I “fatti di Genova 2001” sono fin troppo noti perché li si debba riassumere e ricordare qui. Nelle strade della città, sui corpi delle decine di migliaia accorsi per “dimostrare contro i potenti della Terra”, s’è giocata una tragica recita, un livido gioco delle parti: che ha prodotto un giovane assassinato, centinaia di feriti e arrestati, e soprattutto l’usuale balletto di lamentazioni e scaricabarili, indignazione e cinismo.

Il tutto, dalle manifestazioni anti-globalizzazione alla loro brutale repressione poliziesca e ai suoi postumi, rischia di affogare un problema reale e di sempre (come lottare contro il capitalismo) in un’ennesima melma democratoide e riformista, recriminatoria e moralistica, e dunque di non far fare nemmeno un passo innanzi verso una prospettiva anche lontanamente classista: anzi, di farne parecchi indietro.

Chi volesse dunque trarre davvero, con serietà e lucidità, alcune lezioni non episodiche dai ‘fatti di Genova 2001’, dovrà farlo partendo necessariamente da alcune considerazioni generali. Vediamole, rimandando anche, per ulteriori ampliamenti e integrazioni, all’ampio articolo sul “movimento no global” uscito all’epoca su queste pagine (il programma comunista, n.4, luglio-agosto2001), di cui riportiamo a parte il sommario e che è consultabile sul nostro sito www.internationalcommunistparty.org.

1. Lo Stato non è un organismo al di sopra delle parti, un papà severo ma giusto che si preoccupa del bene di tutti imparzialmente. Al contrario – e il marxismo l’ha sempre proclamato in teoria e dimostrato nei fatti –, lo Stato è un prodotto della divisione in classi delle società e non può essere altro che lo strumento del dominio (e del mantenimento di questo dominio) della classe al potere: nella fattispecie, nel sistema capitalistico, della borghesia, espressione sociale del capitale in quanto potenza economica mondiale. E proprio degli interessi generali del capitale sul piano sia nazionale che internazionale (dunque con tutte le contraddizioni che questo implica), lo Stato borghese è al servizio: indipendentemente dai burattini (veri e propri zombies) che sono al governo di questo o quel paese, in questo o quel momento.

Credere e (peggio!) far credere che lo Stato borghese possa e debba rappresentare la “collettività”, i “cittadini” (e che se non lo fa è solo perché un pugno di furfanti e malandrini l’ha occupato sottomettendolo al proprio arbitrio) significa nutrire e alimentare un’illusione disastrosa. Proclamare che lo Stato va “strappato al controllo delle multinazionali” o degli “interessi corporativi” e “restituito al suo ruolo di tutela della collettività” significa soltanto svolgere un’opera mistificante, di disarmo teorico-politico, di inganno e tradimento aperti.

2. Con i suoi “distaccamenti speciali di uomini armati, prigioni, ecc.” (Lenin, Stato e rivoluzione), questo Stato è dunque l’organo di dominio della classe dominante borghese. Come tale, esso è stato, è e sarà sempre nemico aperto della rivoluzione e del comunismo, come pure di qualunque lotta parziale per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro delle masse sfruttate (l’esempio dei metalmeccanici caricati e malmenati a Genova ben prima del G8 è stato rapidamente dimenticato da tutti: e invece dovrebbe far riflettere). Lamentarsi perché ha svolto il proprio ruolo repressivo significa non comprendere minimamente che cos’è lo Stato e soprattutto che cos’è il regime uscito vittorioso dal secondo macello mondiale: significa quindi mettere e mettersi nell’impossibilità teorica e pratica di resistervi e di combatterlo. Con il G8 di Genova, la borghesia italiana ha prontamente colto l’occasione per attuare alcune grandi manovre militari, per mettere alla prova uomini e mezzi, strategie e logistica, dimostrando una volta di più: a) di avere la percezione (maturata attraverso una esperienza plurisecolare) che l’approfondirsi e il dilagare della crisi economica annunciano tempi critici, di tensioni sociali crescenti, e che è dunque necessario prepararsi dichiarando apertamente come si intende rispondere – con la violenza e la repressione; infatti, il destinatario ultimo di questo messaggio è il proletariato in lotta di domani, contro il quale l’aperta violenza borghese si alterna all’imbonimento democratico per difendere la sopravvivenza e il dominio impersonale del capitale, e solo in second’ordine le mezze classi che oggi protestano contro la loro accentuata precarietà e che devono essere ricondotte a più miti pretese; b) di saper approfittare dell’insipienza e irresponsabilità dei cosiddetti “movimenti antagonisti” (vale a dire, di uno spontaneismo che, armato o pacifista, ha una lunga e nefasta tradizione nel mandare allo sbaraglio forze politicamente e organizzativamente inermi) per dividere, frantumare, intimidire, reprimere, paralizzare. Possiamo ribadire che, dal 2001 a oggi, lo Stato borghese, in Italia come altrove, non ha fatto altro che consolidare e soprattutto perfezionare questa prassi repressiva: gli esempi non sono certo mancati!

3. “Stato di polizia”?, “Situazione cilena”? Lo Stato borghese costituisce i suoi apparati di controllo e repressione per mantenere sempre nei confronti della classe proletaria un livello di violenza potenziale, allo scopo di dispiegarla apertamente quando occorra ai suoi fini. Chi oggi blatera di “polizia democratica” è un cretino o un servo fedele della borghesia. Noi comunisti internazionalisti sosteniamo (dimostriamo nei fatti, e i fatti continuano a darci ragione) che i regimi usciti vincitori dal secondo massacro mondiale, dietro la facciata democratica, hanno ereditato dal nazifascismo la sostanza profonda, economica, sociale, politica: accentramento dei poteri statali, centralizzazione della vita economica con intervento diretto dello Stato a salvaguardia degli interessi capitalistici, crescente militarizzazione della vita sociale, integrazione dei sindacati nello Stato, costituzione di grandi carrozzoni clientelari, creazione mediatica del consenso, ecc. E abbiamo definito questo regime “democrazia blindata”, “democrazia dittatoriale” o “dittatura democratica”. Democratici, stalinisti, riformisti, spontaneisti di tutte le varietà, mentre si davano un gran da fare a smantellare pezzo a pezzo anche solo il ricordo di ciò che è marxismo, lotta di classe, politica rivoluzionaria, comunismo, non hanno trovato di meglio che ridere di questa nostra analisi “vecchia e superata”: salvo poi, quando ci scappano le manganellate, i caroselli di jeep e qualche morto, levare pianti di coccodrillo sulla “democrazia violata”. Costoro, che si chiamino ieri “Popolo di Seattle” o “Genoa Social Forum” e oggi “Potere al Popolo” o black block, o si riconoscano nel sempre fertile arcobaleno folkloristico di nomi e sigle colorite (o scolorite?), che siano a libro-paga delle istituzioni borghesi che fingono di combattere o mossi da ribellismo esistenziale e sterile, sono corresponsabili in prima persona del disastro di esperienze collettive – come, per l’appunto, la “manifestazione anti-G8 di Genova 2001”. Un disastro che può solo nutrire frustrazione e senso d’impotenza o alimentare una reazione a catena di tentazioni avventuriste: il tutto, comunque, all’insegna del rifiuto della prospettiva (e dunque della preparazione) rivoluzionaria.

4. E’ evidente che un “movimento” come quello “no-global” o come altro lo si voglia chiamare (in questa corsa del tutto fine a se stessa per dar nome a qualcosa che non ha sostanza), oltre a non offrire nessuna reale risposta al cannibalismo e alla putrefazione capitalistici, ha prestato allora e, nelle sue forme odierne, presta ottimamente il fianco a ogni tipo di provocazione, aggressione, infiltrazione: proprio per il suo carattere indefinito, fluido, “ecumenico”, per i suoi inesistenti contorni politico-programmatici, per la sua natura eclettica, spontanea, improvvisata. Ma il problema non è solo quello dei provocatori o degli infiltrati: il problema è che il “movimento no-global” ha dimostrato d’essere del tutto privo di un qualunque discorso teorico-politico e dunque s’affida a quel genere di “partecipazionismo etico di massa” che può solo condurre a disastrose sconfitte. Di fronte alle contorsioni verbali dei rivoluzionari da operetta di allora e di oggi, che prima si atteggiano a “duri” dirigenti del movimento per poi starnazzare che “la polizia non è stata ai patti”, i “fatti di Genova 2001” servano almeno a ricordare che la politica rivoluzionaria, in nessuna delle sue forme, dall’anonimo lavoro di preparazione teorica alla propaganda e al proselitismo, dallo sciopero al picchetto, dal blocco della produzione alla manifestazione di piazza, senza scomodare per il momento la presa del potere e l’istaurazione della dittatura proletaria, tutto ciò non è un scampagnata, non è una gita al mare cui partecipare con chitarra e bottiglie di birra, non è uno “street rave” in cui ritrovare gli amici e poi raccontare “c’ero anch’io”, e nemmeno l’ennesima occasione per dar sfogo alla propria rabbia nichilista e individuale.

Per lottare conseguentemente contro il regime del capitale in tutte le sue forme è necessario qualcosa di più che non qualche appuntamento di guerriglia urbana qua e là nel mondo o la richiesta belante di “spazi alternativi” o la vaga ed equivoca “globalizzazione dal basso” che altro non è che un bieco riformismo riverniciato di appelli cristianucci al buon cuore. Sono invece necessarie, oggi più che mai, la preparazione rivoluzionaria, la distruzione di ogni mito borghese e piccolo-borghese (dal pacifismo alla democrazia, dall’ecologismo allo “stato sociale”, ecc.), la riaffermazione della teoria marxista integrale contro tutti gli attacchi portati dall’ideologia del capitale e dalla controrivoluzione staliniana che ha distrutto ogni tradizione di lotta del movimento proletario internazionale – e dunque la diffusione a livello mondiale del Partito comunista internazionale. E infine saranno necessarie, in un domani da preparare nell’oggi, la rivoluzione mondiale e la dittatura del proletariato diretto dal suo partito.

5. La “globalizzazione” non è un processo perverso messo in atto negli ultimi anni da un manipolo di egoisti (individui, gruppi, imprese, Stati) che calpestano quotidianamente i “diritti collettivi”, da contrastare radunando un grande, informe corteo una volta ogni tanto, o smontando un Mc-Donald’s, devastando un campo della Monsanto, sfasciando la vetrina di una banca (preferibilmente statunitense). Quello che impropriamente è detto “globalizzazione” è il processo attraverso cui, da sempre e con velocità e intensità differente a seconda delle fasi, il capitale tende a penetrare in ogni angolo del mondo – processo individuato e descritto dal marxismo fin dall’epoca del Manifesto del partito comunista, un libro “vecchio” di 170 anni che qualcuno farebbe bene ad andare a rileggersi.

Ciò cui si assiste ormai da mezzo secolo è l’intensificazione di questo processo, sotto la spinta di una crisi economica strutturale scoppiata come conseguenza della chiusura del ciclo espansivo dell’economia capitalistica, a sua volta reso possibile dalle immani distruzioni di merci (=oggetti, infrastrutture ed esseri umani) causate dal secondo macello imperialistico. Per reagire a una crisi di tale portata, il capitale conosce solo pochi mezzi, ciascuno dei quali è destinato a sua volta ad approfondirla: intensificarsi della competizione commerciale e del controllo dei mercati, delle fonti di materie prime, delle rotte commerciali (=acuirsi dei contrasti inter-imperialistici); introduzione di tecnologie sempre più sofisticate (=espulsione di manodopera con crescita della disoccupazione, contrazione di quel lavoro vivo che produce plusvalore e dunque profitti); proletarizzazione di settori sempre più vasti della popolazione mondiale per assicurarsi manodopera più ricattabile e a buon mercato (=grandi flussi migratori, tensioni sociali crescenti, distruzione di equilibri naturali secolari in ampie aree del pianeta, aumento dell’insicurezza delle condizioni materiali di vita). In fondo a tutto ciò, quando tutto ciò non serva più, la soluzione finale: un nuovo massacro mondiale che distrugga tutto quel che s’è prodotto in eccesso (merci ed esseri umani), come avvenne già, per l’appunto, con la Prima e con la Seconda guerra mondiale. Per il capitale, si tratta di una necessità di vita o di morte, e non di individuali egoismi o sanguinarie malvagità: e allora solo rompendo una volta per tutte questo ciclo infernale si potrà evitare che il capitale distrugga la specie umana.

6. Da questo punto di vista, è evidente che né il pacifismo etico e belante delle mani alzate o dell’inginocchiarsi nelle strade e negli stadi (esemplari segni di resa) né il ribellismo anarcoide dei casseurs o dei black blocs (con la loro assoluta e rivendicata mancanza di struttura e programma politico) sono una risposta. L’unica risposta è il ritorno sulla scena, dopo decenni di devastante controrivoluzione (fra stalinismo, nazi-fascismo e democrazia), della classe proletaria internazionale: non perché essa sia “geneticamente rivoluzionaria” come vorrebbe qualche ingenuo, ma perché essa ha il potenziale di bloccare i gangli vitali del capitalismo, di colpire là dove viene prodotto il plusvalore, e quindi di minacciare seriamente il potere borghese. E questo ritorno va preparato, aiutato, reso possibile, giorno dopo giorno: con un lavoro costante di chiarificazione, di organizzazione, di direzione, lottando contro tutte quelle posizioni riformiste, legalitarie e democratiche, che sviano la classe proletaria dalla sua strada, che la imbrigliano in prospettive non sue, che la legano al cadavere putrefatto ma purtroppo ancora in cammino dell’economia capitalista, del suo Stato, della sua nazione. Mentre la crisi economica ne pone le premesse, erodendo riserve e garanzie, illusioni e convinzioni, questo ritorno va preparato con pazienza e serietà, lucidità e consapevolezza, e al tempo stesso con quella passione e con quell’ardore che hanno caratterizzato generazioni su generazioni di comunisti rivoluzionari: senza correr dietro ai fantasmi dello spontaneismo, del soggettivismo o del ribellismo, del “tutto e oggi” o del “concreto qui e ora”, ma lavorando per un domani che può solo avere le sue radici nell’oggi, per un oggi che ha senso solo se proiettato verso un domani non importa quanto lontano.

Questo si può e si deve fare. Ma lo si può fare solo tornando al marxismo rivoluzionario: con il duro ma entusiasmante lavoro della preparazione rivoluzionaria, della propaganda e del proselitismo, della diffusione della teoria e del programma comunisti, della lotta continua e puntuale contro tutte le ideologie apertamente nemiche o, peggio, fintamente amiche, della formazione di nuove generazioni rivoluzionarie destinate a giorni più luminosi di quelli di oggi, della guida e dell’indirizzamento delle lotte proletarie nel mondo in senso dichiaratamente anticapitalista, del radicamento internazionale del partito di classe, solido nella sua organizzazione e nella sua dottrina.

Può sembrare una prospettiva lontana: in realtà, è l’unica possibile. E realistica, se si vogliono evitare altri, e ben più gravi, disastri.

 

A proposito del movimento no global

Non è con i “pii desideri” che si fermerà la corsa distruttiva del capitalismo. Solo il proletariato internazionale guidato dal suo Partito potrà farla finita una volta per tutte con il sistema del profitto, dello sfruttamento, della distruzione e delle guerre. (articolo uscito sul n.4/2001 de “il programma comunista”)

 

22/09/2021

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