Partiamo dal dato materiale, oggettivo, della crisi economica. Essa – lo ripetiamo di continuo, perché sono ancora pochi quelli disposti a comprenderlo – si sviluppa a partire dalla metà degli anni ’70, ed è una crisi di sovrapproduzione: dopo aver funzionato a pieno regime, a ritmi elevatissimi, nei tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale (e l’entità e intensità di quella produzione – e dunque dello sfruttamento del proletariato mondiale – furono direttamente proporzionali alla distruzione di merci operata dal macello mondiale, merce forza-lavoro compresa), la macchina capitalistica s’è inceppata, proprio per aver prodotto troppo. Ma, si badi bene, s’è inceppata non in questo o quel paese (come, episodicamente, era accaduto anche in quei decenni: le crisi cicliche sono parte integrante del DNA del modo di produzione capitalistico); s’è inceppata mondialmente e contemporaneamente, toccando via via sia quei paesi che proclamavano di esserne al riparo (per esempio, la Russia) [1] sia quei paesi che ai paradisi capitalistici stavano appena affacciandosi [2]. E’ dunque una crisi strutturale, sistemica, che tocca l’intero modo di produzione capitalistico.

Da quel momento (metà anni ’70), la cosiddetta “economia reale” – cioè, la produzione di merci, con conseguente produzione di plusvalore – non è più riuscita, proprio a causa di un mercato ormai saturo, a creare le condizioni per una valorizzazione del capitale sufficientemente intensa e rapida da tentare di contrastare quella che del capitale è la bestia nera – la caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Lo scivolamento nella crisi economica è stato profondo e generalizzato, sia pure con fasi alterne: e tutte le strategie messe in campo (per esempio, nel corso degli anni ’80 e ’90) per cercare di arrestarlo, di trovare scorciatoie che aggirassero una produzione asfittica e ormai incapace di creare plusvalore (applicando insomma una maschera d’ossigeno a quello che ormai è un autentico zombie), si sono rivelate non solo insufficienti, ma addirittura tali da aggravare ulteriormente la situazione.

Non possiamo, in questo editoriale, riesaminare in maniera approfondita i vari aspetti della crisi, come si è manifestata da metà degli anni ’70: l’abbiamo già fatto negli anni ’50 (dimostrandone, teoria e dati alla mano, l’inevitabilità, con l’esame del rapporto stretto fra capitalismo e crisi), negli anni ’70 (al suo avvicinarsi e poi scoppiare), negli anni ’80 e ’90 (riconducendo alle sue radici materiali gli aspetti fenomenici di reaganomics e thatcherismo e derivati vari) e infine in anni più recenti (ricucendo, sul filo del tempo, l’oggi con lo ieri). A tutto questo lavoro di partito (e non di “esperti” o “intellettuali”) rimandiamo il lettore seriamente interessato a capire e comprendere quanto sta accadendo [3]. 

Bastino qui due citazioni esemplari, tratte dai nostri classici, che ancora una volta dimostrano la superiorità dell’analisi materialista della realtà rispetto a tutti i conati di economisti, politici, ministri, scribacchini, totalmente incapaci di comprendere quel che sta succedendo [4]. La prima citazione viene dunque dal Manifesto del partito comunista (1848), e dice:

 

Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse[5].

 

La seconda citazione è tratta da un articolo di Marx per la Neue Rheinische Zeitung del maggio-ottobre 1850, e dice:

 

La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione[6]

 

Che la crisi sia grave, e tutt’altro che superata, è dimostrato (oltre dalla crescita generalizzata della disoccupazione, e dai suoi inevitabili effetti futuri, sia economici che sociali) [7] anche dall’insistenza con cui, alternandosi alle ubriacature per il più piccolo, momentaneo e preteso segnale di “inversione di tendenza”, gli “esperti” poi tornino a fare i conti con la “crisi del ’29” (loro incubo ricorrente), confrontandola – in maniera, va detto, alquanto estemporanea, come è tipico della “scienza borghese” – con quella attuale. E qui son comunque dolori. Per esempio, Il Sole - 24 ore del 25/10 riporta due grafici e una tabella in cui sono sovrapposti gli andamenti della crisi di allora e quelli della crisi attuale: uno riguarda la contrazione della produzione industriale, l’altro i listini a Wall Street, la terza gli interventi pubblici. Ecco alcuni dati interessanti: il Down Jones ritornò ai livelli pre-crisi solo nel 1954 (ovvero 25 anni dopo); la disoccupazione salì dal ‘29 al ’33 al 25% della forza lavoro (oggi, dopo due anni, siamo già al 10%); la perdita media (asset delle famiglie) fu del 3% (in questi due anni, siamo già al 17%); le spese straordinarie in dollari attuali furono allora di 500 miliardi (oggi, sono 11.000 stanziati e 2800 spesi). Si nota poi dai grafici che, a 15 mesi dal picco della crisi, la contrazione fu maggiore allora che oggi (ma il grafico si allunga fino a 50 mesi: c’è ancora tempo!); per quanto riguarda i listini di borsa, questa è stata più violenta nei primi dieci mesi, mentre per quanto riguarda i salvataggi la paura di un crollo finanziario verticale è stata tremendo... [8]

Sempre Il Sole – 24 ore del 25/10, in un altro articolo [9], avverte con allarme che quest’anno le grandi banche americane registreranno ricavi superiori a quelli del 2007 e che nello stesso tempo la crisi del credito per le imprese è senza precedenti (altra bolla in arrivo: tenersi forte!). Inoltre, a fine 2009, i disoccupati nel mondo saranno 61 milioni, effetto... collaterale dall’attuale crisi. Per salvare le banche (che comunque continuano a fallire: negli Stati Uniti, i fallimenti sono ormai più di cento, alcuni dei quali riguardano istituti con funzioni importanti, come la finanziaria Cit, fallita nei primissimi giorni di novembre), gli stati hanno aumentato in maniera mostruosa il proprio debito pubblico (quasi tutti in una misura che s’avvicina al 100%) [10]: in particolare, il costo del programma americano (Tarp) potrebbe alla fine arrivare a 23 mila miliardi. Le banche centrali, dice George Soros (che di queste cose s’intende), non sanno cosa fare: si spera (!) che la nuova bolla che si ammassa possa fare da volano alla ripresa; se però ciò non avverrà, si precipiterà in una crisi ancor più devastante. A tanto si riduce la scienza economica borghese!

Lasciamo ora tutto questo, per andare invece a vedere come cambia lo scenario politico-strategico. E’ indubbio, infatti, che – se riandiamo all’evoluzione dei rapporti interimperialistici degli ultimi vent’anni – il suo legame con gli sviluppi della crisi economica risultano chiarissimi. A chi sosteneva che il crollo della Russia e dei paesi dell’est (coglionescamente definito “crollo del comunismo” da chi non ha mai capito che cosa sia capitalismo e che cosa sia comunismo) avrebbe aperto “un’era di pace ed equilibrio”, rispondevamo che, al contrario, il trasformarsi di quei regimi (in cui, detto molto sinteticamente, lo stato gestiva un’economia pienamente capitalistica) era il segnale del diffondersi a livello planetario di una crisi che già da anni stava attanagliando il cosiddetto “Occidente” (tanto per usare l’altrettanto coglionesca terminologia geopolitica borghese). Passarono pochi mesi ed ebbe inizio la sequenza di guerre sanguinose alle porte dell’Europa: la prima guerra del Golfo, la guerra nei Balcani, la seconda guerra del Golfo – in una progressiva intensificazione degli aspetti più distruttivi e sanguinari – , affannosamente presentate come “guerre al terrorismo”, “guerre per la democrazia”, “guerre umanitarie”, “guerre pacifiste”, ecc. ecc., ma sempre più chiaramente guerre capitaliste e interimperialiste per il controllo di aree strategiche per la presenza di materie prime o per il passaggio delle loro vie di trasporto. Insomma, anch’esse guerre aventi come finalità il tentativo dei singoli imperialismi coinvolti in maniera più o meno diretta di contrastare la caduta tendenziale del saggio medio di profitto.

Oggi, lo scenario è ulteriormente mutato e continua a mutare, all’insegna di un’instabilità assoluta.

 

Infatti, la paura che l’area mediorientale orientale (Afganistan, Pakistan, India occidentale), esplodendo, possa attrarre in quest’area strategica i famelici concorrenti (Cina e Russia), ringalluzziti dalla debolezza americana dopo otto anni di guerra, sta spingendo gli Usa ad allargare e spingere al massimo lo sforzo bellico. D’altra parte, il Tibet e l’area occidentale mussulmana cinese, la Georgia e l’Ucraina, sono i rinnovati biglietti da visita (con spassose rivendicazioni dei “diritti umani” da una parte e di “lotta al terrorismo” islamico, tibetano e georgiano, dall’altra), perché... il manovratore non venga disturbato. La contraddizione più aspra è tuttavia nel ventre dell’alleato europeo, il quale non vede l’ora di tirarsi fuori dal teatro di guerra, perché ha solo interessi secondari e derivati (e troppo pesanti da gestire) e, in questo frangente, è sopraffatto dai problemi economici interni: il Premio Nobel per la Pace a Barak Obama e l’apertura dell’Onu all’aumento del contingente americano si presentavano come un’occasione e un mezzo per convincere i “volenterosi” a restare, ma il fallimento della sceneggiata elettorale in Afganistan (brogli, candidature poi ritirate) e i micidiali attacchi “talebani” (?!) agli eserciti e alla sede dell’Onu hanno ancora dimostrato l’estrema pericolosità della situazione e l’impotenza generale di chi vi è coinvolto.

Da parte loro, in questo momento, Cina e Russia sono politicamente in stato di allerta su più fronti, mentre gli scambi tra industria cinese in piena ascesa (Pil al +9%) e materie prime russe si dispiegano su un territorio enorme e ricchissimo. La Cina in particolare è a caccia di materie prime d’ogni specie, di cui ha estremo bisogno: una caccia che s’allarga dall’Africa all’America latina, dall’Australia a Città del Capo, mentre il fronte asiatico Cina-Corea-Giappone si sta velocemente trasformando sospinto dalla gigantesca sovrapproduzione manifatturiera e dalla massiccia pletora finanziaria. Nei due mari del Giappone e della Cina, presto o tardi, si assisterà allo scontro tra i grandi colossi della terra, con tre pedine a far da cuscinetti: le due Coree e Taiwan.

A sua volta, l’area della Mezzaluna Fertile sta cambiando rapidamente, con la paura del conflitto generalizzato che cresce senza posa. La crescente debolezza americana sta rovesciandosi su Israele e sui Territori palestinesi, ed è quella stessa debolezza che ha spinto la Turchia a negare esercitazioni congiunte con Israele in territorio turco e che costringe Abu Mazen a ritirarsi dalla competizione elettorale nel prossimo gennaio. E che esaspera l’”affaire Iran” rendendolo sempre più pericoloso: si passa da una minaccia continua di attacco armato a una corte sfrenata da parte di americani, russi, tedeschi e francesi all’uranio da arricchire da qualche parte (e qui la Russia gioca in casa); intanto, il regime iraniano è alle corde e deve stringere di più il cappio intorno al collo degli oppositori, la cui entrata in scena contro il Governo godrebbe di una fitta “rete di protettori”: una lunga fila di “democratici” sta accanto al letto del malato aspettando il minimo segno di tracollo. Dunque, petrolio o non petrolio (iraniano o irakeno), crisi politiche o sociali, guerre infinite: come sappiamo da sempre, la stabilizzazione dell’area è impossibile, entro questo quadro di rapporti interimperialistici. Se l’Iran ha fatto da “alleato” americano nei confronti dell’Iraq, sbarrando il confine (così come hanno fatto Siria, Giordania, Arabia saudita, Turchia nelle due guerre del Golfo) e restringendo lo scenario, oggi si gioca una partita i cui confini sono più vasti, il Caucaso russo, le terre di confine russo-cinesi e l’intera area mediorientale, se non la stessa India.

Intanto, l’Europa in piena crisi economica e politica, al di là delle apparenze del voto positivo di Irlanda e della Cechia al trattato di Lisbona, si va sciogliendo nell’alleanza metano-industriale fra Russia e Germania, nel disaccordo Opel (Usa)-Magna (Russia) in Germania e nel rilancio delle basi missilistiche americane in Polonia-Cechia (direzione est o ovest?). E, mentre si avverte che il Mediterraneo e il Baltico saranno presidiati presto da navi americane dotate da missili a testata nucleare, le pedine est-europee si azzittiscono, o si risvegliano solo ai comandi delle grandi spinte che vengono dall’esterno. Il continente europeo, giungla di nazionalismi, riaprirà ancora una volta a suo tempo il vaso di Pandora.

E’ un quadro abbozzato molto sinteticamente su cui dovremo ritornare, dominato com’è da una fluidità estrema: ma che, sotto l’approfondirsi di una “nuova puntata” della crisi economica mondiale, non farà che delinearsi più nettamente. Un quadro che, sia pure non nell’immediato, prefigura un nuovo macello mondiale, quando il precipitare delle contraddizioni e l’impatto con il muro del vicolo cieco della crisi spingeranno gli imperialismi dominanti ben oltre la corrente strategia dei colpi bassi, delle minacce e delle ritorsioni, degli attacchi per interposta persona, degli avvertimenti più o meno mafiosi cucinati nei pentoloni della diplomazia occulta (e dei rispettivi servizi segreti). Sempre più cruciali e urgenti diventano dunque il ritorno sulla scena del proletariato mondiale in posizione apertamente antagonista rispetto alle esigenze dei capitali nazionali e il radicamento in esso del partito comunista internazionale, sua avanguardia rivoluzionaria.

 

Note



1. Al riguardo, cfr. il nostro studio “La Russia s’apre alla crisi mondiale”, Quaderni del Programma Comunista, n.2, giugno 1977. [back]

2. Cfr. gli articoli della serie “Corso del capitalismo”, pubblicati sulla nostra stampa intorno al 1975. [back]

3. Si vedano anche solo l’articolo “Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica nella classica costruzione teorica del marxismo”, Il programma comunista, nn.19-20/1957, e la lunga serie intitolata “Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx”, nn. 16-18, 20-24/1957, 1, 2, 6-10, 23/1958, 1-7/1959. [back]

4. Venerdì 30/10, i giornali traboccavano di inni alla fine della recessione (perché... il Pil USA è cresciuto del 3,5%). Passa un giorno e... tutti giù per terra! Crollano le borse per il calo dei consumi USA, paura sui mercati per i mutui americani (sempre loro!), altre bolle in formazione... Si naviga a vista con un capitano che più orbo non si può! [back]

5. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Cap. I, “Borghesi e proletari”. [back]

6. In Marx-Engels, Opere complete, Vol.10, p.501. [back]

7. Tra il 6 e il 7 novembre, è giunto l’annuncio che la disoccupazione USA aveva superato la... “soglia psicologica” del 10%. Sappiamo bene come sono calcolate negli USA le statistiche sulla disoccupazione: estrapolando tutta una serie di categorie e figure. La sofferenza per la perdita del lavoro tocca dunque di certo ben più di quel 10%, e colpisce in modo particolare settori della popolazione già svantaggiata, come gli afro-americani, i messico-americani, i portoricani, gli immigrati, i bianchi poveri di certe sacche regionali. [back]

8. Mario Margiocco, “Era Natale tutto l’anno, poi il crollo”, Il Sole-24 Ore, 25/10/2009. [back]

9. Morya Longo, “A Mr. Smith il conto della recessione”, Il Sole-24 Ore, 25/10/2008. [back]

10. Una tendenza, questa, che noi abbiamo da sempre indicata come inevitabile, nel mondo capitalistico uscito dalla Grande Depressione e dalla seconda guerra mondiale: cfr. anche solo l’articolo “Imprese economiche di Pantalone”, pubblicato sul n.20 del 1950 di quello che era allora il nostro periodico, Battaglia comunista. [back]

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2009)

 

 

 


 

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