Lo dimostra la vicenda di una delle realtà produttive sindacalmente più arretrate del Nord Est italiano

Anche dalle lande più o meno pacificate del Nord Est d'Italia arrivano segnali di una ritrovata capacità operaia di difendersi dall'arroganza padronale con le tradizionali armi dello sciopero e della solidarietà di classe. Intorno a metà maggio, lo sciopero degli operai del reparto “macchine industriali” della Danieli di Buttrio (Udine) ha avuto grande spazio sulla stampa e sui media locali, e non per caso. In un panorama estremamente depresso, fatto di fallimenti, chiusure di fabbriche e centri commerciali, di licenziamenti e disoccupazione crescenti, di cassa integrazione in aumento, di lotte frammentate, quasi sempre votate alla sconfitta, non poteva non aver risalto uno sciopero – il primo dopo 26 anni! – nella principale fabbrica del Friuli. Per avere un'idea di cosa rappresenta la Danieli per il Friuli – conosciuto come "modello" industriale basato sulla piccola e media impresa – basti questa autopresentazione dell'azienda:

"Danieli è tra i tre maggiori fornitori di impianti ed attrezzature per l'industria dei metalli, in tutto il mondo. Danieli è un produttore leader di miniacciaierie, di impianti di fusione e di laminazione di prodotti lunghi, e tra i primi posti nella lavorazione di prodotti piatti e minerali di ferro. Dal 1964 le divisioni ad alta specializzazione del Gruppo Danieli hanno fornito ai clienti impianti completi chiavi in mano e progettazione di sistemi in tutto il mondo. I nostri laboratori sono dotati di macchinari altamente tecnologici per la produzione di componenti singoli e piccoli lotti di dimensioni medio-grandi, compresi gli strumenti di taglio e rettifica. Una gamma completa di test di conformità e qualità sono effettuati prima e durante la produzione e sul prodotto finito, con aree e dispositivi dedicati."

 

Lo stabilimento di Buttrio, con i suoi oltre 2000 dipendenti, è solo una delle tante sedi produttive di una multinazionale presente in diversi paesi. Si tratta di produzioni di altissimo livello tecnologico, che fanno della Danieli un leader di settore a livello mondiale, ai vertici per capacità competitiva. La produzione è destinata ai mercati mondiali, dove la competizione, già durissima, è resa ancor più aspra dalla crisi. Innovazione, efficienza, capacità di utilizzare le opportunità di acquisire risorse e sostegno dalla "politica" sono le armi di questa avanguardia nella guerra economica connaturata al modo di produzione capitalistico. I fronti su cui si combatte questa guerra sono mobili e superano ampiamente i confini nazionali. Solo un anno fa l'azienda ha acquisito una acciaieria in Croazia, incassando un credito della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers) per la modernizzazione degli impianti. Commentando l'acquisizione, nell'occasione il massimo dirigente dell'azienda friulana aveva dichiarato: «Se saremo soddisfatti dall’investimento di Sisak lo vedremo tra un anno circa, perchè è una cosa che parte e la Croazia è un Paese in evoluzione. Dipenderà da noi e da quanto l’ambiente sarà 'friendly’. Sin qui la situazione è molto positiva, con il governo che ci ha aiutato. A fronte di problemi hanno reagito in maniera costruttiva. Vedremo se fra un anno la situazione continuerà a essere la stessa, come è negli auspici» (“Messaggero Veneto”, 12.04.2012).

Sarà un caso, ma a distanza proprio di un anno, l'azienda di Buttrio ha deciso di imporre un netto peggioramento nella turnazione del reparto macchine. La guerra sui mercati mondiali impone l'irreggimentazione delle forze di lavoro, la loro completa subordinazione alla logica aziendale, tanto più che rimane sempre la possibilità – usata come arma di ricatto – di uno spostamento delle produzioni nella vicina Croazia, dove l'ambiente deve essersi confermato, evidentemente, abbastanza "friendly", o in luoghi altrettanto amichevoli. Potrebbe essere l'inizio di una dura battaglia in fabbrica dove gli operai saranno chiamati a difendere le loro condizioni di vita e di lavoro, sotto minaccia di ridimensionamenti, chiusure di reparti, licenziamenti. La logica del capitale tende ad affermarsi oltre ogni ostacolo: se gli stabilimenti in Croazia o in Cina promettono saggi di profitto più elevati in virtù di un minor costo unitario del capitale variabile, l'unica ragione per mantenere la produzione in Italia dipende dall'intensificazione dello sfruttamento attraverso un aumento della giornata lavorativa, che nel caso di Buttrio passa attraverso modifiche della turnazione.

Si tratta di questo: mentre fino ad oggi i turni nel reparto macchine erano di 6 ore e mezza, con l'ultima mezz'ora dedicata all'avvicendamento nei cinque turni settimanali, la modifica imposta dall'azienda pervede una riduzione dei turni a 6 ore. In tal modo l'avvicendamento passa a carico dei lavoratori, che dovranno presentarsi prima dell'inizio turno e andarsene più tardi per consentire il passaggio di consegne. Va detto che le mansioni in questo reparto ad alto contenuto tecnologico richiedono operazioni di grande precisione che non possono essere avviate senza altrettanto precise indicazioni. In questo modo, l'impresa si sgrava del carico della mezz'ora di salario e l'operaio perde circa 600 euro all'anno, fornendo all'impresa del lavoro gratuito. Non basta: per raggiungere le ore contrattuali settimanali, i turni passano da cinque a sei. Il risultato è che le condizioni di lavoro diventano insostenibili. L'ultimo turno notturno settimanale termina alle 6 del sabato e riprende alle 24 della domenica successiva. Così la domenica, è il caso di dirlo, va a farsi benedire, con buona pace dei preti che non perdono occasione per lamentarsi dei guasti procurati alla sacra istituzione famigliare. It's the economy, stupid!, verrebbe da dire a quanti, dai pulpiti ecclesiastici o dai palchi riformisti, gridano contro il capitalismo "cattivo", riempiendo le teste di illusioni fondate su buoni propositi.

Così stanno le cose, e alla fin fine è stato chiaro a tutti gli operai che non c'era alternativa alla lotta. La durezza delle condizioni di vita e di lavoro, le rinunce sempre più insostenibili, hanno spinto i lavoratori di una fabbrica sindacalmente tra le più arretrate a intraprendere una battaglia coraggiosa contro vertici aziendali, conosciuti come inflessibili e assai poco propensi a mediazioni: alla proclamazione da parte della Fiom di uno sciopero con presidio nel corso del turno tra domenica notte e lunedì 13 maggio scorsi, ha risposto il 90% dei circa cento operai del reparto macchine. Un grande successo in una fabbrica dove non si vedevano scioperi dai primi anni '80.

L'iniziativa apre nuove prospettive in un ambiente dove le relazioni sindacali sono da molto tempo condizionate dalla totale autonomia decisionale dei vertici dell'azienda su tutto ciò che riguarda le condizioni di lavoro. Vertici che non mancano di ribadire ad ogni occasione la propria indiscutibile autorità – lo scorso anno, i dipendenti hanno ricevuto una letterina dalla direzione delle risorse umane che recita:

«Al fine di ottenere la massima collaborazione da parte di tutti nella struttura organizzativa alla quale lei appartiene – è scritto nella comunicazione datata luglio 2012 –, con la presente desideriamo sensibilizzarla sulla necessità di maggior presidio e focalizzazione verso il raggiungimento degli obiettivi prefissati [...]. Abbiamo invece constatato che in più occasioni nell’ultimo periodo lei non ha fornito la disponibilità e flessibilità necessarie a raggiungere gli obiettivi assegnati all’ufficio in cui è inserito. Per questa ragione – prosegue la lettera – le chiediamo di avvalersi della collaborazione dei suoi responsabili affinché possa mettere in atto tutte le modalità ritenute utili al fine di incrementare ulteriormente la sua produttività individuale».

A questi toni da "padrone del vapore" si accompagnano atteggiamenti paternalistici e premiali: si tratta pur sempre di un'azienda che fa grandi profitti e che può permettersi qualche benevolo incentivo individuale in cambio di una completa subordinazione alle condizioni imposte. Qualunque attività sindacale in un simile contesto si presenta assai difficile, come la storia recente delle Rsu aziendali dimostra. Nel 2008, l'esito delle elezioni per le Rappresentanze, cui partecipò la sola Fiom, non fu riconosciuto dall'azienda che ne contestò la regolarità. Ne seguirono un lungo contenzioso, mai risolto, e la delegittimazione delle RSU, escluse da qualsiasi confronto con la direzione. Le attuali RSU sono state elette nel 2011, sempre con la presenza della sola lista Fiom, e con una partecipazione ancora bassa in rapporto al totale dei dipendenti (336 su 2000) ma pur sempre doppia rispetto alla precedente consultazione. Era comunque un segnale che qualcosa stava cambiando e che tra gli operai, specie tra quelli a più basse mansioni, spesso stranieri, cresceva la volontà di difendersi dall'autocrazia di fabbrica.

Andando ancora più indietro nel tempo nella storia di questa azienda, l'esordio di relazioni sindacali "modello FIAT" si può collocare a partire dalla metà degli anni '80. Fino ad allora, la Danieli era portata a esempio di corrette relazioni sindacali: sembrava incarnare la possibilità di coniugare i successi aziendali con gli interessi operai. Addirittura, in contrasto con la politica confindustriale, l'azienda non riconobbe la disdetta della scala mobile del 1982, e riservava ai suoi dipendenti condizioni retributive migliori rispetto agli standard nazionali, allora in rapido peggioramento. Ma in quello stesso periodo, grazie alla completa assenza di conflittualità in fabbrica, l'azienda era riuscita a piazzarsi tra le prime cinque al mondo nel proprio settore, con commesse in vari continenti, entrando così in una dimensione fortemente competitiva che mal si conciliava con la politica sindacale, fino a quel momento pagante, volta alla conciliazione e al confronto. Da quel momento, le turnazioni, i carichi di lavoro, la nocività in fabbrica peggiorarono drasticamente; contemporaneamente, il rapporto coi sindacati divenne di totale chiusura, fino al completo disconoscimento del loro ruolo, se non come mero supporto alla politica aziendale. L'attacco ai comportamenti sindacali non conformi alla nuova logica, con spostamenti di reparto e licenziamenti, minacciati e talvolta attuati nei confronti dei delegati più combattivi, trovò un valido alleato nei vertici della Fim/Cisl, come da consolidata tradizione.

Cadde allora l'illusione, coltivata dai riformisti di tutte le salse, di un legame tra i successi aziendali e la condizione operaia: accadeva invece che proprio il successo internazionale dell'azienda fosse all'origine di una svolta brutale nelle relazioni di fabbrica, nei carichi di lavoro e nelle retribuzioni. Seguirono decenni di assenza totale di conflittualità, con la completa metamorfosi della Danieli da “modello di relazioni sindacali” a “modello di efficienza e competitività”. Si è infine giunti alla vertenza di oggi, che se pure paga il conto di un lunghissimo periodo di silenzio, rappresenta tuttavia una svolta di grande significato.

Dopo il primo sciopero, le assemblee dei lavoratori hanno approvato a grande maggioranza (95%) una controproposta di mediazione che viene incontro alle pretese padronali: le ore di produzione, che l'azienda aveva portato da 138 a 144 al mese, si fermerebbero a 141; l'accavallamento dei turni, azzerato dall'azienda, scenderebbe da mezz'ora a 15 minuti; il primo turno settimanale inizierebbe alle 6.00 del lunedì anzichè a mezzanotte, l'ultimo dovrebbe finire alle 3.00 di domenica, "salvando" in qualche modo il giorno festivo. Se anche questa proposta venisse accolta, si tratterebbe comunque di un peggioramento rispetto alla situazione precedente, che ha incontrato l'opposizione di una minoranza di lavoratori in assemblea. Ma se le Rsu hanno scelto, com'era prevedibile, un atteggiamento non di scontro diretto, ma di mediazione, l'azienda ha risposto con una totale chiusura. Le trattative si sono ben presto interrotte e il sindacato ha confermato altre iniziative. A questo punto, è evidente la volontà padronale di riaffermare la propria completa autonomia decisionale, di spegnere con tutti i mezzi il focolaio di resistenza operaia che si è acceso.

La lotta alla Danieli, appena iniziata, è destinata dunque a continuare, e daremo conto dei suoi sviluppi per la valenza quasi simbolica che assume in un momento così povero di risposte operaie al costante degrado delle condizioni di lavoro e di vita, oltre che per il peso economico dell'azienda. Possiamo fin d'ora riconoscere il suo principale limite, condiviso con tutte le lotte che si manifestano di questi tempi, nell'isolamento a cui la situazione generale la condanna. Quali ne siano gli sviluppi e gli esiti, rimane tuttavia un segnale che richiama la necessità di estendere le lotte oltre i cancelli delle fabbriche e delle aziende, oltre i confini di categoria e di condizione occupazionale. Rimane un esempio che apre la strada a nuove lotte attraverso le quali potrà crescere la solidarietà di classe tra tutti i proletari, la coscienza della propria forza potenziale e della necessità di creare organismi di difesa sindacale all'altezza dei tempi – durissimi – che stiamo attraversando e che verranno.

La vicenda, e la storia delle relazioni sindacali alla Danieli, ripropongono un insegnamento che ha perenne validità in regime capitalistico: il successo competitivo di una azienda, la sua capacità di fare profitti, passano attraverso la completa subordinazione della forza lavoro, dipendono dalla capacità del sistema di fabbrica di estrarre plusvalore, di aumentare la parte di lavoro non pagato in forma relativa – attraverso l'impiego di macchinari che risparmiano lavoro – e in forma assoluta, intensificando il lavoro o allungando la giornata lavorativa. E' questa una legge connaturata all'azienda capitalistica e alle condizioni di mercato in cui opera, condizioni che devono garantire la riproduzione del capitale per la ripresa di un nuovo ciclo: nessuno può sfuggirvi, meno che mai quando la crisi morde e la competizione tra le imprese si fa estrema. Essa implica che all'intensificazione dello sfruttamento dei proletari occupati corrisponda una crescente sovrappopolazione operaia, sempre disponibile al lavoro ma non occupata, od occupata in forme sempre più precarie e sottopagate; implica miseria crescente e l'aumento dell'insicurezza e dell'incertezza nel domani, nel futuro proprio e dei propri figli. Tutto ciò lega indissolubilmente il destino degli operai di ogni azienda ai proletari che stanno fuori della fabbrica, e richiede, oggi più che mai, l'unità internazionale di tutti i proletari in risposta alla logica di divisione e di competizione imposta del capitale.

E' questa stessa legge che spinge oggi gli operai di Buttrio a difendersi, a riaffermare le proprie necessità di esseri umani contro la logica del profitto, e che domani spingerà di nuovo sulla scena storica masse di senza riserve a lottare per una società finalmente umana, oltre i confini delle nazioni.

P. S.: Nel frattempo la vertenza si è conclusa con la completa accettazione della proposta operaia da parte dell'azienda. Una "vittoria", se si considera il contesto in cui è maturata, ma che ratifica un peggioramento della condizione lavorativa. Probabilmente anche questo esito rientrava nei calcoli di un'impresa tanto efficiente.

 

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°04 - 2013) 

 

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