In un brano dei Grundrisse, insistendo sulla realtà del denaro come “rapporto sociale”, Marx scrive: “Come la divisione del lavoro genera l’agglomerazione, la combinazione, la cooperazione, il contrasto degli interessi privati, gli interessi di classe, la concorrenza, la concentrazione del capitale, il monopolio e le società per azioni, […] così lo scambio privato genera il commercio mondiale, l’indipendenza privata [genera] una completa dipendenza dal cosiddetto mercato mondiale, e gli atti di scambio frammentati generano un sistema bancario e creditizio, la cui contabilità si limita a costatare i saldi dello scambio privato. […] (Una massa di forme antitetiche dell’unità sociale il cui carattere antitetico tuttavia non può essere mai fatto saltare attraverso una pacifica metamorfosi. D’altra parte se noi non trovassimo già occultate nella società, così com’è, le condizioni materiali di produzione e i loro corrispondenti rapporti commerciali per una società senza classi, tutti i tentativi di farla saltare sarebbero altrettanti sforzi donchisciotteschi)” [1] In poche frasi, è descritta la complessità caotica del modo di produzione e di riproduzione capitalistico. Nel denaro, prodotto ed espressione dei rapporti sociali o di produzione (di cui la forma creditizia è la rappresentazione più completa e matura), si compendiano l’intelaiatura del tessuto economico e la rete di dipendenza e di connessione dei nodi: la divisione mondiale del lavoro, lo scambio mondiale e gli atti di scambio, il corso cambiario, i soggetti nazionali e internazionali della produzione e del commercio e le classi antagoniste, e con essi le spinte iperproduttive e ipermonetariste. Il denaro, dunque, o i rapporti di denaro, sono determinati dai rapporti di produzione, sono conseguenti ad essi; allo stesso tempo, il denaro li occulta, e ciò avviene tanto più quando esso giunge alla sua pienezza, alla sua esistenza autonoma al di fuori della circolazione, alla sua terza determinazione di “denaro come capitale”: a questo punto, “non si vede affatto che la determinazione di essere denaro è un semplice risultato del processo sociale: esso è denaro” [2], denaro tout court [3]. E con ciò si nasconde da dove sgorga la ricchezza, la – per dirla ancora con Marx – borghesissima “liberté, egalité, proprietà e Bentham”. Ma questa complessità è minata al suo interno da forze che la porteranno alla catastrofe: la sua parvenza di socialità, la sua falsa unità, portano i segni della disgregazione, della frantumazione, della catastrofe incombente, ma anche le condizioni materiali oggettive (prima fra tutte l’insopprimibile antagonismo fra capitale e lavoro) che premono per un altro modo di produzione, una società senza classi, di cui solo il partito rivoluzionario (il Partito Comunista Mondiale, anch’esso prodotto di quelle contraddizioni insanabili) alla guida di un proletariato in lotta può determinarne la nascita.

Quando, nell’estate del 2007, le prime avvisaglie della crisi finanziaria e bancaria mondiale vennero allo scoperto, brividi di terrore percossero il corpo gravido di liquidità tossica dell’intera società borghese e del suo bisogno insaziabile di nuova e gigantesca liquidità. “Credit crunch!”, si gridò subito. Ora, nei commenti dei media di tutto il mondo, si è fatto cenno più volte alla crisi storica del 1929, come paradigma di un evento catastrofico che ha cambiato il mondo (non per nulla, dieci anni dopo cominciava il secondo conflitto mondiale).

Così scrive l’editorialista del Il Sole-24 ore, riferendosi alla crisi attuale: “Dalla grande crisi non usciremo soltanto più poveri, ma verranno profondamente cambiati molti dei paradigmi della nostra vita contemporanea: l’idea stessa della libertà di mercato, la natura dei rapporti fra pubblico e privato, il grado di consapevolezza nelle coscienze collettive che la democrazia possa ancora rappresentare un sistema efficace per garantire sicurezza e prosperità, la percezione diffusa del concetto del rischio, la caduta della fiducia nelle controparti, bancarie e commerciali, la giusta retribuzione del merito, la tenuta degli equilibri sociali, la qualità della convivenza in comunità nelle quali molti pagheranno per gli errori di pochi. Più debito pubblico, più inflazione. Meno crescita, meno benessere. Un altro mondo, ma non per questo necessariamente peggiore se avremo la capacità e la lungimiranza di riscoprire la centralità dell’impresa e la civiltà del lavoro, liberandoci dall’illusione, fortemente diseducativa, che il denaro produca da solo altro denaro”  [4]. Come è facile intuire da questo brano, la borghesia si prepara dunque a eventi di crisi sociale che riguardano non soltanto la sovrastruttura ideologica (la democrazia messa in dubbio come mezzo di consenso sociale), ma anche la struttura sociale (la tenuta degli equilibri, la qualità della convivenza, la caduta di fiducia delle controparti, la sicurezza) e la base materiale (più povertà, meno benessere, la retribuzione). Per comprendere quel che è accaduto e  i suoi effetti futuri, è  dalla semi-paralisi del credito e dal bisogno inesorabile di liquidità che si dovrà dunque partire. 

 

 

Il credito o la realizzazione del plusvalore a tempo zero

 

Allorché il denaro, da misura di valore, da mezzo di circolazione e di scambio delle merci, da mezzo di tesaurizzazione, si trasformò in mezzo di pagamento, ovvero in moneta da credito, si formò un meccanismo capitalistico troppo complesso: dopo la formazione di gigantesche bolle creditizie (speculazione finanziaria, “finanza creativa”, ecc) e dei conseguenti black holes dell’economia finanziaria, gli apprendisti stregoni borghesi, che pensavano di poter dominare “a furor di logica” un determinismo storico sociale resosi indipendente dalla loro volontà, dovettero soccombere sotto le loro stesse macerie. Il pagamento a soluzione ritardata diventa così, storicamente, la forma dominante degli scambi. La merce, come dice Marx, diviene un valore d’uso prima ancora di trasformarsi in valore di scambio o denaro sonante: prima ancora di essere pagata, scompare dalla circolazione. Il credito diventa un potente mezzo di accelerazione della trasformazione del denaro in capitale e quindi dell’accumulazione capitalistica e della sovrapproduzione; la tesaurizzazione, invece di fissarsi in uno sterile ammasso di denaro, diventa mezzo di una feconda accumulazione. Il capitale può attingere alle calze di lana, alle mattonelle, ai materassi, ai risparmi, ai depositi bancari, ai titoli, agli stessi debiti. I piccoli risparmiatori possono anche esultare pensando di diventare dei “creditori”, mentre i capitalisti sono i loro “debitori”.

Nella circolazione, scrive Marx ripetutamente, il capitale, che in tale fase, in forma di merce, è solo capitale in potenza, non produce valori, ma realizza quelli creati nel processo di produzione. Solo alla fine del processo di circolazione, nella palude del mercato, con la vendita della merce pregna di plusvalore, la valorizzazione del capitale è effettivamente compiuta, e il denaro anticipato si trasforma in più denaro.  E’ questo che la borghesia non riuscirà mai a comprendere. Tutte le teorie (keynesiane e monetariste, ultime in ordine di tempo) sono impotenti a decifrare la natura delle crisi perché negano la realtà stessa del plusvalore e vedono nella circolazione, nel mercato, nella legge della domanda e dell’offerta, l’origine della ricchezza in generale e del profitto in particolare. Il processo di circolazione, invece, non solo non apporta elementi valorizzanti, ma si presenta anzi come una realtà che ostacola e che ritarda la realizzazione effettiva della valorizzazione e riproduzione del capitale.

 

Di qui, la necessità di superare gli inconvenienti tecnici, di ridurre il tempo e i costi di circolazione, di stimolare la domanda sempre più asfittica rispetto al vulcano della produzione, di accelerare la riproduzione in generale del capitale, di contrastare la caduta del saggio generale del profitto che il sistema del credito realizza, ma senza eliminare le contraddizioni innate del modo di produzione da cui promana: anzi, amplificandole all’ ennesima potenza.

Se il denaro, nelle sue forme di rappresentazione cartacea (dalla semplice carta moneta ai prodotti della finanza creativa), assume la sua esistenza più perfetta, astratta, di denaro in quanto denaro, della ricchezza borghese in quanto tale, nel credito, la cui base è il capitale monetario da prestito, il denaro/capitale-feticcio raggiunge la sua massima potenza mistificatoria dei rapporti sociali capitalistici:  denaro che produce denaro, che valorizza se stesso “senza la mediazione del processo di produzione e del processo di circolazione”. Il capitale appare “come la fonte misteriosa, e che da se stessa crea I'interesse, il suo proprio accrescimento” [5] – questo feticcio automatico, germoglio di vita, da cui è scomparsa ogni traccia della sua origine. Quest’origine non risiede nella circolazione: risiede là dove il capitale dispone del lavoro vivo altrui, ossia nella produzione. E’ lì che si crea valore aggiunto, plusvalore (o profitto dal punto di vista borghese), di cui l’interesse è la quota di partecipazione, il tributo riconosciuto al  proprietario del denaro in quanto capitale – quella cosa  che ha già in sé in modo latente e potenziale il potere di disporre di lavoro altrui, il diritto di appropriarsi di lavoro altrui, costituendo quindi valore che si valorizza.

 

Ma c’è di più, nell’ambito della coesione sociale. Nel sistema del credito (la cui espressione più compiuta sono le banche), che abbiamo visto crescere smisuratamente in ampiezza anno dopo anno, sembra anche che il rapporto di alienazione operaia (la vita che si riduce a “mezzo di vita”) sia soppresso: privo di mezzi di produzione, il proletariato è indotto a pensare d’essersi impossessato, se non altro, almeno del prodotto (mutui per comprare la casa, l’auto, le vacanze, ecc) e quindi di aver qualcosa da perdere, se il sistema crolla. Non si trova forse a bordo della stessa nave? La proprietà privata, completamente alienata, nel credito , nelle società per azioni e nel debito pubblico, rientra in nome… della stessa proprietà privata,  nella collettività sociale, fondendo goccia a goccia (centralizzandosi e concentrandosi) ciò che è separato, privato, esclusivo, indipendente, autonomo: un grande calderone sociale! Il “libero mercato” semina poi a piene mani l’illusione di questo “capitale socializzato” messo a disposizione anche della classe oppressa. E, mentre il mostro del Capitale con il credito si gonfia a dismisura,  i “socialismi in salsa borghese” (socialdemocratico, fascista, nazionalsocialista, rooseveltiano, stalinista)  si materializzano per schiacciare la classe ancora una volta, a dimostrazione che il Capitale è effettivamente la comunità illusoria per eccellenza e che l’unica via percorribile per la classe è il suo totale annientamento.

 

La piccola borghesia e l’opportunismo hanno diffuso a piene mani tra le fila proletarie la convinzione che la carta moneta, le cambiali, il credito, i dividendi, costituiscano la graduale abolizione della loro alienazione produttiva nel lavoro – la fine della separazione tra capitale e lavoro. L’organizzazione bancaria è diventata l’ideale dell’aristocrazia operaia e impiegatizia, e ha permesso alle organizzazioni sindacali corporative di farsi garanti anche dei più piccoli risparmi: depositarli in banca ha voluto dire l’adesione convinta agli slogan della classe dominante (“Diventate tutti imprenditori!”). Non meraviglia la nascita (e non da oggi!) di casse mutue, di banche popolari, di casse di risparmio, di banche artigiane, agricole, edili, l’azionariato popolare, la finanza etica, che, oltre ai “risparmi” della piccola borghesia e dei ceti medi, rastrellano anche quote di sudato salario operaio. La moneta fiduciaria, morale, sociale, amplia così l’illusione della “proprietà diffusa”, oscurando la realtà che condanna il piccolo uomo, l’uomo del ceto medio, il piccolo borghese e il proletariato corrotto dall’opportunismo a farsi corpo della circolazione delle merci, dello spirito del capitale, e a pagarne regolarmente il conto. Nel sistema bancario, il credito impone il suo dominio sullo Stato: la concentrazione patrimoniale nelle sue mani costituisce la massima espressione del sistema monetario, del capitale finanziario che domina l’intera cosiddetta “economia reale”.

Quale inversione di senso, in questi mesi di panico, per le classi “che hanno tutto da perdere”! Lo Stato, che salva le banche dal fallimento a causa dei titoli spazzatura, che entra nei consigli di amministrazione bancari, che diventa azionista di prim’ordine, che ricapitalizza e nazionalizza (con “denaro pubblico”, ovviamente), invece di essere considerato il servile esecutore della potenza del Capitale, diventa la divinità salvatrice di “ultima istanza”. Poteva d’altronde il comitato di affari della borghesia evitare di esporsi in prima linea? E’ per la sopravvivenza del Capitale, per rimettere in sesto l’accumulazione reale, che lo Stato è stato costretto a mostrarsi improvvisamente... “socialista” (l’estrema ignoranza teorica della borghesia in questa questione non fa testo!). Con il suo tentativo di raddrizzare la distorsione tra produzione e consumo, il credito, esaltandoli entrambi, ha drogato l’economia reale, spingendola alla massima sovrapproduzione (poiché non abolisce le leggi e le limitatezze del sistema: sposta semplicemente il pagamento effettivo nel futuro, gravandolo in più di un interesse). A questo punto, la macchina capitalistica mondiale ha cominciato a perdere colpi: il tempo di immettere nuovo credito, e poi ancora nuovi contraccolpi e fermate più frequenti (con plusvalore sempre più ridotto), fino alla svalorizzazione totale di quella ricchezza fittizia che nessuno più vuole, perché non è capace di tradursi in interesse (che è parte del plusvalore). L’incredibile è che si pensi che, una volta messo a riposo, il credito si rivitalizzi, che nelle mani dello Stato trovi il suo elisir, che il curatore fallimentare ritrovi l’interesse perduto. Marx mette in ridicolo sia la funzione a sé del credito, staccato dal processo produttivo, sia la dipendenza tout court da esso.

“Non appena [il denaro] è dato a prestito”, scrive Marx nel Capitale, “o anche investito nel processo di riproduzione (in quanto esso frutta al capitalista operante, quale suo proprietario, un interesse distinto dal guadagno d’imprenditore), esso genera dell’interesse sia che dorma, sia che sia sveglio, sia che si trovi a casa o in viaggio, di giorno e di notte. Così nel capitale produttivo d’interesse […] si trova realizzato il pio desiderio [corsivo nostro, ndr] del tesaurizzatore” [6].

Abbagliato dalle possibilità dell’accumulazione dell’interesse sganciato da qualunque vincolo produttivo, l’economista Richard Price, citato da Marx,  può dire: “Uno Stato non può mai trovarsi in difficoltà; poiché con i più piccoli risparmi egli può pagare il debito più elevato in un tempo tanto breve quanto gli possa far comodo” [7]. “[Egli considerava] il capitale”, continua Marx, “senza tener conto delle condizioni della riproduzione e del lavoro, come un meccanismo automatico, come un semplice numero che si accresce da se stesso (precisamente come Malthus considerava l’uomo nella sua progressione geometrica)”. Egli pensava di aver trovato la legge del suo accrescimento nella formula dell’interesse composto (per il quale “un penny prestato al 5% d’interesse composto alla nascita di Cristo, sarebbe cresciuto oggi ad una somma maggiore di quella che potrebbero rappresentare 150 milioni di globi terracquei, tutti di oro puro”) [8].

“Il processo di accumulazione del capitale”, continua sempre Marx, “può essere considerato come accumulazione d’interesse composto in quanto la parte del profitto (plusvalore) che viene ritrasformata in capitale, ossia che serve a succhiare nuovo plusvalore, può essere designata sotto il nome di interesse. Ma [ecco un “ma”, grande come una montagna invalicabile! ndr!]:

“1) Facendo astrazione da tutte le perturbazioni accidentali, una parte assai grande del capitale esistente è costantemente, nel corso del processo di riproduzione, più o meno svalorizzata, perché il valore delle merci è determinato non dal tempo di lavoro che la loro produzione costa all’origine, ma dal tempo di lavoro che costa la loro riproduzione, tempo che va continuamente diminuendo in seguito allo sviluppo della produttività sociale del lavoro. […]

“2) Come si è dimostrato, il saggio di profitto diminuisce in rapporto all’accumulazione crescente del capitale e alla forza produttiva del lavoro sociale che cresce corrispondentemente ad essa e che si esprime precisamente nella crescente diminuzione relativa del capitale variabile rispetto al costante. Per ottenere il medesimo saggio del profitto se il capitale costante messo in movimento da un operaio diventa dieci volte maggiore, la durata del plusvalore dovrebbe anche aumentare di dieci volte, e ben tosto l’intero tempo di lavoro, e addirittura le 24 ore della giornata, anche se completamente appropriate dal capitale, finirebbero per essere insufficienti […]. L’identità del pluslavoro e del plusvalore pone un limite qualitativo all’accumulazione del capitale, la giornata lavorativa complessiva, lo sviluppo ogni volta dato delle forze produttive e della popolazione, che limita il numero delle giornate simultaneamente sfruttabili. Ma se invece il plusvalore è assunto nella forma empirica dell’interesse, allora il limite è soltanto quantitativo e va al di là di qualsiasi immaginazione” [9].

L’illusione di poter alimentare all’infinito il debito pubblico e di poter scontare i debiti e i deliri delle banche si muove dunque nella stessa direzione; il loro fallimento è frutto della loro assurda immaginazione di poter scavalcare il limite qualitativo dell’accumulazione del capitale: la possibilità di mungere fino all’inverosimile il plusvalore da una giornata di lavoro che non può superare le 24 ore.

“Ma nel capitale produttivo d’interesse”, continua Marx, “la rappresentazione del capitale-feticcio è portata a compimento, la rappresentazione che attribuisce al prodotto accumulato del lavoro, e per di più fissato come denaro, la capacità di produrre plusvalore in una progressione geometrica, per una qualità segreta innata, come un semplice meccanismo, così che questo prodotto accumulato del lavoro, ha scontato già da lungo tempo, come appartenenti e spettanti a lui di diritto, tutte le ricchezze del mondo di tutti i tempi. Il prodotto del lavoro passato, il lavoro passato stesso è qui in sé e per sé pregno di una parte del plusvalore vivo presente e futuro. Si sa invece che in realtà la conservazione e pertanto anche la riproduzione del valore dei prodotti del lavoro passato sono soltanto il risultato del loro contatto con il lavoro vivo; e in secondo luogo: che il predominio dei prodotti del lavoro passato sul plusvalore vivo dura soltanto quanto dura il rapporto capitalistico; quel determinato rapporto sociale in cui il lavoro passato si contrappone in modo autonomo e preponderante al lavoro vivo” [10].

In questa forma automatica e geometricamente progressiva, che sembra aver assunto il capitale produttivo di interesse, viene allo scoperto in modo completo la concezione feticistico-illusoria che assumono i prodotti del lavoro passato nella loro forma di merce-denaro, come se da essi potesse sgorgare  e continuasse a sgorgare  la ricchezza del mondo. Tutto il lavoro e i prodotti del lavoro umano passato, senza vita, sembrano impregnati fin nel profondo e per sempre di “plusvalore”. Le materie prime, la terra, il capitale, i mezzi di produzione sembrano possedere l’argento vivo addosso. In realtà, senza il contatto con il lavoro vivo e presente dei proletari, niente può svegliare dalla rigidità della morte i prodotti del lavoro passato.

“Non c’è fiducia, non c’è credito”, vanno ripetendo gli esperti del nulla: cioè, fino a quando non sarà ristabilita la fiducia, il sistema non può ricominciare la sua corsa in avanti, non può produrre profitti, interessi, rendite. Il denaro nella sua forma del credito, dicono, si è sciolto, si è svalorizzato, volatilizzato, bisogna riportarlo alle sue funzioni. Fanno fatica a capire che non ha mai avuto valore, che si tratta di denaro fittizio, di un “pagherò” che fonda la sua esistenza sulla certezza che l’alienazione della forza lavoro porterà ancora all’ammasso quel plusvalore di cui si nutrono tutte le classi proprietarie. Si tratta di titoli di credito che basano la loro realtà su un diritto di proprietà sulla forza lavoro, e in sostanza del diritto di appropriazione di parte del plusvalore.

 

Chi pagherà per il salvataggio delle banche, per il crollo dei titoli immobiliari senza copertura? Saranno le imposte sull’attività produttiva, sul lavoro vivo del proletariato, sui salari operai – imposte che dovranno servire a pagare oltre al debito pubblico precedente (che le fameliche bocche del capitale hanno già inghiottito), anche la classe dei nuovi creditori dello Stato, autorizzati a prelevare a loro favore grosse somme sul gettito delle nuove imposte per i titoli comprati ed emessi dallo Stato per risanare i rinnovati deficit di bilancio.  

Sembra del tutto illogico pensare che un’accumulazione di debiti possa apparire come un’accumulazione di capitali, cui fare affidamento, ma il sistema del credito manifesta qui la pienezza dei suoi nonsense: i duplicati cartacei di capitale inesistente esercitano per chi li possiede la funzione di capitale, in quanto sono merci vendibili e perciò possono essere trasformati in capitale. Essi circolano come valori-capitali, sono fittizi, ma il loro valore può accrescersi o diminuire con un movimento del tutto indipendente dal valore del capitale effettivo del cui plusvalore sono titoli di appropriazione. Ma innanzitutto deve ripartire la macchina produttiva: deve essere ricreato ancora e ancora il plusvalore – per questo, la classe operaia dovrà essere rimessa ai lavori forzati. Proprio in questo momento, la dittatura della borghesia dovrà mostrare pienamente il suo ruolo politico... non senza, naturalmente, l’ordine “socialista e democratico” del consenso. L’esperienza non manca, così come non mancano le forze addette all’ordine pubblico.

 

 

La pletora di capitali e la crisi di sovrapproduzione

 

Che una tale pletora di capitali tenda al rialzo, quando il saggio di interesse diminuisce, indipendentemente dai movimenti propri del capitale monetario, è semplice conseguenza della caduta del saggio medio del profitto industriale. La “ricchezza immaginaria” dimostra così di non essere un puro spettro: tende proprio a crescere con lo sviluppo accelerato della produzione capitalistica. Una gran parte del capitale monetario accumulato, disponibile per il prestito, non è in realtà che una semplice espressione del capitale industriale: la cosiddetta massa di capitali in libertà (la globalizzazione dei mercati tramite i grandi istituti di credito) è soltanto un modo particolare per designare la sovrapproduzione industriale, è proprio l’indice dell’effettiva riproduzione allargata.  Tutti quei titoli e quelle azioni, che abbiamo visto ballare negli indici di borsa, sono gestiti da gigantesche imprese bancarie della più varia natura, accumulatrici d’interesse sui prestiti. L’accumulazione reale del patrimonio delle banche si è potuta sviluppare in una direzione fantasmagorica proprio perché la borghesia finanziaria intasca in ogni caso una buona parte dell’accumulazione reale. Ciò di cui hanno bisogno industriali e commercianti, ora, in questa volatilizzazione del credito, è il denaro: essi mancano di capitale reale, di capitale merce e di capitale produttivo; impegnano o vendono la loro massa di titoli perché non è possibile procurarsi il denaro in altro modo.

Quando gli effetti della recessione economica si faranno sentire con il crollo dei prezzi dei manufatti (la disoccupazione negli istituti finanziari falliti, nell’edilizia e nelle aziende automobilistiche è un primo segnale), allora saremo al centro dell’uragano. Quello che abbiamo visto per il momento è il rapido crollo del credito bancario (e delle decine di banche con le loro mille ramificazioni ipersensibili, il soccorso nazionale delle stesse, il pronto intervento degli istituti finanziari internazionali e delle banche centrali, la denuncia degli organismi di controllo e degli istituti di rating): la sua fuga da chi lo invoca e la sua comparsa dove non è richiesto, il panico in chi ha visto crollare risparmi reali, quote di salari, di stipendi, di pensioni, di mutui fondiari, messi da parte per anni.  Ma allora vedremo soprattutto, con la sovrapposizione della crisi monetaria e della crisi economica, la decomposizione dell’intera società.

Appena a qualche anno dalla bolla finanziaria del 2001-03, già si avvertiva l’affanno della sovrapproduzione di merci (nei colossi industriali asiatici e soprattutto occidentali cominciavano a sentirsi i primi segni di  frenata) e della sovrapproduzione di capitali (la massiccia liquidità mondiale si esaltava a  sfidare,  dopo quelli sulla New Economy, i rischi crescenti di operazioni finanziarie sui mutui immobiliari), mentre l’apparato produttivo entrava in uno stato di ipertensione, si accentuava la sensibilità dell’intero sistema degli scambi (crescita dei prezzi dei prodotti energetici e dei prodotti agricoli, instabilità accentuata dei cambi delle monete forti, indebitamenti esteri crescenti da un lato e surplus di capitali dall’altro da parte delle superpotenze), si acuiva l’antagonismo tra modo di produzione e modo di appropriazione (caduta del saggio medio di profitto e pressione al ribasso dei saggi di interesse) e si accelerava il ritmo della concentrazione produttiva e finanziaria (nuove richieste di fusioni  industriali e bancarie). Non appena il sistema ebbe raggiunto l’acme delle contraddizioni, la realtà inequivocabile della nuova crisi finanziaria e creditizia si manifestò in forma catastrofica, anticipando gli eventi: il sistema si avviava così verso una crisi economica reale profondissima, di cui si vedranno a breve scadenza gli  effetti distruttivi.

 

Il sistema finanziario obbedisce alle stesse leggi dell’anarchia produttiva capitalistica, alla stessa palude della circolazione delle merci, alle stesse crisi di sovrapproduzione. Le due sovrapproduzioni viaggiano per lo più sfasate nel tempo, possono rendersi autonome e agire come se le loro dinamiche fossero indipendenti. In verità, le due crisi sono consequenziali, ma non meccanicamente derivate. Come abbiamo visto in questi anni, nel lungo periodo la crisi di sovrapproduzione delle merci spiega la sovrapproduzione di capitali; spesso, quella dei capitali anticipa quella delle merci e può innescarla, come se ne fosse la causa; a volte, questa può manifestare una relativa indipendenza. 

Scrive Engels: “L’uomo del mercato monetario non vede perciò il movimento dell’industria e del mercato mondiale che nel riflesso deformante del mercato del denaro e dei valori, e per lui l’effetto diventa la causa. L’ho già notato a Manchester negli anni Quaranta: per l’andamento dell’industria e i suoi periodici massimi e minimi, le notizie di Borsa londinesi erano assolutamente inutilizzabili, perché quei signori volevano spiegare tutto con le crisi del mercato monetario, che invece sono quasi sempre, esse stesse, solo dei sintomi. Si trattava allora di smentire la genesi delle crisi industriali da sovrapproduzione temporanea; la cosa quindi aveva per giunta un lato tendenzioso che incitava a distorcere i fatti. Oggi questo punto cade, almeno per noi, una volta per tutte; inoltre è un fatto che anche il mercato monetario può avere le sue crisi, nelle quali le perturbazioni dirette dell’industria recitano solo una parte secondaria o non ne recitano alcuna; e qui v’è molto da accertare e analizzare, con particolare riguardo alla storia dell’ultimo ventennio” [11].

La crisi monetaria non può apparire ai teorici-banchieri come effetto, corollario della crisi economica, ma solo come conseguenza diretta… della crisi monetaria. Per la compressione del volume degli scambi, il rallentamento della circolazione della moneta fa dire loro che vi è un’insufficienza dei mezzi di circolazione, e invece la massa monetaria, che si è messa a disposizione del credito, sparisce perché “non solvibile”, perché non produce più la benedizione di lucrosi interessi (che non appartengono al campo della circolazione, ma a quello della produzione in quanto parti del plusvalore). Il processo complessivo di produzione e circolazione entra in uno stato di decomposizione.

Le relazioni che hanno spinto nel credito, nella fiducia l’uno verso l’altro, gli individui, i gruppi sociali, le classi, proponendo nell’immaginazione una collettività illusoria, presto si scioglieranno e l’intera società tenderà a scomporsi negli interessi contrapposti, negli interessi di classe, e risorgerà inevitabilmente la lotta di classe, che da troppo tempo è assente dalla storia. E’ proprio a questo appuntamento che deve giungere preparato il partito della Rivoluzione Comunista: per guidare l’assalto alla cittadella del Capitale, lo Stato, per infrangerlo e abbatterlo, e per instaurare sulle sue rovine la dittatura del proletariato: sarà essa a doversi occupare di eliminare tutte le macerie, tutto il letame, tutti i gas tossici, che per due secoli almeno ci hanno schiacciati, appestati, avvelenati.

 


[1] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. 1857-1858, Ed. La Nuova Italia, Vol. I, pagg.100-101.

[2] Idem, p.208.

 

[3] Ancora i Grundrisse sul “denaro come rapporto sociale”: “il denaro non nasce per convenzione, così come  non nasce per convenzione lo Stato. Esso nasce naturalmente dallo scambio e nello scambio, e ne è prodotto” (pag.109)”; “La natura non produce denaro così come non produce un corso di cambio o un banchiere” (pag. 207). Dunque, prodotto dei rapporti sociali, il denaro trova la sua massima espressione nel modo di produzione capitalistico, che lo eleva a feticcio attraverso la dissoluzione  delle forme feudali di dipendenza personale, in reciproca dipendenza materiale degli individui tra loro isolati e indifferenti. Tale dipendenza si esprime nella necessità perenne dello scambio, della produzione per lo scambio, in cui ogni  attività individuale, ogni prodotto di tale attività, vale soltanto se ha valore di scambio, se si tramuta nel rappresentante universale e onnipotente del valore di scambio: il denaro. In ciò si risolve il nesso sociale tra gli individui: il rapporto tra persone si tramuta in un rapporto tra cose, estraneo a loro stessi e che li domina.

 

 

[4] “La Grande Crisi - Domande e Risposte”, Il Sole-24 ore, ottobre 2008 (opuscolo mensile allegato)

[5] K. Marx, Il capitale, Libro III, Cap. XXIV, Editori Riuniti, p.464.

 

[6] Idem, pag. 466.

 

 

[7] Idem, pag. 468.

[8] Idem, pag. 467.

[9] Idem, pag. 471.

[10] Idem, pag. 472.

[11] F. Engels, “Lettera a Conrad Schmidt” (27 ottobre 1890), in F. Engels, Lettere di Engels sul materialismo storico. 1889-1895, Iskra Edizioni, 1982, p.30

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