, la bilancia commerciale USA diviene negativa, e così quella del Regno Unito. Il periodo 1963-72 è quello, considerato “d’oro”, del dopoguerra: i paesi sconfitti hanno una bilancia commerciale attiva e dinamica – dopo il “bagno di sangue rigeneratore” della guerra, emergono rapidamente dalla sconfitta.

Nel grafico n. 1, riportato qui sotto e tratto sempre dal nostro “Corso del capitalismo mondiale”, si può notare come l’economia USA vada in rapidissima discesa fino al 1987 (passivo di 180 miliardi di $); tra il 1987 e il 1991, si porti sulla soglia passiva di 80 miliardi di deficit; e da allora ridiscenda, fino al 1994, agli stessi valori di 180 miliardi di $. Giappone e Germania hanno invece un’impennata fino a 80 miliardi di dollari in attivo; poi, specularmente all’aumento Usa, si ha una caduta fino ai 50 e ai 20 miliardi di $. Da allora, la corsa riprende in salita.

Grafico n.1

Nel grafico n. 2 (sempre stessa fonte), è rappresentata invece la bilancia dei pagamenti, che contiene la bilancia commerciale, quella delle partite correnti, quella dei capitali. In esso, si può vedere ancora una volta la crescita dell’attivo del Giappone oltre i 120 miliardi di dollari; una crisi è riscontrabile dall’86 all’89, poi ancora la ripresa. Simmetricamente, gli Usa vanno giù con la bilancia dei pagamenti, si riprendono dall’87 al ’91, per poi crollare rapidamente fino al ’94.

Grafico n. 2

Altri dati interessanti, sempre in miliardi di dollari, relativi al Giappone, sono poi gli investimenti diretti all’estero (IDE) e quelli diretti dall’estero. Dal 1970 al 2001, una grande massa di capitali si sposta sul mercato mondiale. Fino all’85, questi capitali ammontavano a 10 miliardi di dollari; da allora, si hanno una rapida salita e un rapido spostamento di questi capitali, fino a 70 miliardi di dollari; questi capitali diminuiscono poi durante la crisi del 1991-93, per risalire rapidamente ai valori di 50-70 miliardi di dollari. Dalla fine degli anni ’90, crescono anche gli spostamenti di capitali dall’estero (fino ai 20-30 miliardi di dollari), mentre prima la quantità non andava oltre i 5 miliardi di dollari.

Dalla metà degli anni ’50, si succede inoltre una serie di veri e propri boom produttivi, con tassi di crescita del PIL addirittura superiori al 10% annuo (il doppio degli altri grandi Paesi industriali), intervallati da brevi fasi recessive. La produzione industriale aumenta del 15% nei soli anni ’60, con una spiccata diversificazione settoriale, alla base della quale sta il peso dei grandi complessi siderurgici e petrolchimici, localizzati nelle aree portuali per far fronte ai costi di trasporto delle materie prime, pressoché totalmente di importazione.

I gruppi di aziende alleate nei Keirutsu, organizzate attorno a una grande banca, possedevano grandi quantità di azioni l’una dell’altra e proteggevano la gestione aziendale dalle pressioni degli azionisti. Le aziende non dovevano preoccuparsi del costo delle azioni o della fiducia del mercato, poiché raramente si finanziavano vendendo azioni od obbligazioni. Erano le banche che prestavano loro il denaro, e le aziende non dovevano preoccuparsi nemmeno della redditività a breve termine. In tale maniera, i settori industriali strategici venivano protetti dalla concorrenza. Prima ci si affidò al mercato interno, poi ci si spinse sul mercato estero conquistandone quote sempre più grandi. Questa complessa struttura industriale-finanziaria, supportata in tutti i modi dallo Stato (il quale garantiva la solidità del sistema finanziario privato dinanzi ai suoi creditori), permetteva al capitale nipponico di elaborare strategie industriali di lungo periodo,  che privilegiavano la penetrazione nei mercati e settori potenzialmente più ricchi e dinamici (TV, radio, videoregistratori, semiconduttori, computer, tecnologie Hi-tech, ecc.), senza peraltro abbandonare i mercati più “maturi” (acciaio, aerei, automobili, ecc.).

Questa possente e complessa architettura capitalistica, capace di assicurare un “posto al sole” all’agguerrito Capitale nipponico, inizia a mostrare alcuni importanti limiti, che però non inceppano ancora significativamente l’efficienza espansiva della macchina.

Gli anni ‘70

Il primo “shock” petrolifero, nel 1973-74, determinò un notevole contraccolpo per un Paese il cui fabbisogno di greggio era cresciuto di ben 30 volte in meno di un ventennio. Si rese necessario riconvertire i settori a più elevato consumo energetico e, nello stesso tempo, orientare la ricerca di base e applicata verso le fonti alternative, fra cui, in primo piano, quella nucleare. Inoltre, bisognò trasferire progressivamente gli impianti produttivi, dapprima nei Paesi asiatici vicini (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Tailandia, ecc.), dove la manodopera aveva un costo di gran lunga inferiore, e poi direttamente sui mercati di esportazione americani ed europei. L'internazionalizzazione dell'economia giapponese si faceva così sempre più marcata (nonostante il perdurare di atteggiamenti più o meno protezionistici), e ad essa si contrapponeva il tentativo di frenare l'invasione dei prodotti nipponici da parte degli Stati Uniti e della Comunità Europea. Si accentuava così il tipico carattere “dualista” dell'economia capitalista, specie dell'industria, nella quale, accanto ai grandi e moderni complessi, dove gli operai godevano di una condizione per vari aspetti “invidiabile”, nei confronti degli altri paesi occidentali più avanzati, esisteva un tessuto di piccole e medie industrie più fragili e arretrate. Queste svolgevano ruoli complementari a quelli dei colossi industriali, con salari molto bassi, totale possibilità di licenziamento o obbligo alla mobilità del lavoro, assolvendo a funzioni di “cuscinetto” nei periodi di crisi. Inoltre, l’indirizzare i capitali quasi esclusivamente nei settori produttivi e finanziari determinò enormi carenze negli investimenti sociali; la ricerca dell’immediata estorsione di plusvalore e di un intensissimo sfruttamento delle aree più economicamente poduttive causò, qui come ovunque, profondi squilibri sotto l’appetto insediativo e ambientale. Nella megalopoli di Tōkyō risiedeva ormai quasi un quarto della popolazione totale, in condizioni di abitabilità a dir poco invivibili.

Gli anni ’80

Nella seconda metà degli anni ’80 (a partire dall’accordo del Plaza sui cambi, del settembre 1985), il capitale giapponese dovette affrontare un duro scontro politico-monetario con gli Stati Uniti. Per smorzare questa frizione, il Giappone si impegnò ad aumentare le importazioni, promuovendo i consumi, eliminando barriere commerciali e riducendo gli impedimenti strutturali. In quest’azione, gli Usa furono sostenuti dai paesi europei, che avevano forti disavanzi commerciali con il Giappone (prodotti elettronici, informatici, auto). Si eliminarono sussidi alle imprese, furono imposti anche aumenti di salari, furono introdotti accordi per combattere le importazioni, furono limitati gli alti prezzi delle rendite immobiliari e risolte molte questioni burocratiche. La rivalutazione dello yen e l’aumento dei costi divennero un incentivo potente per le grandi imprese giapponesi a spostare la produzione verso le economie con manodopera a basso costo del Sudest Asiatico e ad investire mezzi finanziari massicciamente in Asia Orientale e Sudorientale. Inizialmente, l’interesse nella regione si concentrò sui paesi più prossimi: Taiwan, Corea del Sud e Hong Kong. Ma l’aumento dei salari e la rivalutazione delle loro monete diminuì rapidamente l’attrattiva di queste economie come sbocchi per gli investimenti giapponesi; ciò spinse il Sol Levante a concentrarsi sull’Asia Sudorientale, e specialmente sulla Cina meridionale.

Negli anni ’80, il presidente USA Reagan attuò una politica di stretta creditizia e di forti riduzioni fiscali per contenere l’alta inflazione manifestatasi negli anni ’70. Il dollaro si apprezzò, le importazioni crebbero sulle esportazioni, afflussi di capitale in aumento fecero accrescere ulteriormente il dollaro. Si ebbe un disavanzo di bilancio anche per l’aumento delle spese per la difesa. Come si è visto sopra, le due economie, giapponese e statunitense, erano in quel momento speculari l’una dell’altra. L’offerta di moneta dovuta alle esportazioni veniva regolata abbassando gradualmente il tasso di sconto, che nel 1985 scese dal 9% dell’80 al 4,5. Nello stesso tempo, l’economia americana presentava un andamento preoccupante (tutti gli indicatori, a eccezione dell’indice dei prezzi, stavano deteriorandosi). La Fed aumentò l’offerta di moneta, ma ciò produsse solo speculazione finanziaria, scalate societarie e aumenti di consumi e quindi decrementi di risparmi produttivi. Con gli accordi del Plaza si cercò di realizzare una “flessione ordinata” del calo del dollaro (diminuzione dei tassi di interesse e vendite di $).

Il Giappone invece fu sommerso da liquidità (basso tasso di sconto ed elevato tasso di risparmio, 14-15% del reddito disponibile). Il facile accesso al mercato dei capitali esteri, con impennata dei corsi azionari, fece aumentare l’indice Nikei, fino a triplicarlo; i prezzi dei beni immobili aumentarono a dismisura; crebbero i consumi, l’occupazione, i salari reali e la “ricchezza” dovuta ai prezzi delle attività finanziarie.

A partire dalla metà degli anni ’80, il sistema finanziario assume un ruolo sempre più autonomo, mentre in passato si limitava a essere supporto dell’economia industriale. La svolta era avvenuta con gli accordi del Plaza, con cui si chiudeva la stagione del dollaro forte. Era lo scontro con gli Usa e altri competitori internazionali, dovuto ai forti avanzi commerciali e alla impenetrabilità del suo mercato interno. In risposta alla riduzione della competitività, le autorità giapponesi attuarono sviluppi della domanda interna con aumento dell’offerta di moneta (immissione di liquidità); riduzione dei tassi di interesse; stimolo agli investimenti immobiliari (terreni residenziali, commerciali e industriali). L’eccesso di liquidità non assorbito dai tradizionali strumenti finanziari si indirizzò verso l’acquisto di immobili e titoli azionari. Ne derivò un’impennata dei prezzi dei suoli edificabili. Aumentò il divario sociale tra proprietari e non proprietari di immobili e terreni come pure l’impossibilità dei lavoratori (operai e classe media) di acquistare una casa. Le imprese ebbero la rivalutazione degli assets patrimoniali e poterono rivalutare le quote azionarie, compensando la riduzione dei profitti dovuta alla perdita di competitività e ricorsero più facilmente al credito bancario. Le banche si impegnarono nelle attività borsistiche e nel mercato dei capitali, acquistarono partecipazioni azionarie, si esposero nella concessione di prestiti e investimenti nel settore immobiliare e alle imprese. Mentre gli introiti del mercato immobiliare permettevano un facile accesso al credito bancario, una consistente parte di guadagni di borsa si indirizzava nel settore immobiliare. Si creò per la crescita folle del valore dei titoli azionari e dei prezzi dei terreni una bolla speculativa, un gonfiamento della ricchezza finanziaria senza alcun legame con l’economia reale. Dall’85 all’89 la Borsa di Tokyo rappresentò il più straordinario mercato per la raccolta di capitali della storia del Giappone

Ma questi punti forti del sistema, la facile concessione di crediti da parte di banche garantiti dal governo, erano anche i suoi punti deboli. La strategia di lungo periodo del capitale nipponico e la sensazione che assomigliasse più a un’economia pianificata che a un libero mercato non fecero capire le dimensioni della “bolla speculativa” che si andava formando. La bolla giapponese era una delle tante che avevano imperversato per tutti gli anni ‘80 (vedi la crisi debitoria in America Latina). Il comune denominatore erano i prestiti bancari: le istituzioni finanziarie offrivano credito in cambio di tassi di interesse al di sopra della media del mercato. All’inizio degli anni ’90, la capitalizzazione del mercato in Giappone era doppia di quella degli Usa e più di due volte il suo PIL. I terreni erano diventati estremamente cari attorno al Palazzo imperiale, il terreno costava più dello Stato della California. L’economia era fortemente gonfiata. Fino alla fine degli anni ’80, si ebbe un lungo periodo di prosperità, di alti ritmi di sviluppo produttivo, di crescente produttività con bassa disoccupazione: ma non c’era nessun indicatore economico che giustificasse un così alto prezzo dei terreni e delle azioni, quasi triplicato. Nessuno si accorse che il processo, dalla fine degli anni 80, andava verso una bolla speculativa (anzi, si credette che la crescita dei prezzi di azioni e immobili fossero dovuti alla buona e forte situazione economica). Le banche e gli operatori finanziari continuarono a finanziare le imprese. Per arginare la dilagante offerta di moneta, nel dicembre del 1989, la Banca del Giappone dovette alzare il tasso di sconto da 3,75 a 4,25. Il tasso fu portato nel 1990 a 5,25 e poi al 6%. Ne segui una flessione dei prezzi delle proprietà immobiliari.

 

IL “BLOCCO” DELL’ECONOMIA

Gli anni ‘90

Dopo la crisi economica del 1990-91, comincia in Giappone una crisi recessiva da cui in effetti il paese non si è ripreso a tutt’oggi. La seconda più grande potenza economica mondiale, con un impressionante know-how tecnologico e un modernissimo mercato azionario, creditrice delle economie asiatiche, campione di crescita economica, entra in un tunnel recessivo e deflattivo: mentre, a metà degli anni ’60 e ’70 del ‘900, i tassi di crescita superavano il 9%, a partire dalla crisi mondiale del 1974-75 la crescita è rimasta al di sotto del 4%.

Negli anni ‘90, altri fattori hanno contribuito ad aggravare i già precari equilibri che si erano andati determinando: innanzi tutto, la concorrenza ormai apertamente esercitata dai NIC (Newly Industrialized Countries: Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore), che avevano fortemente migliorato la qualità tecnologica dei loro prodotti mantenendone la competitività, e poi sempre più l'esplosione dell'economia cinese, con tassi di crescita del PIL dieci volte superiori a quelli del Giappone – iniziata con l’immissione di flussi di manodopera, spesso clandestina, che contribuivano a turbare il mercato del lavoro giapponese, l'influenza del grande vicino si era fatta allarmante.

La crisi economica presentava sintomi preoccupanti: nel 1993, quando la ripresa si manifestava negli Stati Uniti e nei maggiori Paesi europei, il tasso di crescita del prodotto lordo giapponese risultava addirittura negativo (-0,5%, a fronte di una media di +4,4% nel periodo 1985-92). Il valore tornava positivo solo nel 1995 (+0,9%): tuttavia, era di gran lunga il più basso dell'area asiatica orientale e meridionale. Nello stesso anno, la rivalutazione dello yen (+20% nei confronti del dollaro) e la forzata apertura del mercato interno sotto la pressione statunitense determinavano un'improvvisa e forte riduzione dell'attivo commerciale. Le piccole e medie imprese, i cui prodotti avevano cessato di essere competitivi, subivano un contraccolpo tale da dover fronteggiare in molti casi la chiusura; il tasso di disoccupazione – fenomeno pressoché sconosciuto fino a un recente passato – saliva al 4,7% (1999), tendendo alla soglia del 5%; i prezzi al consumo diminuivano, ma calava anche la domanda interna, che si rivolgeva comunque, massicciamente, ai prodotti esteri, più vantaggiosi, venduti nei nuovi supermercati e discount delle periferie metropolitane. L'apparato produttivo entrava in recessione, con le inevitabili ripercussioni sul mercato mobiliare: così, l'indice Nikkei della borsa di Tōkyō, che aveva quotato fino a 35.000 punti nel 1990, precipitava al di sotto dei 15.000 punti nel 1997.

Il nuovo rallentamento dell'economia metteva in luce come il Giappone fosse rimasto intrappolato in una morsa deflazionistica: la politica monetaria non era riuscita a stimolare la crescita degli investimenti privati, mentre la politica fiscale e i programmi di spesa in opere pubbliche incontravano un limite nell'espansione del disavanzo di bilancio e del debito pubblico (prossimo, nel 1997, al 100% del PNL). La progressiva svalutazione dello yen favoriva, se non altro, le esportazioni, facendo crescere il saldo della bilancia commerciale: ma la diminuzione delle importazioni danneggiava i maggiori partner mondiali del Giappone, inducendoli a sollecitare riforme strutturali mirate ad aprire il mercato giapponese e a rilanciarne i consumi. Venivano sempre più messi in discussione i fondamenti del “modello giapponese”, protezionista e fortemente controllato dallo Stato: i miti dell'“impiego a vita”, della “fedeltà all'azienda”, del “lavoro uguale missione”… E si riscontrava una stretta relazione fra le ristrutturazioni aziendali (con migliaia di posti di lavoro a rischio) e fenomeni come l'aumento del numero dei divorzi o il crollo del vecchio modello familiare.

Nel 1998, il premier Keizo Obuchi, alle prese con l’ennesima, grave recessione, annunciava il varo di un pacchetto di misure economiche in grado di fare uscire «definitivamente» il Paese dalle secche della lenta crescita alternata a periodi di vera e propria stagnazione. Da notare che nel solo 1998 i prestiti inesigibili ammontavano a circa un trilione di dollari: una montagna di instabilità pronta a innescare un effetto domino dalle inquietanti dimensioni. Solo la solidità del sistema-Paese nel suo complesso e l’eccezionale retaggio capitalistico del Giappone impedirono un esito catastrofico di stampo latinoamericano. Le misure governative ebbero sull’economia giapponese un effetto rivitalizzante, “adrenalinico”, tale da confortare le speranze di tutti: anche quelle del Presidente degli Stati Uniti Clinton, fermamente convinto che il Giappone dovesse perseguire politiche fiscali e monetarie espansive, che segnassero cioè un’inversione di tendenza rispetto alla tradizionale strategia basata sulle esportazioni...

Così, da parte della Fed, vennero concessi miliardi di dollari in cambio di titoli di Stato per evitare il fallimento delle banche e del sistema finanziario. Le banche giapponesi erano detentrici del 4% del debito statunitense: quindi, la crisi finanziaria avrebbe coinvolto pure gli Usa (i suoi titoli di Stato); e anche i privati vi sarebbero coinvolti, in quanto il 17% degli impieghi bancari era in mano agli istituti bancari giapponesi. Si presero allora forti misure di ritorsione contro il Dawa, decimo istituto finanziario giapponese (un buco di duemila miliardi di dollari in speculazioni nascoste agli azionisti), con l’espulsione dagli Usa e il pagamento del “buco”. Le undici maggiori banche subirono un calo del 90% degli utili. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, un istituto di credito, la Sumimoto bank, la prima in Giappone e nel mondo, registrava perdite per circa tre miliardi di dollari. Altre due banche fallivano in un’atmosfera di scandali politici, mettendo in luce la grande portata di debiti irrecuperabili, una massa monetaria valutabile intorno ai 460 miliardi di dollari! Per rafforzare la credibilità del sistema finanziario vennero rafforzati i fondi per l’assicurazione sui depositi di un migliaio di istituzioni finanziarie. E si creò una banca a capitale pubblico per rilevare le società di credito al consumo sull’orlo del fallimento.

Nel corso del 1995, si viene poi a sapere che la Cosmo Credit Union, uno dei colossi del credito al consumo, ha il 73% dei suoi crediti inesigibili: si assiste a un panico “tipo 1929”, con assalto agli sportelli. La Banca Centrale fa da garante trasferendo fondi di garanzia per 20 miliardi di dollari; la clientela si fa restituire una somma pari a 1600 miliardi di lire; la preoccupazione sulle sorti del sistema bancario giapponese è in rapporto con il suo peso internazionale: i primi nove colossi del credito sono giapponesi e nella classifica dei primi venti posti ci sono 13 istituti giapponesi. Tali dimensioni si erano andate creando parallelamente alla crescita dell’economia giapponese degli ultimi 40 anni, segnata da un costante avanzo commerciale, che compensava ampiamente il deficit della bilancia dei servizi (sempre in disavanzo).

Dopo la recessione del 1997-98, la più grave del dopoguerra, nel primo semestre del 1999, l'economia giapponese registrava alcuni segnali di ripresa: il PNL tornava a crescere, la borsa risaliva e aumentavano gli investimenti di capitale e i consumi privati. La crisi delle Tigri Asiatiche di fine anni ’90 e l’ascesa del capitalismo cinese e, in parte, di quello indiano, concorsero a depotenziare la strategia asiatica del capitale giapponese. Vedremo in un prossimo articolo come la crisi non venga superata.

(1 – continua)

 

NOTE

(1) Un processo del tutto simile avrà luogo in Cina (vedi la serie di articoli, usciti sui nn.3-4, 5 e 6/2014 de il programma comunista).

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.