"Il capitalismo statale non è solo l'aspetto più recente del mondo borghese, ma le sue forme anche complete sono antichissime e corrispondono allo stesso sorgere del tipo capitalistico di produzione; hanno servito da fattori primi della accumulazione iniziale ed hanno preceduto il fittizio e convenzionale  ambiente, che si incontra assai più nel campo dell'apologia che in quello reale, della intrapresa privata, della libera iniziativa, ed altre belle cose" (“Dottrina del diavolo in corpo”, Battaglia comunista, 1951)

 

Di questi tempi, nei dibattiti sulla carta stampata o via etere, fioccano le domande e i dubbi amletici del tipo: ma questo capitalismo, è davvero il migliore dei mondi possibili? Non se lo chiedono ancora i proletari, alle prese col problema di mettere insieme il pranzo con la cena (la domanda verrà loro spontanea quando diventerà ancora più difficile farlo), ma il “fiore” degli economisti e dell'intellighenzia borghese. Qualche accademico arriva perfino a preconizzare la fine storica del capitalismo come tale, concedendogli al massimo qualche decennio di esistenza stentata e turbolenta (1), ma i più sono all’affannosa ricerca di "modelli" diversi di capitalismo che siano in grado di sostenere l'enormità delle contraddizioni, e di farmaci che dovrebbero garantire al decrepito malato di rimettersi in piedi, vispo e arzillo come ai bei tempi (2). Ora, siccome tra tutti i concorrenti è la Cina a dimostrare ancora vitalità e alti tassi di crescita, sarebbe il "modello" cinese quello a cui guardare, per mutuarne i fattori di efficienza e competitività internazionale. L'Economist ha dedicato una serie di articoli alla ricomparsa, con l'ascesa della Cina, del "capitalismo di Stato", con tanto di immagine di Lenin in copertina (3). Solo che, ohibò, questa benedetta Cina è ben lontana dal riprodurre il modello ideale che da trent'anni viene decantato dal neoliberismo e che si incentra sulla formula: "meno Stato, più mercato". Quello cinese è dipinto come un modello di capitalismo "centralizzato", dove lo Stato interviene massicciamente in economia. Sono proprio tempi questi, in cui le certezze vacillano... Vuoi vedere che a far da modello di efficienza è proprio il vituperato Stato? Se così stanno le cose, si legge ad esempio sul Corriere della Sera del 23 gennaio scorso: "in discussione è l'anima stessa del capitalismo", sarebbe a dire la capacità del mercato di attivare forze creatrici di nuova ricchezza (4).

 

A leggere affermazioni come queste, viene da chiedersi se il quotato articolista del Corriere sia vissuto finora nel mondo degli gnomi; a sentir lui il Capitalismo sarebbe stato fino a ieri una realtà dinamica, la "forza motrice del mondo", e solo dopo la crisi del 2008 si starebbe trasformando in un "club chiuso", dove le differenze sociali appaiono "ingiuste, non meritate, perché non frutto di imprenditorialità, di premio del lavoro, ma risultato di rendite e di partecipazione ai network del potere e del denaro". Egli constata che la globalizzazione ha portato il capitalismo nei Paesi emergenti, ma non per questo "è stata l'economia aperta a trionfare, il libero gioco degli individui che alla fine risulta nella benefica mano invisibile del mercato"; trionfano invece "potenti conglomerate che usano denaro pubblico e agganci politici per fare spazio nelle economie domestiche e internazionali". In breve, se ben comprendiamo, da una parte - a Occidente - ci sarebbe un capitalismo genuino e vitale, creativo, dove l'Individuo è libero di trarre profitto dalla propria intraprendenza, mentre a Oriente - forse perché sono rimasti un po'… "comunisti" -  e in generale negli emergenti, il Capitalismo non si associa al "privato" ma allo Stato (totalitario). Il fine ragionamento - supportato da convincenti dati statistici - si conclude con una rivelazione che lascerà il segno: "Il fatto più straordinario è però che lo Stato sia sempre più determinante anche in quella che una volta [?] era la terra del libero mercato, l'Occidente". Che sarà successo dunque? Quali forze maligne si sono scatenate trasformando in poco tempo la ridente valle capitalista nell'oscuro regno del tirannico Stato?

 

Il problema che ci poniamo a questo punto - prima di passare a smantellare questa sgangherata costruzione ideologica ancorandoci ad alcuni inossidabili nostri testi degli anni Cinquanta  - è di sensibilità umana: chi glielo va a dire al giornalista che lo Stato è legato al capitalismo e al mercato fin dalle origini e che i due termini sono tra loro indissolubili da sempre? Sta di fatto che "poiché mercato vi sia, occorre che una forza superiore impedisca ai contraenti di sostituire il patto con la rissa. Una società che vive di merci deve avere un potere organizzato" (5). Non pare poi così difficile da capire.

 

Cominciamo con la questione dei "modelli" di capitalismo. Le categorie entro le quali si muove - annaspando - il pensiero economico borghese si modulano tra i due poli estremi di Stato e Mercato, nel cui intervallo si colloca una varietà di possibilità (modello renano, modello anglosassone e ora... cinese: dipende un po' dall'aria che tira...).  Questa pretesa di stabilire delle distinzioni qualitative fra capitalismo e capitalismo sulla base di una prevalenza dell'elemento “privato” su quello “pubblico” o viceversa, la liquidiamo con la semplice formula che "il capitalismo è uno solo, inteso come epoca storica e tipo di produzione" (6). Lungo il suo corso storico, il capitalismo si fonda su due presupposti basilari: "Uno, che non sia intaccato né intaccabile il diritto dell'impresa di produzione a disporre dei prodotti e del ricavo dei prodotti... L'altro punto è che le classi sociali 'non hanno confini chiusi'" (7). Il primo presupposto è di per sé sufficiente a determinare il carattere privato dell'appropriazione (non dell'economia, dunque, ma del titolo giuridico di proprietà) dei beni e l'esistenza dello scambio e del mercato; il secondo contiene all'estremo la possibilità che vi possa essere capitalismo senza la classe fisica dei capitalisti, cioè che si presenti nella forma di capitale anonimo, senza per questo mutare di un nulla la propria natura. Lo sviluppo del capitalismo s’indirizza con tutta evidenza in questa direzione, al punto che perfino lo slogan un po' ingenuo di Occupy Wall Street, “il 99% di sfruttati contro l'1% di profittatori”, contiene un'intuizione a suo modo profetica e scientificamente fondata. Si va in quella direzione.

 

Lo sviluppo del capitalismo non ne trasforma i caratteri basilari e i presupposti, pur nel mutare delle condizioni storiche. Dal punto di vista della struttura economica, vi si possono riconoscere tre fasi: 1- l'iniziale accumulazione di massa monetaria dalle forme storiche di capitale usuraio e commerciale e l'utilizzo di forza lavoro associata libera da vincoli servili, commercio estero e oltremare nel primo colonialismo; 2- macchinismo e passaggio dalla supremazia commerciale alla supremazia dell'industria; 3 - imperialismo e ultimo colonialismo, quando "i bianchi colonizzano i bianchi".

 

"Le tre fasi hanno strettamente comune il comportarsi della borghesia come classe, l'esercizio del suo monopolio sociale sulle forze produttive, dal cui controllo sono escluse le classi lavoratrici, l'impiego della forza dello Stato senza limiti e scrupoli come 'agente economico' e del governo come borghese 'comitato di interessi', anche quando può essere spinto al massimo inganno ideologico della libera iniziativa economica e della democrazia politica. Non occorre richiamare tutto questo per mostrare che il confronto tra i fenomeni delle due fasi estreme, e più espressive, della tirannia capitalista, è pieno e probante." (8)

 

 Il passaggio dalle forme liberali alle forme dispotiche, dopo l'iniziale, altrettanto violenta, accumulazione originaria, non rappresenta un mutamento qualitativo, ma è dato "da enorme divario di sviluppo quantitativo, come intensità in ogni metropoli e diffusione nel pianeta" (9). Se sono dunque le dimensioni della produzione, delle aziende, dei mercati, ecc.. a determinare la necessità della direzione dispotica di un sistema così complesso, non rientra nel novero delle possibilità un rinculo verso forme liberali, per quanto l'epoca "gloriosa" del capitalismo venga costantemente evocata dai suoi corifei e si tenti affannosamente di riconoscerne i segni nell'epoca presente. Con l'ingresso nella fase imperialista, la formazione dei trust e dei monopoli, delle grandi società anonime, la dominanza del capitale finanziario, lo Stato assume un ruolo sempre più decisivo e interventista nella società e nell'economia, proprio in ragione del fatto che la produzione stessa è già nella sua struttura sociale, e cozza con la forma ancora privata della appropriazione:

 

"Col giganteggiare della produzione industriale moderna 'il modo della produzione si ribella contro il modo dello scambio. Le forze produttive si ribellano contro il modo di produzione che esse hanno già superato. Il fatto che l'organizzazione sociale della produzione nell'interno della fabbrica ha raggiunto il punto in cui diventa incompatibile con l'anarchia della produzione esistente nella società accanto ad essa e al di sopra di essa, questo fatto viene reso tangibile agli stessi capitalisti' ... 'E' questa reazione al proprio carattere di capitale delle forze produttive... che obbliga la stessa classe capitalistica a trattare sempre più come sociali queste forze produttive ... [che] spingono a quella forma di socializzazione di masse considerevolmente grandi di mezzi di produzione, che incontriamo nelle diverse specie delle società anonime... Ad un certo grado di sviluppo neppure quella forma è più sufficiente... In un modo o nell'altro, con trusts o senza trusts, una cosa è certa: che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve alla fine assumerne la direzione'" (10)

 

 Tanta insistenza su questa alternativa manichea, per cui il massimo Bene risiederebbe nel Mercato - luogo ove agisce la forza motrice e creativa del privato - e il massimo dell'Esecrabile in materia economica e morale nell'altro, disgraziatissimo, pubblico, lo spazio ove prosperano parassiti, furbi e fannulloni, si giustifica oggi per il fatto che tutta questa pretesa forza si va progressivamente indebolendo con il procedere della crisi di sovrapproduzione cronica, che va impantanando l'enorme massa delle merci nella palude mercantile. Il Capitale ha la necessità vitale di attivare al massimo le risorse dello Stato per dare alle imprese nazionali migliori condizioni per competere sui mercati mondiali, per piegare tutte le risorse della nazione - proletariato in primis - alla guerra (per ora) economica che il Paese deve affrontare sull'unico mercato che ha le dimensioni necessarie per assorbire le eccedenze della produzione, quello planetario. Tanto neoliberismo conduce dunque al suo apparente contrario: organizzazione e controllo dispotico della produzione e della società da parte dello Stato, con conseguente inflazione dello Stato. Si rafforza il carattere fascista dello Stato, "che è appunto il metodo di stretta organizzazione di classe della borghesia, che al tempo stesso dirompe il movimento operaio e impone date autolimitazioni, con cui, a fini appunto di classe, tenta frenare entro dati limiti l'impulso di ogni singolo capitalista e di ogni singola azienda verso il suo isolato vantaggio" (11).

 

Qui possiamo ricapitolare solo sommariamente le modalità attraverso le quali, in epoca imperialista, lo Stato, nella sua forma fascista o democratica, è intervenuto a salvare il Capitale prima dalla minaccia della rivoluzione proletaria con la sua violenza istituzionale, e poi dalla crisi di interguerra con l'interventismo delle opere pubbliche, la legislazione bancaria, il riarmo. Nel secondo dopoguerra, le partecipazioni statali e il welfare hanno costituito i pilastri dell'intervento in economia e del controllo sociale, alimentando l'illusione della possibilità di un "capitalismo dal volto umano". E' subentrato infine il periodo attuale, quello del dominante neoliberismo economico, che ha visto imporsi la speculazione finanziaria sui mercati mondiali, grazie alla "deregulation" a tutti i livelli e alla politica del "denaro facile" da parte delle banche centrali, a partire dalla Fed.

La più recente ed evidente dimostrazione dell'interventismo dello Stato in materia economica è l'enorme esborso di denaro pubblico, di qua e di là dell'Atlantico, per riempire le voragini senza fondo dei bilanci bancari, col bel risultato che le banche, commosse dalla sconfinata disponibilità di Pantalone, gli restituiscono il denaro (con gli interessi, naturalmente: altrimenti, che banche sarebbero?) acquistandone i titoli di debito, particolarmente redditizi proprio quando lo Stato è in crisi. In questo modo, la cosiddetta libera intrapresa - se tale si può chiamare la produzione frammentata in aziende piccole e medie, che a dispetto delle dimensioni ha tuttavia carattere sociale, essendo integrata nel sistema complessivo della produzione e del mercato - rimane a bocca asciutta, oppure deve rassegnarsi a tassi di interesse equiparabili a quelli dei BTP. Alla fine, un gran numero di queste chiuderà bottega, con vantaggio del Capitale anonimo e impersonale, concentrato in grandi società dove la proprietà d'impresa, di fatto abolita dal carattere sociale dell'organizzazione produttiva di simili bestioni, si ritrova nelle forme delle quote azionarie e dei tagliatori di cedole. Qui, il manager, cui si affidano le sorti del colosso, opera e prospera con capitale altrui, nulla rischiando di proprio, a differenza del libero imprenditore dell'ideologia del capitalismo pioniere, o del mito.

 

Il continuo reclamare che si deve lasciare spazio al privato risuona proprio quando tutto ciò che è privato viene sottoposto a una violenta espropriazione ad opera del sistema fiscale, questa "potente leva di espropriazione dei piccoli produttori e quindi di accumulazione capitalistica", e del debito pubblico che, "come per un colpo di bacchetta magica, ... dota il denaro improduttivo della capacità di procreare, e così lo converte in capitale" (12). In questa fase, fisco e debito pubblico continuano a svolgere la loro storica funzione in modo particolarmente violento, com’è dimostrato dall'agonia di migliaia di piccole imprese e dalla conversione di masse enormi di pubblico denaro improduttivo in capitale bancario.

 

La storiella che lo Stato gravi come un fardello sulle spalle della libera "economia privata" è un'altra delle panzane clamorose create dall'industria delle ciance, che tra tutte prospera alla grande. Gli "sprechi" di denaro pubblico fanno parte di un sistema intimamente dissipatorio, nel quale l'edificazione di opere pubbliche gigantesche lasciate poi degradare nell'abbandono ha già svolto la sua funzione economica di produrre profitti all'atto della costruzione, mentre il loro utilizzo più o meno "sociale" è del tutto secondario. Si sente martellare che è necessario privatizzare questo e quello per combattere sprechi e inefficienze: l'acqua e i servizi pubblici municipali sono i nuovi bersagli e non è così lontano il tempo in cui sarà il turno dell'aria e della luce solare, delle distese marine, delle cime innevate e di ciò che rimane al mondo. Ma che significa "privatizzare"? Significa che lo Stato o l'ente pubblico si libera della diretta gestione di un servizio e lo affida a una "società di comodo" creata ad hoc da gruppi privati che si propongono offrendo determinate garanzie: si tratta di "Alcuni tipi versati negli affari, che hanno uffici lussuosi e sono introdotti nelle anticamere economiche e politiche, non hanno però un soldo di proprio o intestato in titoli nominativi o immobili accatastati (...) fanno il 'piano' di un dato affare, e fondano una società che ha come solo patrimonio il piano stesso" (13).

 

Lo Stato svende le proprie attività a queste società che generalmente si finanziano 'a leva', o tramite il sistema bancario di cui sono sovente emanazione, e mentre lo Stato rinuncia alla gestione diretta, ma anche agli introiti che ne derivano, questi tipi versati negli affari e soprattutto ben introdotti incassano lauti profitti da un servizio che spreme all'osso i costi e grava pesantemente sull'utenza in termini di qualità e di prezzi. Con la stessa logica di capitale anonimo operano società internazionali (hedge funds) che acquistano 'a leva' intere attività a prezzi stracciati, le ristrutturano e le rivendono a prezzi gonfiati, assolutamente indifferenti all'oggetto della speculazione e interessate unicamente al profitto. Il moderno capitalismo non produce merci, produce plusvalore. In entrambi i casi, i nostri "privati" operano con soldi altrui e nulla rischiano di proprio. Mai l'imprenditore è stato così libero da quando può operare senza capitale proprio, affidandosi a una rete di interessi e relazioni che ne consolidano la posizione di potere e ne assicurano la protezione da gruppi concorrenti (possiamo chiamarli col loro nome: bande rivali); mai le banche sono state così libere di speculare a tutto campo, senza badare ai rischi, contando sulla benevola protezione dello Stato, che si incarica di recuperare le perdite dal corpo sociale.

 

"Privatizzare" significa quindi sottrarre attività di pubblico interesse a una gestione dei cui costi si fa carico lo Stato nel suo insieme, o che al più è attenta al pareggio tra entrate e uscite, e trasferirle a gruppi che operano come capitale anonimo, a una gestione finalizzata al profitto capitalistico. Altra balla clamorosa è che tutto ciò vada a vantaggio dell'utenza, in virtù dell'introduzione del fattore concorrenza in un determinato settore (14). I prezzi, anziché diminuire, sono aumentati, perché i tempi del capitalismo della concorrenza, se mai sono esistiti, sono tramontati da un pezzo e domina un regime di pochi grandi gruppi, attorno a cui ruota tutta l'economia. Che dire poi delle riforme delle pensioni e del mercato del lavoro, dell'accanimento dei governi del Capitale contro le condizioni di vita delle masse dei salariati? L'attacco ideologico allo Stato inefficiente è rivolto a giustificare lo smantellamento di quella sua parte che eroga le residue prestazioni "sociali", la cui privatizzazione implica la trasformazione in altrettanti settori di investimento di capitale produttivo (di interesse o profitto) e a rafforzarne, per contro, l'intervento a favore dell'impresa e del capitale anonimo. Nella fase imperialista, l'integrazione tra Stato e Capitale è massima, come massima è la pressione esercitata sul proletariato e sui settori in via di proletarizzazione.

 

Si va così riducendo progressivamente il Welfare pubblico, questo strumento di stabilizzazione e organizzazione del consenso. Gli sparuti fautori di un "ritorno" dello Stato all'occupazione di stimolare i consumi depressi gonfiando il deficit, anziché deprimerli ulteriormente con provvedimenti "lacrime e sangue", trovano poco credito - è proprio il caso di dirlo! - a causa dell'enorme esposizione debitoria tanto degli Stati quanto dei privati (banche), e appare sempre più chiaro che “non c'è trippa per i gatti”, almeno per la gran massa accusata di aver finora gozzovigliato, mentre la “trippa” abbonda ai piani alti, in particolare per i parassiti e i furbi veri che manovrano quantità enormi di denaro altrui affidando pure le decisioni, da fannulloni autentici, agli automatismi di complicati algoritmi.

 

Tanto i neoliberisti - fautori di un arretramento dello Stato - quanto i rari sostenitori di politiche "sociali" hanno in comune lo stesso scopo: salvare il Capitale. Destra e Sinistra borghesi sembrano del resto aver trovato anche una sintesi politica nella novità dei "governi tecnici", che ne rivela la sostanziale identità di obiettivi: nutrire il Capitale, affamare i proletari. Non per questo siamo gran che interessati a condannare il famigerato 1%, quanto a ribadire che chi ingrassa è il famelico Capitale, e lo fa come sempre accanendosi sulla medesima vittima: "Il capitale offre tutti i miliardi di quattro secoli di accumulazione per lo scalpo del suo grande nemico: l'Uomo"(15).

 

La concorrenza si mantiene nella competizione tra Stati in quanto rappresentanti dei rispettivi capitali nazionali, che tra loro si affrontano con spirito tutt'altro che liberoscambista, a colpi di dumping e protezionismo, specie quando i volumi del commercio mondiale si contraggono. Oltre al sostegno all'export, alle varie forme di protezionismo, all'azione diplomatica per favorire le imprese e altro, la guerra costituisce il supremo servizio dello Stato che mette tutte le sue risorse a disposizione della macchina capitalistica: la quale può finalmente girare a mille, sospinta dall'industria bellica e dalle distruzioni (la carne da macello viene eliminata in quanto costo eccessivo per le casse dello Stato in sussidi e pensioni, finalmente destinato all'azzeramento dall'impiego produttivo di stocks di bombe). Produttività ed efficienza sono da sempre le parole d'ordine più patriottiche: quel che non serve si butta.

 

La nostra corrente ha individuato proprio nel capitalismo di Stato la forma più alta di subordinazione dello Stato al capitale, in polemica con quanti vedevano nell'URSS e satelliti una forma intermedia tra capitalismo e socialismo. Oggi, tale subordinazione è così aperta ed evidente che si può parlare semplicemente di Stato del Capitale, del realizzarsi di una forma pura di dominio politico senza mascheramenti di sorta.

I centri della finanza internazionale dettano le condizioni agli Stati, impongono la politica economica ai Paesi che non realizzano un sufficiente grado di sfruttamento del proprio proletariato. L'azione di questi centri è internazionale, ma la loro base rimane nazionale; godono del sostegno degli Stati imperialisti più forti, che li alimentano con gigantesche erogazioni di denaro. A loro volta, i governi imperialisti usano la speculazione sia per trasferire all'estero una parte delle contraddizioni interne sia come arma di condizionamento politico in quella che ha i caratteri di una vera e propria guerra economica, con tanto di condizioni capestro per interrompere l'offensiva e reali spargimenti di sangue. In questo passaggio, che chiarisce chi comanda e chi esegue nel rapporto tra Capitale e Stato, emerge tuttavia l'estremo grado di debolezza di questo, la sua crescente difficoltà nel controllare il carattere anarchico della produzione e del mercato. Nel momento in cui procede nel tentativo di trasformare la società in una galera produttiva, lo Stato perde in capacità di controllo politico, e così accade che si "adoperi sempre meno ciancia liberale, e sempre più mezzi di polizia e soffocamento burocratico..." (16).

 

Tutto questo appartiene di diritto alla tradizione secolare dell'Occidente democratico e liberale e ne è il naturale compimento; la Cina, anche in questo, si limita a copiare.

 

 

NOTE

 

1- E' il caso del sociologo Immanuel Wallerstein, della scuola dello storico di F. Braudel, e di altri.

2- "’Capitalismo in crisi?’ è il titolo di una serie di articoli che stanno apparendo da alcune settimane sul quotidiano inglese The Financial Times. 'La grande trasformazione: dare forma a nuovi modelli' è invece il tema delle discussioni che si tengono [in questi giorni di febbraio] al Simposio di Davos. La convinzione di molti, che l’attuale crisi non sia solamente un incidente di percorso facilmente superabile, diventa dunque argomento di riflessione delle élite del mondo occidentale. Anzi, l’apertura di questo dibattito riconosce implicitamente che non è auspicabile rimettere in sesto le nostre economie per farle ritornare a funzionare come accadeva prima dello scoppio di questa crisi. In buona sostanza, molti riconoscono che l’attuale forma di capitalismo dominato dal capitale finanziario debba essere considerato un capitolo da chiudere e che ora si tratta di perseguire 'nuovi modelli più adatti ai nostri bisogni', come ha sostenuto il fondatore del Forum di Davos, Klaus Schwab" (A. Tuor, “E' la crisi del capitalismo?”, Corriere del Ticino, 27/1/12).

3- The Economist, 21 gennaio 2012.

4- D. Taino, “Neostatalista, rigido, negato al potere, il Capitalismo ha mutato anima”, Corriere della Sera, 23/12/2012.

5- “Nel vortice della mercantile anarchia”, Battaglia comunista, n.9/1952. Ricordiamo che Battaglia comunista era allora il nostro giornale quindicinale, prima del cambio di testata e della nascita da Il programma comunista.

6- “Imprese economiche di Pantalone”, Battaglia comunista, n.20/1950.

7- “Dottrina del diavolo in corpo”, Battaglia comunista, n.21/1951.

8- “Imprese economiche di Pantalone”, cit.

9- “Dottrina del diavolo in corpo”, cit.

10- Marx, citato in “Profeti dell'economia demente”, Battaglia comunista, 21/1950

11- Idem

12- “Imprese economiche di Pantalone”, cit. 

13- “Dottrina del diavolo in corpo”, cit.

14- Da quando in Italia sono state avviate le privatizzazioni, il solo settore in cui si è avuta una riduzione dei prezzi è quello telefonico, dove - probabilmente grazie ai costi ridotti di gestione e a un mercato in espansione - sussistono ancora margini per ridurre alcune tariffe mantenendo alti profitti.

15- “Imprese economiche di Pantalone”, cit.

16- “Dottrina del diavolo in corpo”, cit.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2012)

 

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