Alla fine ce l'hanno fatta. In poco più di vent'anni, governi “di sinistra” e di destra, rilanciandosi responsabilità, rinfacciandosi le stesse scelte, e soprattutto dosandole e programmandole per non deludere troppo velocemente pe proprie clientele elettorali, hanno preparato per il "governo tecnico" la definitiva riforma pensionistica. Anzi: a dire il vero, sono proprio quegli irreprensibili tecnici che dai loro luoghi di studio, nei loro ruoli di funzionari, nello svolgimento del loro lavoro al di sopra degli "interessi di parte", hanno preparato studi e proposte, sperimentato (nella fattispecie, a partire da piccoli enti previdenziali marginali e poco noti) riformine e riformette. E alla fine, per l'insipienza del contemporaneo personale politico, si sono decisi a prendere in mano il timone dell'italica barcaccia e a render chiaro a tutti che l'interesse nazionale, oggi che ormai la crisi sta mettendo a nudo i vizi d'origine del modo di produzione capitalistico, non è più negoziabile in una finzione parlamentare. Insomma, la borghesia italiana (non diversamente dalle altre borghesie nazionali), senza per nulla violare la sacra carta costituzionale e la finzione elettorale, ha licenziato la sgraffignante servitù politicante e infine ha lasciato in gestione il proprio “comitato d'affari” a onesti e qualificati maggiordomi (e governanti, per pari opportunità).

Ecco dunque il tanto atteso esecutivo forte che può mettere in pratica il riflesso condizionato di ogni buon borghese: per rilanciare lo sviluppo economico bisogna rendere competitivo il "sistema Italia", farlo più produttivo – cioè ridurre il costo del lavoro e poi investire di più, ricerca, infrastrutture, e via col buon senso e la saggezza dei luoghi comuni... Imparata la grande lezione di Benito Mussolini, si attacca il proletariato là dove più fatica a difendersi – e quindi si comincia a "erodere" il salario differito, quella quota di salario che la funzione ideologica del riformismo ci ha sempre raccontato invece come una concessione, una "conquista sociale", un "di più" rispetto a quel che ci sarebbe spettato nel vendere la nostra forza lavoro. Anche perché proprio la gestione democratica dell'eredità della legislazione sociale fascista è riuscita a sovrapporre al "salario differito" l'elargizione di sussidi sotto forma di pensioni e pensioncine a questa o quella ristretta fascia proletaria e soprattutto ad ampie fasce di borghesi piccolissimi; per non parlare poi della delicatissima questione della cassa integrazione o dei contributi figurativi o degli scivoli: insomma, di tutta l'articolata gamma degli ammortizzatori sociali che gravano sui fondi raccolti per pagare i salari differiti – la pace sociale fatta pagare alle vittime dello sfruttamento.

Attenzione, però! L'obiettivo è quello di una generale riduzione del costo del lavoro che può essere perseguita solo, come sta avvenendo in tutto il mondo, con la complicità di finte organizzazioni sindacali e la repressione (economica, legalitaria, giuridica, poliziesca e militare) di ogni forma di efficace riorganizzazione di resistenza e rivendicazione economica (finché gli riesce…). L'erosione del salario differito, come sappiamo, si è poi accompagnata ai licenziamenti, alla precarizzazione, alla stipula di contratti sempre peggiori e così via… Insomma, chi ci legge non è nuovo, e soprattutto li vive sulla sua pelle, a questi fatti.

Ma torniamo alle "pensioni” (non senza aver mandato un pensiero alle "liquidazioni" che ci hanno costretto ad investire in quei "sicurissimi" fondi di investimento che ci avrebbero dovuto garantire una dorata vecchiaia...). A titolo d'esempio, riportiamo ampi stralci di un articolo scritto da un giornalista che di sicuro non bazzica i nostri ambienti: "Trent'anni di studio, quaranta di lavoro e otto di pensione. A conti fatti, con l'aiuto della statistica, è questo lo scenario di vita attesa dell'uomo italiano di oggi dopo la manovra Monti (vanno meglio le donne con sei anni di pensione di più)" 1).

Non bazzica i nostri ambienti, il giornalista, e quindi il suo italiano di oggi è quello mitico della piccola borghesia impiegatizia: ha studiato (e tanto: dalla culla a una specializzazione post laurea), ha lavorato continuativamente fino al traguardo pensionistico. Il suo italiano di oggi è dunque e comunque un campione di quella fascia sociale vezzeggiata e nutrita da ogni riformismo, di cui costituisce la base da cui soggiogare la nostra classe. Se quindi perfino lui, nutrito da decenni e decenni di "sicurezze" e "garanzie", si ritroverà a fine carriera con le famose pezze al culo, che ne sarà del resto dei venditori e delle venditrici di forza lavoro che si vedranno "contribuzioni" saltuarie discontinue e che l'avranno sprecata attaccati a macchine sempre più usuranti in ambienti sempre meglio scientificamente organizzati per l'ottimizzazione dell’alienazione?

Così continua il nostro giornalista: "Perché con la riforma delle pensioni [...] si potrà restare a lavoro fino a 70 anni d'età per migliorare il proprio mensile da pensionati [...]. Tuttavia [...] potrà essere goduto per non tanto tempo: solo 8,8 anni se si è maschi o per 14,1 anni se si è femmine. [...] a voler sintetizzare, la riforma delle pensioni risponde al principio: più lavori più pensione avrai. A tal fine occorre però disporre di sufficienti anni per poter poi godere la pensione. Venendo in aiuto la statistica (...) si scopre invece che, in media, gli uomini hanno una vita attesa di 78,8 anni e le donne di 84,1. Avendo questi dati è possibile fare qualche conto da economia domestica. Che pone una questione centrale: conviene lavorare fino a 70 anni per godersi la pensione per 8,8 anni? La situazione è leggermente migliore per le donne, con una prospettiva da pensionate lunga 14 anni. Il risultato più interessante resta, tuttavia, un altro. Ossia che non conviene tirare a lavorare fino a 70 anni perché gli anni di pensione [...] saranno insufficienti a recuperare nemmeno la metà di quanto versato in contributi durante la vita lavorativa. [...] Per esempio, nel caso di un lavoratore dipendente che guadagna 25mila euro l'anno, che rimanga al lavoro fino a 70 anni accumulando 40 anni di contributi, riceverà una pensione annuale di 15 mila euro (il 60% della retribuzione) per 8,8 anni (se uomo) oppure per 14,1 (se donna), a fronte di un versato (nei 40 anni) di ben 330 mila euro a titolo di contributi. Fatti i conti, dunque, non tornerà in possesso di quanto pagato in contributi: perché ciò si verifichi, la sua pensione annuale dovrebbe essere di 37500 euro. Insomma una vita di stenti per una magra pensione".

Ogni commento è superfluo!

 

1) Daniele Cirioli," La riforma Fornero-Monti", in "La riforma delle pensioni. Guida giuridico-normativa”, Supplemento a Italia Oggi, 22/12/ 2011, serie speciale n° 26. I corsivi sono nos

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2012)

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