La soluzione al quesito (“Chi era costui?”) ve la diamo, in piccolo, a piè di pagina. Ma, al di là dei nomi, che poco importano, i compagni capiranno subito, e così pure i più avveduti dei nostri lettori; quanto ai più giovani, cui magari sarà capitato il giornale fra le mani, smarriti e in fuga, inconsapevoli “esploratori del futuro”, potranno imparare qualche piccola lezione... Un indizio però lo diamo: nel primo caso, siamo all’inizio degli anni ’50; nel secondo, alla fine degli anni ’70 – vale a dire, rispettivamente in piena ricostruzione nazionale post-bellica e nel pieno di una crisi economica spaventosa. In entrambe le situazioni, occorreva disciplinare il movimento operaio e imporgli dei sacrifici: come si richiede a una corporazione sindacale espressione dello Stato borghese. Dopo tali maestri (vere icone dell’opportunismo nella storia del movimento operaio), la posizione di controllo, di “autodisciplina”, di repressione ereditata dai loro discepoli Cgil (Epifani & Co.) risulta una pura, banale ripetizione (tralasciamo i segretari dei sindacati Cisl e Uil, che nascono solo come una costruzione promossa dallo Stato, priva di alcun legame reale con la storia del movimento operaio).

Il primo discorso è di questo tenore: “Chiarisco a nome degli organi dirigenti della Cgil che abbiamo portato e siamo decisi a portare sempre nei rapporti sindacali e politici un senso profondo di umanità. Anche oggi noi non desideriamo acutizzare i problemi del Paese. Per quanto possa dipendere da noi, portiamo sempre un contributo acché anche i conflitti del lavoro si svolgano … in qualunque circostanza con un senso superiore di umanità [...] Noi vogliamo, non è da oggi che lo diciamo, l’abbiamo sempre detto, la normale disciplina del lavoro; l’operaio, nel tempo di lavoro, deve garantire un rendimento normale. Non intendo affatto intaccare il principio della disciplina del lavoro. Senza disciplina non ci può essere produzione e organizzazione industriale, e noi siamo per lo sviluppo della produzione industriale e della produzione agricola, noi siamo per lo sviluppo economico civile e culturale d’Italia e quindi siamo per assicurare assolutamente la disciplina sul lavoro; v’è il modo della consapevolezza dei lavoratori della disciplina concepita come dovere, accettata come tale e la disciplina imposta col bastone. Signori industriali, disciplina consapevole sul lavoro, sì, bastone, no!”.

Ed ecco il secondo discorso: “Anzitutto voglio fare una premessa: quando il sindacato mette al primo punto del suo programma la disoccupazione, vuol dire che si è reso conto che il problema di avere un milione e seicentomila disoccupati è ormai angoscioso, tragico, e che ad esso vanno sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello – peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale – di migliorare le condizioni degli operai occupati. Ebbene, se vogliamo essere coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea […] ciò significa che la politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta, i miglioramenti che si potranno chiedere dovranno essere scaglionati nell’arco dei tre anni di durata dei contratti collettivi, l’intero meccanismo della Cassa integrazione dovrà essere rivisto da cima a fondo. Noi non possiamo più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la Cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. Nel nostro documento si stabilisce che la Cassa assista i lavoratori per un anno e non oltre, salvo casi eccezionalissimi che debbono essere decisi di volta delle commissioni regionali di collocamento (delle quali fanno parte, oltre al sindacato, anche i datori di lavoro, le regioni, i comuni capoluogo). Insomma: mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza”.

Ai lettori, il “compito a casa” di capire se si tratta di datori di lavoro, di Ministri del Lavoro o di Ministri degli Interni (o forse di sindacalisti?)...

 

Soluzione. Il primo discorso venne tenuto da Giuseppe Di Vittorio a Torino il 31/1/1953 (riportato da Il programma comunista, n.4/1953, nell’articolo “Di Vittorio l’evangelizzatore”). Il secondo è parte di una “Intervista a Luciano Lama”, pubblicata da L’Espresso il 24 gennaio 1978.

 

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2009)

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