Nel numero scorso di questo giornale, ricordavamo come l’attacco aperto del capitale al proletariato, in corso a livello mondiale soprattutto negli ultimi trent’anni, abbia voluto dire un peggioramento continuo delle condizioni di vita e di lavoro. E come la ripresa classista (base necessaria per poter giungere, attraverso l’azione congiunta, direttiva e organizzativa, del partito comunista internazionale, a porre la questione della presa del potere e dell’instaurazione della dittatura del proletariato) debba partire esattamente dalla difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari, tornando ad avanzare quelle che sono le rivendicazioni classiche del movimento operaio e comunista: forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate; riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario; salario pieno ai disoccupati e sottoccupati; lotta contro ogni forma di lavoro precario o in nero; lotta contro ogni discriminazione in base a età, sesso, nazionalità; lotta contro ogni concertazione, compatibilità, sacrificio in nome dell’economia nazionale.

Va da sé che queste parole d’ordine implicano anche specifici metodi di lotta: sono anzi strettamente intrecciate a essi. L’attacco portato dal capitale contro le condizioni di vita e di lavoro dei proletari s’è infatti accompagnato a un parallelo attacco a quelli che da sempre sono i metodi della lotta di classe, quei metodi nei quali si è sempre riconosciuta un’intera tradizione comunista e rivoluzionaria, fin dal 1848. In quest’opera di smantellamento, il potere borghese ha avuto un prezioso alleato: la socialdemocrazia, nella sua veste politica e sindacale – vale a dire, quei partiti, quelle formazioni e organizzazioni, che, avendo abbandonato qualunque prospettiva rivoluzionaria ed essendosi prima adagiate in un blando riformismo all’acqua di rose e poi lanciate in un attivo, bieco e aperto sostegno dell’ordine capitalistico, si sono rivoltate contro il proletariato, contro le sue immediate rivendicazioni tradizionali e i suoi tradizionali metodi di lotta. Sempre nel numero scorso, in un articolo intitolato “Evoluzione storica e prospettive degli organismi intermedi della classe operaia”, mostravamo come questo processo di integrazione degli organismi intermedi (siano essi i sindacati o altre forme organizzate di difesa economica) dentro lo Stato borghese, fino a diventarne vere e proprie agenzie (di collocamento e di consulenza, oltre che di polizia e di spionaggio), sia irreversibile. Si pensi a tutta la legislazione anti-operaia passata negli ultimi decenni con l’attivo consenso, con l’assunzione in prima persona di responsabilità concrete, dei tre sindacati maggiori. La legge suprema della “concertazione” e delle “compatibilità” ha voluto dire una legislazione anti-sciopero che ha trasformato quest’arma storica del proletariato in una burla infame, di cui fanno le spese sempre e solo i lavoratori. L’altra legge suprema della “pace sociale” ha voluto dire l’isolamento, la persecuzione vera e propria, il licenziamento o il carcere, dei proletari più combattivi, di quelle avanguardie di lotta che hanno cercato di reagire al regime di passività, rassegnazione e ultra-sfruttamento imposto dal capitale con l’aiuto di sindacati e partiti “di sinistra”. Insomma, la legge di una società divisa in classe, in cui la classe dominante impone il proprio potere su quella dominata, per estrarne in santa pace il massimo di pluslavoro e dunque di plusvalore, è stata imposta e applicata.

A quest’attacco, violento tanto nella sua forma aperta quanto in quella sotterranea, se n’è aggiunto un altro, più sottile e ingannevole, portato in nome della democrazia. Rinnegato il comunismo dopo averne rivoltato come un guanto princìpi, teoria e prassi, contenuti e significato, smantellata ogni pratica classista, rimosso anche solo il ricordo di che cosa siano la lotta di classe e la strada che conduce alla rivoluzione, alla presa del potere, alla dittatura del proletariato e al comunismo, partiti e sindacati “di sinistra” si sono buttati tutti in braccio alla democrazia, autentica baldracca pronta a tutto. Così, ai concetti di classe e di proletario, sono stati sostituiti quelli di “società civile” e di “cittadino”; alla prassi della lotta di classe, dello sciopero generale, del picchetto, del sabotaggio della produzione, ecc. ecc., si è contrapposta quella delle “azioni legali”, delle “cause collettive”, degli appelli al “buon cuore”, alla “buona coscienza” della “collettività”, della cosiddetta “class action” (che di classe non ha proprio nulla, ma annega la classe nel magma indifferenziato dei “consumatori”), fino alle tragiche manifestazioni d’impotenza e frustrazione di proletari abbandonati a se stessi che s’incatenano alle ciminiere di fabbrica... Allo scontro, s’è insomma sostituita la belante rivendicazione di “diritti” tanto astratti quanto, nella realtà, inesistenti: il tutto in un miscuglio che si fa giorno dopo giorno più vomitevole.

A questa situazione di attacco aperto del capitale, di subdolo utilizzo della democrazia a tutti i livelli, di sbando generalizzato della classe operaia, i proletari combattivi possono e devono reagire: ma possono farlo solo tornando ai metodi classici della lotta di classe. Lo sciopero deve essere strappato alle tagliole che lo rendono inoffensivo: è un’arma dei proletari e solo a essi appartiene. Deve tornare a essere l’arma principale, in questo momento, per colpire il capitale nella sua parte più sensibile – la produzione, il luogo dove si produce il plusvalore, l’ossigeno senza il quale il capitale boccheggia e muore. Ma lo sciopero deve essere anche strappato a una concezione puramente “fabbrichista”, che – nel filone anticomunista di Gramsci, Stalin e Togliatti – rinchiude il proletario dentro le mura della sua galera. Deve tornare alla sua originaria e tradizionale dimensione territoriale, perché deve rompere con i limiti localistici di questa o quella categoria o fabbrica, area o settore industriale, città o regione, per investire tutti gli ambiti in cui si esprime l’attacco del capitale – sul luogo di lavoro, come nella vita quotidiana in senso generale (casa, trasporti, luce, gas, rapporti sociali, ecc. ecc.).

Quando i comunisti lanciano la parola d’ordine dello sciopero generale, senza preavviso e senza limiti di tempo e di spazio, lo fanno nella consapevolezza che, indipendentemente dalle possibilità reali di applicarla in questa o quella situazione specifica, la direzione deve però essere quella, e che il senso reale, concreto, di quella prospettiva deve tornare a essere patrimonio quotidiano dei proletari in lotta. E ciò vale per tutti gli altri aspetti correlati della lotta anticapitalista, sul piano non solo strettamente rivendicativo, ma più ampiamente sociale – una tattica variegata, ma sempre bene ancorata ai principi classisti, che implica necessariamente la rottura della pace sociale, di quella “legalità” borghese che significa solo sottomissione del proletariato alle esigenze superiori della nazione, in pace come in guerra. D’altra parte, episodi recenti come quelli degli autoferrotranvieri in Italia e dei portuali in Francia dimostrano che istintivamente i lavoratori sentono che quella è la strada, che quell’arma è solo loro e a nessun altro deve essere permesso di metterci mano soffocandolo e strangolandolo: entrambe le categorie, quando sono scese in lotta, se ne sono fregate altamente delle norme di autoregolamentazione e hanno buttato all’aria tutto l’armamentario di “fasce protette”, “rispetto dei cittadini”, “necessità superiori dell’azienda”, ecc. ecc., considerandolo per quello che è: un attacco condotto contro i metodi di lotta che da sempre hanno contraddistinto la battaglia condotta dai proletari contro la borghesia, il suo Stato, i suoi manutengoli.

Ma lanciare quella parola d’ordine non basta. Essa deve accompagnarsi a un lungo e ampio lavoro di organizzazione e direzione. Ciò significa estendere il fronte di lotta e approntare tutti quegli strumenti necessari a sostenerlo: comitati di sciopero, casse di sciopero, picchetti contro i crumiri e per bloccare la produzione, agitazione presso le altre categorie occupate e sottoccupate, presso i precari e i disoccupati, scioperi duri ed estesi di solidarietà con altri proletari in lotta, difesa dalle provocazioni di forze legali e illegali, organismi stabili in grado sia di sostenere la lotta in corso e di difendere i proletari colpiti dalla repressione borghese, sia di continuare la propria attività dopo che essa si sia conclusa, vittoriosamente o no, e pronti a riprenderla quando sia necessario… Proprio questo, purtroppo, manca ancora oggi.

E’ evidente che, in tutto ciò, è centrale la presenza attiva del partito rivoluzionario. E’ solo nella visione globale del partito, scienza e avanguardia della rivoluzione, che i conflitti locali, rivendicativi, di difesa economica e sociale, non solo divengono autentica palestra di lotta di classe, in cui i proletari si abilitano a lottare contro i propri nemici storici (appunto: la borghesia, il suo Stato, i suoi manutengoli politici e sindacali), ma sono il trampolino grazie al quale ci si può (ci si deve) proiettare oltre i limiti angusti del presente modo di produzione. Come insegna Lenin (Sugli scioperi, Che fare?), lo sciopero – proprio per le sue implicazioni di rottura della pace sociale, per la contrapposizione netta fra interessi proletari e interessi dell’azienda, del capitale nazionale, dello Stato, e per le necessità organizzative e direttive che comporta – è una “scuola di guerra rivoluzionaria”; e le “scintille di coscienza” che se ne sprigionano vanno estese e alimentate, grazie all’azione del partito di classe, indirizzandole oltre l’orizzonte angusto del luogo di lavoro e dell’attuale modo di produzione. L’attività dei comunisti dunque non si porrà mai alla coda o al servizio delle lotte locali, ma dovrà cercare di prenderne la testa, per ampliarle, coordinarle, organizzarle e orientarle, sempre tenendo fisso l’obiettivo (e dimostrandone in pratica ai proletari l’assoluta necessità) della rivoluzione e della conquista del potere. E anche là dove non sia possibile prenderne la testa, perché i rapporti di forza lo impediscono, compito dei comunisti sarà operare perché l’esito della lotta equivalga a un vero passo avanti nel tormentato cammino della ripresa classista: perché gli insegnamenti della lotta (non importa se vittoriosa o sconfitta) non vadano dispersi, e soprattutto perché anche solo un minimo embrione organizzativo rimanga sul campo, solido anche se esile, per poter riprendere in futuro da uno stadio avanzato, e non dover ogni volta ricominciare da zero.

Difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari, ritorno ai metodi di lotta classista: di qui, dalla riconquistata indipendenza classista delle lotte proletarie, si deve partire per tornare sulla strada che conduce alla rivoluzione comunista, una necessità storica che si mostra ogni giorno di più drammaticamente urgente.
 
Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2007)
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