Nel quadro generale della contemporanea fase imperialista del modo di produzione capitalistico, e in un processo tutt'altro che indolore seguito alle sconfitte delle fiammate rivoluzionarie della Comune di Parigi e dell’Ottobre Rosso, la struttura sindacale s’è via via trasformata in un vero e proprio organo statale di controllo economico e sociale della nostra classe. Tuttavia, l’approfondirsi della crisi renderà evidente la necessità di un movimento di difesa economica e sociale che si coaguli intorno a metodi e obiettivi classisti e quindi si strutturi in una differente “forma di organizzazione”, in modo da poter, con forza e determinazione, disarticolare ovunque questo controllo.

Ormai agonizzanti, i sindacati istituzionalizzati cercheranno sempre più di rinchiudere i lavoratori in settori e interessi corporativi: alimenteranno disperatamente l'illusione che si possa vivere e sopravvivere assecondando l'interesse generale delle economie nazionali e di una loro possibile ripresa con il sacrificio via via di questo o quel settore proletario. D’altro lato, sempre più urgente risulterà invece la necessità di un’organizzazione che unifichi in lotte sempre più estese e centralizzate tutti i venditori di forza lavoro.

Ma, per risultare vincenti, le lotte sviluppatesi a partire dai singoli posti di lavoro, dalle singole aziende, dovranno uscire da quelle galere, oltrepassando i limiti di categorie e comparti e allargandosi sul territorio con strutture (sul modello, più combattivo e operativo, delle Camere del Lavoro) che non siano più solo “intercategoriali” o “confederate”: strutture estese, permanenti, che rifondino in un percorso di battaglia un sindacato di classe, per la difesa solo ed esclusivamente delle condizioni di vita e di lavoro di tutti i lavoratori dipendenti: occupati, pensionati, femmine, maschi, indigeni e migranti, in cerca di un'occupazione, licenziati...

In questo percorso, che cosa ce ne faremo della tanto agognata “democrazia sindacale”? Al riguardo, riproduciamo di seguito parte del nostro opuscolo “Per la difesa intransigente delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari – Forme di organizzazione, metodi e obiettivi di lotta”.


 


 

Nell’attuale epoca imperialista, la trasformazione dei sindacati in strutture totalmente integrate nello Stato borghese ha trovato facile sponda nell’opportunismo di ogni colore e sfumatura (socialdemocratico, staliniano e “post-staliniano”, social-religioso, fascista e nazional-socialista, operaista, e perfino – per quel poco che ne rimane – anarcosindacalista). Ha trasformato il finanziamento dell'organizzazione, che doveva rimanere un mezzo materiale di autodifesa, in un vero e proprio affare.

In tutti i paesi, vuoi con forme di sostegno diretto (un tot per ogni iscritto) o indiretto (il “volontario” versamento dalla busta paga alla sigla sindacale tramite l'azienda), vuoi attraverso la gestione dei cespiti previdenziali e le compartecipazioni negli istituti che gestiscono le assistenze, i sindacati ufficiali vivono e prosperano come parassiti sull’insieme dei lavoratori. La loro funzione di burocrati servili si esercita poi al massimo grado durante gli scioperi, quando essi “ridistribuiscono” in modo clientelare e interessato parte di quanto accantonato. In tutti i paesi, lo Stato sostiene economicamente le organizzazioni sindacali nazionali, mettendole al riparo dagli attacchi del proletariato, insofferente del continuo ripiegamento e delle ripetute sconfitte: è quindi lo Stato borghese ad esercitare così, in ogni modo, un controllo sociale sul proletariato e sulla massa degli iscritti sindacali.

Per spazzar via tale marciume, non ci sono scope d’acciaio che bastino: solo la radicalizzazione delle lotte potrà distruggere queste vere e proprie, borghesissime “agenzie del lavoro”.

Inoltre, la “democrazia sindacale”, ovvero le diverse forme di organizzazione interne che le tre Confederazioni (Cgil, Cisl, Uil) si sono date, pesa come un macigno tremendo sulla spontaneità, sulla vitalità e sul futuro della classe proletaria. Se un tempo la composizione operaia del sindacato (Cgil) ci permetteva di guardare con interesse alla possibilità di conquistarne la direzione, “anche a suon di legnate”, oppure di recuperarne almeno il nucleo originario di classe (finalità, metodi di lotta, obbiettivi), oggi questa possibilità è definitivamente chiusa ed esclusa. Contenuto corporativo e forma hanno ucciso quello che un tempo collocava questo sindacato nella corrente del movimento operaio (non abbiamo mai tenuto in conto tale possibilità per i sindacati gialli e bianchi, Cisl, Uil e altri). Tutte le federazioni di categoria si muovono nella stessa direzione: Fiom e componenti della cosiddetta “sinistra sindacale” servono solo da spalla e da copertura, e la “democrazia sindacale” di continuo agitata da costoro o le percentuali di opposizione esibite in un corpo dittatorialmente coeso hanno il compito di mostrare una facciata pluralista coltivando l’illusione che, con qualche restauro di “democrazia interna”, questa o quell’organizzazione potrebbe essere rimessa a disposizione dei lavoratori.

Nostro obbiettivo è al contrario quello di svelare dall’interno e dall’esterno delle lotte quella che non è più una tendenza, ma un’alleanza strategica con lo Stato borghese nella difesa aperta della sua economia.

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Un sintomo dell’attuale debolezza del movimento rivendicativo dei lavoratori è il continuo richiamarsi alla così detta “democrazia operaia”, in modo strumentale sia da parte dei sindacati istituzionalizzati che da parte dei sindacati di base.

Certo, la strumentalizzazione non è identica. Il “sentimento democratico” dei sindacati istituzionali non fa altro che ricalcare i riti e gli istituti della democrazia borghese (referendum, scheda, voto segreto, ecc.), mentre quello dei sindacati di base si richiama demagogicamente all’assemblearismo: ma in ogni caso la “sensibilità democratica” dei lavoratori, a cui si rifanno sempre tutti i riformisti, è solo un riflesso conservatore tra le masse proletarie, una manifestazione dell’ideologia borghese mediata da luoghi comuni, demagogia e illusionismo.

La “democrazia operaia” intesa come un “principio di organizzazione e di lotta” è succube di troppe ambiguità: con l’inflazione delle categorie di lavoratori, di federazione, di comparti geografici, di aziende, si moltiplicano gli interessi artificialmente contrapposti, mediabili con il trucco democratico, ma difficilmente unificabili in un fronte unitario di obiettivi.

La “democrazia operaia” può essere tutt’al più utilizzata come un espediente attraverso il quale una minoranza d’avanguardia può ratificare il successo di una lotta. Ben altri sono gli strumenti attraverso i quali i contenuti e i metodi della lotta rivendicativa si fanno organizzazione e azione collettiva, capaci di trascinare e coinvolgere il grosso dell’insieme dei lavoratori: sono i picchetti, il blocco delle merci, le “spazzolate” dei crumiri – strumenti tutti che esulano da maggioranze quantitative, ma che dimostrano, con la scienza dell’azione di classe, la qualità operativa di una “maggioranza” in lotta; la forza dei lavoratori non può aspettare l’unanimità dei lavoratori, ma il suo dispiegamento organizza i lavoratori stessi in “maggioranza”, trascinando i riottosi e i titubanti e perfino quelli che di lotta proprio non vorrebbero neppure sentir parlare.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2014)

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