Nel naufragio di tutte le organizzazioni che si dicevano (e con che fegato!) “di sinistra” – un naufragio cominciato ben prima delle recenti, squallidissime elezioni in Italia e un po’ ovunque – sembra galleggiare un’unica ciambella di salvataggio: l’appello alla difesa della democrazia.

Per i comunisti, non si tratta solo dell’ultima spiaggia di una pratica fallimentare, ma di uno slogan che riassume tutta la natura controrivoluzionaria di quelle organizzazioni, indipendentemente dalle sfumature di nomi e di programmi.

La democrazia non è un’entità metafisica o un mistico valore assoluto: è uno dei metodi di governo e di dominio della borghesia, del tutto compatibile (e convergente) con quello apertamente e dichiaratamente autoritario. Quando fece la propria comparsa, all’alba di rivoluzioni borghesi che ne furono portabandiera contro l’oscurantismo feudale, la democrazia seppe infatti usare, e fin dagli inizi, il pugno di ferro contro tutti quei settori della società nuova che mostravano di non volersi accontentare della retorica sul “potere di tutto il popolo” (che, notoriamente, non è roba che si mangia).

Mentre infatti sventolava il vessillo della “Libertà-Eguaglianza-Fratellanza”, la democrazia borghese reprimeva con violenza sanguinaria tutti coloro che non si sottomettevano al dominio della nuova classe al potere: fu così con Gracchus Babeuf e la sua “Congiura degli Eguali” nel 1798; fu così con le prime organizzazioni operaie accusate di voler riportare in vita le corporazioni medievali; fu così con gli operai francesi e inglesi negli anni ’30 e ’40 dell’800 [1]. E, tanto per chiudere questa rapida e insufficiente carrellata sulla vera natura della democrazia borghese (ci vorrebbero volumi interi!), fu la democraticissima Francia a spegnere con ferocia, nel sangue e nel massacro, la Comune parigina del 1871, così come sarà il faro della democrazia del XX secolo, gli Stati Uniti d’America, a reprimere nel sangue gli estesi scioperi operai fra ‘800 e ‘900, con massacri ripetuti (Ludlow e Cripple Creek, per limitarci a due episodi del 1903 e del 1914). Per non parlare, dei crimini orrendi perpetrati ai danni dei popoli delle colonie attraverso tutta la prima metà del ‘900 (in cui si distinse, fra gli altri, il piccolo Belgio – proprio lui, il “violentato” dall’autoritaria Germania, in difesa del quale si mobilitarono tutte le nazioni “democratiche” nel 1940).

Dunque, la democrazia è un tragico inganno, non solo a livello teorico, astratto (la retorica del “tutti sono eguali e dunque in grado di esprimere la propria libera opinione” si dissolve come neve al sole di fronte al dato di fatto oggettivo che condizioni sociali diverse determinano oggettive diversità e che comunque è la classe che tiene saldo in pugno il potere quella che influenza la tanto osannata “opinione pubblica”, attraverso i mille e mille canali di “informazione”, “educazione”, “suggestione”, “manipolazione”). Lo è, un tragico inganno, anche a livello pratico, sostanziale, nella quotidianità dei fatti materiali di ormai tre secoli di dominio borghese.

Ma la democrazia è ancor più un tragico inganno da quando il modo di produzione borghese, tra fine ‘800 e inizi ‘900, ha imboccato la strada irreversibile dell’imperialismo, che chiude per sempre l’epoca liberista in economia e in politica. Con l’imperialismo (“fase suprema del capitalismo”, come c’insegna Lenin; “sovrastruttura del capitalismo”, come ha sempre proclamato la Sinistra Comunista), il regime borghese compie un processo di centralizzazione in tutti i settori: della vita economica in primis (monopoli, cartelli, finanziarizzazione, interventismo statale, ecc.), ma anche, inevitabilmente, della vita politica e sociale (accentramento dei poteri, supremazia dell’esecutivo, progressiva militarizzazione della società, trasformazione dei sindacati in pilastri dello stato, ecc.). Nell’800, il parlamento, come strumento del capitalismo in ascesa, poteva ancora svolgere, in un certo senso, un’opera storicamente progressiva, se non altro come tribuna da cui far sentire la voce proletaria e comunista – una voce che non si proponeva peraltro di contribuire al miglioramento del regime vigente, ma di distruggerlo, e lo proclamava nelle parole e nei fatti. Nelle condizioni attuali, di imperialismo sfrenato, il parlamento (e più in generale tutti gli organi di rappresentanza democratica, la natura stessa della democrazia in quanto tale) è divenuto uno strumento di menzogna, di inganno, di violenza, di snervante logorrea e di indecente demagogia. Di fronte alle devastazioni, alle rapine, ai soprusi, alla bestialità, agli atti di brigantaggio, di sopraffazione, di distruzione, compiuti dall’imperialismo (in tutti i suoi “segmenti nazionali”) nell’arco di questo lunghissimo ultimo secolo, le riforme parlamentari (prive di qualunque pianificazione e consistenza e miranti soltanto a registrare quanto l’esecutivo ha già predisposto, sulla base – sempre e comunque – delle necessità superiori del capitale nazionale, e di quelle storiche del capitale in quanto modo di produzione), gli appelli alla democrazia, gli inviti a salvarla, difenderla, estenderla, a “tornare a essa”, servono solo a distogliere i proletari dalla realtà del loro selvaggio sfruttamento, dalla realtà di una crisi economica sempre più profonda, dalla realtà della corsa del capitalismo verso una nuova guerra mondiale.

Le anime belle della “democrazia violata” mostrano tutta la propria imbecillità nel non voler e poter capire che questo è un processo irreversibile. La fascistizzazione della vita politica e sociale è l’altra faccia (necessaria) della centralizzazione e statizzazione economica – non è un qualcosa che abbia a che fare con la folle malvagità di uno o più uomini venuti fuori chissà da dove né con un ritorno sulla scena di misteriose classi feudali assetate di assolutismo né con un improvviso sussulto irrazionale del “fare politica”, un deragliamento momentaneo dai binari tranquilli e rassicuranti della routine democratica...

Le democrazie uscite vittoriose dalla Seconda guerra mondiale non hanno potuto far altro che “fascistizzarsi”, ereditando – sotto la facciata democratica – la sostanza autoritaria e accentratrice dei regimi sconfitti: solo così possono agire su un mercato mondiale all’insegna della guerra di tutti contro tutti e rispondere alla minaccia (non importa quanto potenziale e futura, e non reale e immediata) del loro nemico storico – il proletariato. La classe dominante sa per esperienza che quello è il problema reale: lo dice apertamente, e solo gli imbecilli non se ne rendono conto. Così, tutto il discorso attuale (e internazionale) sulla “sicurezza”, che permette – facendo leva sui peggiori istinti animaleschi delle schifosissime mezze classi, sempre vigliacche e sempre impaurite, ma pronte a scannare il “nemico” che gli viene agitato contro – di introdurre provvedimenti di sempre maggior “controllo sociale”, nel senso della progressiva militarizzazione della vita sociale, è il paravento dietro cui si cela la necessità per la borghesia di prepararsi in anticipo a un conflitto di classe che essa, per esperienza storica, sa essere inevitabile. Non è il frutto dunque dei piani dei cattivi di turno, contro cui ci si dovrebbe mobilitare democraticamente per... tornare in parlamento: è espressione reale e tangibile di quella “fascistizzazione della democrazia” che in tanti si rifiutano di riconoscere apertamente e soprattutto di combattere apertamente.

I comunisti negano (hanno sempre negato) la possibilità per la classe proletaria di giungere al potere attraverso la maggioranza conquistata in quell’osceno teatro di cialtroni pagati profumatamente che è il parlamento (o gli organi di rappresentanza locali), invece di conquistarlo – dopo una lunga preparazione di lotta, di organizzazione, di irrobustimento e radicamento del partito comunista – con la rivoluzione violenta. La conquista del potere politico da parte del proletariato guidato dal suo partito (punto di partenza dell’opera di costruzione economica comunista) implica la soppressione violenta e immediata degli organi democratici: la prima forma che deve essere rovesciata, prima ancora della proprietà capitalistica, prima ancora della stessa macchina burocratica e governativa, è proprio la democrazia rappresentativa, questo guscio vuoto di vuote parole.

Che i proletari evitino dunque di cadere nell’inganno. Non è la via democratica (parlamentare, rappresentativa, sostenuta da partiti e sindacati che da decenni hanno tradito, nelle parole e nei fatti) che può sottrarli all’ingranaggio bestiale dello sfruttamento e della crescente miseria, ma il ritorno alla lotta aperta contro il capitale, la riconquista di un’autonomia di classe contro lo stato (che è il difensore armato del potere borghese) e contro i partiti e i sindacati che lo sostengono, il rifiuto (anti-democratico!) di accettare peggioramenti delle proprie condizioni di vita e di lavoro in nome delle esigenze supreme dell’economia nazionale – per difendersi oggi dall’attacco del capitale in crisi e per attaccarlo domani sotto la guida del partito comunista mondiale, sgominandolo infine e aprendo all’umanità intera il futuro necessario del comunismo.

Se ciò non avverrà, se i rituali rivoltanti della democrazia continueranno a esercitare il loro fascino, se questo zombie putrefatto continuerà a muoversi nelle file del proletariato ipnotizzando e paralizzando, altri massacri (in nome della democrazia o di regimi autoritari e fascisti ha poca importanza) spargeranno il sangue di milioni di proletari in tutto il mondo, in pace come in guerra.

 

 

Note:

 


 

1. Quando, nel 1791, gli schiavi africani si sollevarono a Santo Domingo (l’odierna Haiti) contro il sistema di schiavitù istituito da spagnoli, inglesi e francesi, subito accorsero gli eserciti napoleonici impegnati a diffondere la democrazia in Europa contro l’Ancien Régime: e solo una lunga guerra sanguinosa e l’abilità strategica dell’ex-schiavo Toussaint L’Ouverture assicurarono la vittoria ai ribelli e la proclamazione dell’indipendenza dell’isola nel 1803.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2008)

 

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