Una caratteristica fondamentale del necessario restauro dell’organo rivoluzionario (il partito) è il contatto con la classe operaia, la costante partecipazione alle sue lotte di resistenza e rivendicazione economica con funzioni direttive e organizzative.

Non si tratta infatti né di una partecipazione passiva né di un generico appoggio a un movimento nel quale ciascun venditore di forza-lavoro può da subito rendersi conto della propria collocazione economica e sociale (ma non politica) e degli avversari che ha di fronte. Si tratta invece di un momento di scontro con le altre forze politiche che, come tanti parassiti (questa è la loro natura), si gettano sul movimento per tenerlo entro modalità e compatibilità apprese dalla borghesia in due secoli di dominio e finalizzate a smorzarne ogni potenziale conflittualità radicale.

Oggi poi, anno 2012, con la storica e irreversibile involuzione delle organizzazioni sindacali che, dopo la sconfitta della grande ondata rivoluzionaria (1917-1926) e la conseguente e perdurante fase controrivoluzionaria, sono diventate ovunque uno strumento di controllo economico e sociale sulla classe, la nostra partecipazione alle lotte rivendicative ha soprattutto l’obiettivo della riorganizzazione, sulla base di contenuti e metodi specifici, di un movimento di resistenza e rivendicazione economica finalizzato alla difesa della classe dei venditori di forza-lavoro, indipendentemente da ogni interesse delle aziende, dei dirigenti, dei padroni, delle amministrazioni, dello stato.

Insomma, come partito rivoluzionario noi lavoriamo alla riorganizzazione di quello che col suo nome proprio si chiama sindacato di classe.

La forma organizzativa

Se questo rapporto tra il contenuto e la forma non è ben compreso, ogni “nome”, ogni “forma” o “formula organizzativa”, può risultare ed essere inteso, a essere ottimisti, come un espediente, una scorciatoia velleitaria, un’illusione attivista. Non parliamo poi del volontarismo idealista, che appioppa l’etichetta di “sindacato di classe” a qualsivoglia organismo di rivendicazione economica per il solo fatto che in esso operino membri del “partito comunista” o che si illude che, grazie alla loro sola presenza (con la pretesa poi che automaticamente questa venga riconosciuta come “direzione”, in virtù di una sorta di riconoscimento metastorico), quest’organismo possa esserne anche solo un “embrione”.

Uno degli espedienti più comuni è quello che, in Italia, coinvolge i vari “sindacati di base”, con un’aggravante in più: il “sindacato di classe” che viene scimmiottato non è quello degli anni gloriosi dell’inizio del XX secolo, ma quello della Resistenza, dei Di Vittorio e dei Lama, o quella strana commistione di operaismo ed estremismo che fu il sindacalismo dei tardi anni ‘60 e seguenti.

Altro comune espediente è quello di postulare come caratteristica pregiudiziale classista che la vita e l’organizzazione interna siano modellate su una pretesa “democrazia operaia”. E’ evidente che, in un futuro sindacato di classe, cioè in un’organizzazione di lotta in cui i proletari, attraverso battaglie e mobilitazioni, abbiano preso il loro destino nelle loro mani, i rapporti tra coloro che assumono compiti di direzione e la cosiddetta base saranno completamente diversi da quelli che oggi vigono nei sindacati attuali, in cui sono determinanti solo le scelte di vertice, obbedienti ai dettami della conciliazione subordinata all’ordine del dominio borghese.

Quel rapporto diverso nel futuro sindacato di classe (che sia il prodotto di lunghe e rilevanti battaglie o di una rapida rottura sociale, poco importa) oggi non può essere invocato né con una pacifica e paziente “richiesta” né (peggio ancora) con una “lotta per una maggiore democrazia”: nessun rapporto interno agli attuali sindacati di regime o alle piccole corporazioni di base si può cambiare in questo modo. Anche quando si tratti di organismi di lotta sorti ex novo, in cui un rapporto diretto e di controllo continuo tra i proletari si rende evidente nella normale prassi organizzativa, sarebbe sbagliato identificare questo rapporto come se fosse esso stesso causa o base principale della loro esistenza. Quella struttura, quella cosiddetta “democrazia interna”, esiste e regge fino a quando è alimentata dalla forza messa in campo dai lavoratori e si attenua fino a cambiare e cessare del tutto quando quella stessa forza smette di alimentarla.

Dentro il movimento proletario di classe, non esiste (non è mai esistito) un funzionamento interno compiutamente democratico, cioè uno stretto e diretto rapporto tra base e dirigenti, se non in rare situazioni storiche rivoluzionarie. E in questi casi non era il “principio democratico” a garantire la “giusta prassi organizzativa”, ma la dinamica della lotta di classe, di ben altra natura rispetto a ogni formalismo organizzativo.

Tramontata quella situazione storica, l’organo sindacale “tradirà il suo mandato”, non per effetto di una “carenza di democrazia”, ma per i cambiamenti generali nei rapporti di forza tra le classi, che si riflettono poi anche nella sua struttura e vita interna – che, guarda caso, invocherà tanto più democratismo quanto più si andrà trasformando in un apparato di controllo sugli iscritti.

Anche quando, alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, noi lanciammo la campagna dei “comitati di difesa del sindacato di classe” (rivelatasi un espediente inutile, se non addirittura controproducente, e quindi corretta con le “Tesi sindacali” del 1972), riprendevamo una sigla appropriata agli anni intorno al 1920 e la trasferivamo in una situazione completamente diversa, con l’illusione che così si potessero risollevare le sorti del proletariato. Ritenendo che la CGIL di quell’epoca avesse ancora, bene o male, una vocazione da sindacato di classe, e che dunque ci fosse in essa ancora qualcosa da difendere, con l’unico “problema” di liberarsi della sua direzione opportunista (riproponendo uno schema “alla 1920”, ma senza la forza di quel tempo confuso ma infuocato), il nostro partito ritenne di lanciare una formula organizzativa, quella dei “comitati”, aperti anche ai lavoratori militanti in o influenzati da altri raggruppamenti politici, per “salvare” la CGIL da posizioni e atteggiamenti ancora peggiori.

Non si comprendeva cioè che la pur significativa ripresa delle lotte sindacali della fine degli anni ‘60 del ‘900 non segnalava l’inversione di tendenza della tenacia della controrivoluzione e, per la fretta di estendere il rapporto con la classe, “ci si dimenticò” la critica dell’evoluzione e del ruolo di quel sindacato ormai nazionale (tricolore, e non più rosso) sviluppata fin lì. Si pretese insomma di attaccare un’etichetta “di classe” a una CGIL ormai inesorabilmente trasformata, a tal punto che poteva perfino tollerare nel suo statuto l’obiettivo lontano (e generico, in quanto così astrattamente formulato) del superamento del lavoro salariato, e ciò nemmeno con un piano di lotta e battaglia (la famosa e lontana “riconquista, magari a calci nel sedere, della direzione dei sindacati”), ma con l’espediente “democratico” di “comitati” che ne difendessero la natura originaria, come via per conquistarla ad una direzione classista!

Anche un partito come il nostro può, dunque, perdere la bussola, se si fa trascinare dalla spinta delle lotte: fondamentale fu quindi la sua capacità di correggere l’errore, con le “Tesi” del 1972. Per i proletari, la forza può essere rappresentata dalle loro lotte e da una crescente solidarietà di classe. Per il partito, la forza è rappresentata dalla sua capacità critica: quando essa viene meno o è sostituita dai miti del passato o dalle suggestioni del presente, ci si allontana dalla linea e funzione storica e si corre il rischio di interrompere bruscamente il lavoro di restauro dell’organo rivoluzionario di classe, di cadere preda della controrivoluzione.

L’illusione sta nel cercare, con la riproposizione di sigle, formule organizzative e simili, di abbreviare o facilitare l’accelerazione di uno spontaneo movimento di classe. Questo movimento ha invece tempi e percorsi che, prima ancora di poter essere indirizzati e diretti, hanno bisogno di essere compresi nella dialettica del loro momento storico, sottraendoli così alla loro spontaneità.

La riorganizzazione del futuro movimento di resistenza e rivendicazione economica di classe non dipende dunque da formule o modelli escogitati o riscoperti dalle “avanguardie”, dalle “organizzazioni di base”, dai “proletari incazzati”, ma è un processo, più o meno repentino, più o meno lungo, in cui l’obiettivo potrà realizzarsi solo attraverso continue battaglie, lotte, scontri con i militanti delle più diverse organizzazioni politiche (l’intero arco dell’opportunismo, dalla destra nazionalpopolare al “comunismo” operaista) – insomma, attraverso conquiste sul campo, attraverso un percorso di lotta, le cui tappe sono da mettere in rapporto anzitutto con la forza, la solidarietà, lo scontro di classe che il proletariato ha saputo mettere in campo, con il contributo attivo dei militanti di partito.

Le rivendicazioni

Anche la questione delle rivendicazioni che costituiscono il contenuto dell’organizzazione di resistenza e rivendicazione economica per la quale ci battiamo corre il rischio di trasformarsi in una scorciatoia velleitaria, in un espediente, se viene posta in maniera idealistica ed astratta: senza cioè capire le condizioni nelle quali vive e lavora la nostra classe.

Così facendo, infatti, ci si scorda di una delle principali constatazioni del materialismo dialettico (giacché il comunismo non “inventa” nulla, ma porta alla luce ciò che il dominio capitalista mistifica, nasconde, racconta di se stesso): l’ideologia dominante non è costituita solo dalla “cultura”, dalla “scienza”, dall’“apparenza” del pensiero borghese, ma è soprattutto il sistema generale di riferimento, i cosiddetti “valori”, entro il quale ciascuno di noi, individualmente preso, vive prima ancora di pensare. E’ l’ideologia delle classi dominanti nel senso più ampio. Se non si comprende questo, non si comprendono nemmeno i condizionamenti che ostacolano concretamente uno sviluppo spontaneo e veloce del movimento di rivendicazione e difesa economica, nonostante le bastonate che in quasi quarant’anni di “sacrifici” si sono abbattute e si abbattono sui nostri gropponi.

La nostra classe è dunque costretta a fare i conti con quei condizionamenti del passato e quelle determinazioni del presente: e da essi risultano i rapporti di forza da cui si deve ripartire.

E si metterà in moto, purtroppo, senza una memoria critica consolidata e diffusa, ma con la concretezza che richiede obiettivi anche minimi ma praticabili: da qui comincerà quel percorso che, solo se avrà un suo sviluppo, una sua continuità, potrà gettare le basi di un’associazione permanente, destinata a riconoscersi nella necessità (propagandata con la lotta dai comunisti) di organizzarsi intorno a rivendicazioni classiste.

Si possono e si devono dunque ipotizzare rivendicazioni su cui poggiare l’azione e l’esistenza del sindacato di classe: ma deve essere chiaro che esse saranno tappe e punti di arrivo di un percorso che deve ancora cominciare a fare i primi passi.

L’unica scorciatoia ipotizzabile, l’unico catalizzatore che permetterebbe di accorciare i tempi della reazione storica, sarebbe una radicata e diffusa presenza del Partito Comunista, che potrebbe, per l’appunto, accompagnare e stimolare questo movimento. Ma con i desideri e i rimpianti non si combatte la controrivoluzione.

Purtroppo, il Partito Comunista è oggi ultra-minoritario (è già tanto che più di ottant’anni di controrivoluzione non lo abbiano azzerato del tutto) e, dialetticamente, non può che attendersi dalla ripresa delle lotte proletarie l’energia che gli permetterà di uscire da questa condizione e tornare a essere l’“organo che rivela la classe a se stessa”.

D’altro lato, la nostra classe ha comunque bisogno delle nostre indicazioni, perché non può tracciarsi la strada ritrovandola da sola, senza la memoria, depositata e consolidata, delle esperienze storiche che solo il partito rivoluzionario può garantire, in quanto unica forza proletaria che ha sedimentato critica, esperienza e progetto, al di là delle vicende contingenti.

La necessità dell’intervento nelle lotte della nostra classe, ovunque sia possibile, è un compito a cui i militanti comunisti non si possono dunque sottrarre: è un compito che rende pratica la lotta teorica e tattica, anche se l’attuale contingenza storica lo fa apparire come uno sforzo titanico (e più da Sisifo che da Prometeo!). D’altronde, come si disse sempre, la rivoluzione non è un pranzo di gala…

Lotte spontanee e disorganizzate, disarticolate esplosioni di collera, non sedimentano di per se stesse un progetto di organizzazione stabile: tanto meno possono, proprio perché nate dalla necessità della sopravvivenza, disporsi in modo spontaneo verso il nord della rivoluzione di classe. Ciò vuol dire che dobbiamo chiarire sempre meglio alcuni degli aspetti delle rivendicazioni che con la nostra lotta andiamo seminando tra i nostri fratelli di classe. La sola enunciazione, la sola propaganda delle rivendicazioni generali di classe, non deve creare negli organismi di lotta la suggestione che di per sé la loro realizzazione sia facile o a portata di mano, soprattutto quando e se non sono sostenute da e basate su un’analisi realistica della situazione in cui ci si trova a lottare.

Ma vi è un’altra suggestione che può creare confusione tra i lavoratori che riprendono a lottare e tra quelli che istintivamente sentono la necessità di superare il modo di produzione capitalistico: che cioè obiettivi e parole d’ordine sindacali radicalissime possano essere di per se stessi causa e fine di una rottura rivoluzionaria – una suggestione che può riproporre da un lato l’antica illusione del “sindacalismo rivoluzionario”, cioè di una lotta che sovrappone e confonde economia e politica annullando ogni prospettiva di trasformazione sociale del mondo imperialista, e dall’altra quella più “moderna” che vede nella radicalità delle rivendicazioni economiche l’innesco della rivoluzione e che quindi “aspetta” che si avvicini  l’ora X in cui la maggioranza del proletariato finalmente le “capirà”.

I metodi di lotta

Concludiamo con un ultimo chiarimento riguardo ai metodi con cui esortiamo i nostri fratelli di classe a riprendere in mano la difesa e le rivendicazioni economiche.

La “trasformazione” dei sindacati nell’attuale momento storico, imperialista e controrivoluzionario, ha via via disarticolato i modi con i quali si conducono le vertenze sindacali, al punto da far perdere loro l’efficacia fondamentale: quella di creare alla controparte il più grande e pesante danno economico, visto che l’unico linguaggio che la borghesia capisce è quello della contabilità.

Noi non abbiamo né propagandiamo una mistica dello “sciopero generale”, ma riportiamo alla luce ogni metodo che causi una sempre maggiore perdita nelle casse della controparte, finché questa non sia costretta a firmare dove là dove la “ragionevolezza” della nostra classe lo riterrà opportuno.

Non è una novità: si vince, se si riesce a resistere quel minuto in più del padrone.

E va da sé che, per resistere quel minuto in più, la futura organizzazione di difesa e rivendicazione economica dovrà gestire e organizzare la sopravvivenza di tutti i proletari scesi in lotta, con una cassa che non può essere organizzata all’ultimo minuto o lasciata al buon cuore di un’improvvisata solidarietà operaia.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2012)

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