A un anno da quella “caccia al nero” che scatenò la straordinaria risposta dei proletari di Rosarno (una vera e propria lezione di lotta di classe), le anime candide, amanti della pace e della riconciliazione tra sfruttatori e sfruttati, hanno commemorato il giorno della rivolta, per ridurre quegli avvenimenti a una brodaglia interclassista. Chi sparò, chi condusse gli attacchi a colpi di spranga, chi espresse in campo aperto il proprio odio di classe (e non di razza!) è ancora là: i caporali sono gli stessi, la paga miserabile di 25 € al giorno è ancora la stessa, le ferite sono ancora sulla pelle. Cosa si commemorava? Si pretendeva che quei proletari riconoscessero, davanti alla stampa e al Presidente della Repubblica, che la loro reazione era stata scomposta? che la marcia rabbiosa contro l’ostilità dichiarata del paese era da archiviare come un deprecabile momento di follia? Avevano sfidato un mondo che li opprimeva, fatto di caporali e di forze dell’ordine, di padroni, di gruppi mafiosi e di organizzazioni sindacali che li hanno sempre separati dagli altri per paura di creare un’alleanza fra proletari contro l’ordine sociale esistente. La maggior parte era in regola con il permesso di soggiorno, non doveva chiederlo per lavorare. Insieme agli altri “clandestini”, non era questo che rivendicavano i proletari di Rosarno, non era per questo che lottavano: lottavano contro il trattamento infame e disumano cui erano sottoposti, si difendevano da una condizione di vita e di lavoro di sfruttamento bestiale. E, mentre lottavano, hanno imparato e hanno ricordato a tutta la nostra classe che nel regime del capitale non può esserci vita degna d’essere vissuta se non si combatte questo regime fino a distruggerlo.

La lotta dei proletari di Rosarno non rivendicava un diritto, non voleva conquistarsi un “pezzo di carta”: rivendicava la sopravvivenza. Avevano il diritto di sciopero, avevano diritti sindacali, avevano quel “giusto” contratto per i quali la Fiom si batte a Mirafiori e Pomigliano? Da quale pianeta erano arrivati i neri di Rosarno? La condizione di schiavi salariati, la stessa cui sono sottoposti anche gli altri proletari “nazionali”, non è mitigata dalla conferma di un diritto: anzi, proprio questo la giustifica, la legalizza. La condizione operaia, con i suoi ritmi produttivi, l’intensità di lavoro, gli straordinari, il cottimo, il lavoro notturno, gli incidenti, è legittimata civilmente e santificata dal diritto. La tragica assenza di libertà dentro le galere industriali (il lavoro salariato) è il mezzo per essere considerati “uomini liberi”: “arbeit macht frei” era scritto sui cancelli di Auschwitz – “il lavoro rende liberi”. Lo stato di sfruttamento della nostra classe trova il proprio consenso nella legalità del diritto a vendere la nostra forza lavoro: i salari saranno mediamente al limite della sopravvivenza, gli orari saranno sempre più intensi, e così la pensione arriverà (se arriverà!) alla fine del ciclo di annichilimento personale. L’assenza del diritto, si dice, produce lo stato di clandestinità, il lavoro nero; in realtà, il diritto sancisce la legalità dello sfruttamento, costringendo a mendicare un lavoro, ad accettare salari di fame, fogne abitative, controlli polizieschi, inseguimenti per le strade, pena la reclusione nei centri di controllo e di espulsione.

La lotta di Rosarno, come tutte le rivolte proletarie, è stata prodotta dalla disperazione e dalla necessità di riscatto da una condizione di miseria. E’ una rivolta perdente, se non è accompagnata dalla più vasta mobilitazione di tutta classe operaia, che non si condanni a riconoscere nel “posto di lavoro”, nella galera produttiva, la propria umanità. In queste condizioni, la solitudine della classe operaia, a Rosarno come in ogni angolo produttivo, gigantesco o topaia, non può essere superata da una facile solidarietà caritatevole, dalla panacea ipocrita del diritto civile o, peggio ancora, da una commemorazione. Può essere superata solo se si crea un fronte unitario di lotta che tenda ad allargarsi sul territorio, che riesca ad organizzare una risposta intransigente. Ma oltre a questo è necessario affasciarsi in un organismo unitario internazionalista, finalizzato all’abbattimento del regime della schiavitù salariale: il Partito Comunista Internazionale.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2011)

 

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