Non passa giorno senza che ci sia una batosta: licenziamenti a raffica, disoccupazione che s’impenna ovunque, chiusure d’imprese e d’impianti, Pil che affondano, banche che traballano, borse che crollano, centinaia e centinaia di miliardi di dollari, di euro, di yen, di yuan che vanno in fumo o vengono dirottati (da dove, poi?) per “salvare” a destra e a manca... Quanto agli esperti, sono tutti d’accordo nel... non sapere che pesci pigliare: chi propone un “nuovo capitalismo sostenibile” (da chi?), chi invece un “nuovo capitalismo etico” (contrapposto dunque al “capitalismo immorale” che ha dominato finora? ma non era il “migliore dei mondi possibili”?!), chi ancora un “capitalismo numero 3” (dopo quello numero 1, liberista, e quello numero 2, statalista: complimenti per la fantasia!). Insomma, le parole sono in libertà tanto quanto sono in difetto le idee: e non può che essere così, perché la bancarotta del pensiero economico borghese può solo seguire da vicino quella del modo di produzione di cui è espressione diretta e gli economisti contemporanei hanno rinunciato definitivamente all’“onestà intellettuale” che se non altro contraddistingueva gli Adam Smith e i David Ricardo del tempo che fu.

Il modo di produzione capitalistico è entrato in una nuova fase di crisi strutturale a metà anni ’70, quando si è chiuso il ciclo espansivo inaugurato e reso possibile dalla seconda guerra mondiale. In questi quarant’anni, sono state messe in campo strategie diverse per contrastare la crisi: cioè, per rallentare la caduta tendenziale del saggio medio di profitto, bestia nera del capitalismo, legge che lo condanna a morte. Queste “controtendenze” (come le chiamavano Marx ed Engels) sono state di tipo essenzialmente sociale e finanziario: innanzitutto, “risparmiare” sul salario (diretto, indiretto, differito) e poi tagliare tutti i rami secchi e le altre spese improduttive, smantellare lo “stato sociale” per fare cassa, risparmiare su salari e altre spese improduttive, esercitare una crescente pressione diretta e indiretta sul proletariato, e intanto illudersi di “by-passare” la produzione (con le sue lentezze e problematicità) inventandosi ogni genere di speculazione, buttandosi armi e bagagli nella Borsa... E, finché è andata bene, “zitti e mosca”: tutti a tagliar cedole; oggi, invece, si scopre che c’erano manager corrotti e incompetenti, che le banche sono piene di “titoli tossici”, che gli ultimi decenni hanno visto scoppiare una bolla speculativa dietro l’altra, e chi più ne ha più ne metta. Dunque, via il laissez faire, quella brutta parolaccia, e dentro lo statalismo: trionfa il Papà Stato che si prende amorevolmente cura dei malati, che cura e benda le ferite, che sparge balsami a piene mani.

Noi comunisti abbiamo sempre sostenuto a) che lo Stato non è un organismo neutro e al di sopra delle parti, ma lo strumento (armato e organizzato) della classe dominante, b) che il suo intervento nell’economia non è sporadico, ma continuo e imprescindibile, specie a partire dal momento in cui il capitalismo è entrato nella sua fase imperialista, c) che soprattutto dopo la seconda guerra mondiale l’interventismo statale (la centralizzazione, i tentativi di regolamentazione, ecc.) rappresenta un punto di non ritorno, un processo irreversibile, che il capitalismo in forma democratica uscito dal conflitto ha ereditato dal nazifascismo sconfitto (la dimostrazione si ha tenendo presente quanto all’interventismo statale si sia comunque fatto ricorso anche nei periodi di più intensa retorica liberista – quelli della reaganomics o del thatcherismo). Ridicolo dunque è sia contrapporre liberismo e statalismo sia pensare che l’intervento regolatore dello stato sia un meccanismo attraverso cui si possa affermare una più giusta ripartizione sociale della ricchezza (non parliamo poi di quei cretini che cianciano di statalismo come anticamera... del socialismo!).

Oggi come ieri (il New Deal), stiamo assistendo a un disperato tentativo da parte della classe dominante di rimetter ordine nel proprio modo di produzione attanagliato dalla crisi, a tutto ed esclusivo vantaggio del grande capitale e della propria sopravvivenza – e questo spiega anche la rapidità con cui, a livello mondiale, si sono riscoperti tutti (e lasciamo perdere il ridicolo balletto dei dissenzienti: puro specchietto per le allodole!) “statalisti”. Noi sappiamo che questo tentativo, da parte delle classi dominanti dei vari paesi, è un tentativo disperato: da un lato, perché – come le altre “controtendenze” sviluppatesi nel corso degli ultimi decenni – potrà solo rallentare o ritardare il processo, ma, così facendo, non farà che renderlo più acuto e catastrofico (esattamente come le bolle speculative hanno entro certi limiti attenuato la “percezione” della velocità della caduta tendenziale del saggio medio di profitto, e favorito crolli ogni volta più disastrosi di quello precedente); dall’altro, perché in questo modo le tendenze protezionistiche non faranno altro che accentuarsi, e con esse le spinte autarchiche e soprattutto le contrapposizioni sempre più aperte dei vari capitali nazionali, impegnati in un’accesa concorrenza reciproca per difendere i propri mercati e penetrare in quelli altrui. Dunque, come già fu nel corso degli anni ’30 del secolo scorso, tutto questo processo può solo orientarsi (con tempi che oggi è impossibile scandire, ma che potranno a un certo punto accelerarsi d’improvviso) nella direzione di un nuovo conflitto mondiale.

Intanto, l’agonia fa sentire i suoi effetti. L’acuirsi delle contraddizioni non segue un percorso lineare e meccanico: porta con sé sconquassi, dissesto economico, sfilacciamento di ogni rapporto sociale – ma purtroppo non, immediatamente, un risveglio della lotta di classe. E’ un processo altamente degenerativo in tutti gli aspetti e settori della vita associata: le ferite suppurano, i tessuti vanno in cancrena. Lo stiamo vedendo tutt’intorno a noi: la civiltà del “migliore dei mondi possibili” sembra impazzita, sembra percorsa da una follia criminale, sembra afflitta da un abbrutimento crescente a ogni livello – peggioramento continuo dei rapporti fra gli individui, dei rapporti fra i sessi, dei rapporti fra generazioni, della condizione femminile, della condizione giovanile, della condizione degli anziani, della salute fisica e mentale; comportamenti irrazionali e violenti; sgretolamento di ogni concetto e pratica di anche solo minima solidarietà fra individui e gruppi a favore di logiche razziste da “guerra di tutti contro tutti”; bombardamento incessante di messaggi sempre più “dis-umani” da parte di tutti i media; tecnologie che inducono sempre più evidentemente a forme di dipendenza, di isolamento, di vero e proprio “autismo collettivo”; spappolamento di ogni tipo di comportamento collettivo... E questo solo a livello sovrastrutturale, socio-culturale, antropologico.

Ma gli effetti dell’agonia sono poi soprattutto direttamente materiali. E sono la difficoltà quotidiana da parte delle famiglie proletarie di arrivare alla fine del mese (e ciò, nonostante il momentaneo, tanto decantato calo dei prezzi, dovuto al calo dei consumi e della domanda) e di fare fronte ai debiti contratti all’epoca dell’euforia generale (mutui, rate, inutili tecnologie, ecc.); sono l’incertezza crescente per il futuro, proprio e dei propri figli, di fronte al peggioramento quotidiano dell’economia, alla disoccupazione dilagante, alla precarizzazione dei rapporti di lavoro (e al peggioramento di quelli già precari); sono l’attacco continuo a tutte quelle “conquiste” ottenute in passato con lotte dure e spesso anche drammatiche (e non “diritti costituzionali” garantiti da questa o quella Carta, come cianciano i riformisti e democratici di ogni risma!), dalle pensioni all’orario di lavoro, al salario, alle condizioni di vita e di lavoro in genere; sono la pressione che lo Stato (altro che il buon papà! il poliziotto armato...) esercita sulla classe proletaria, introducendo o perfezionando ogni tipo di misura repressiva (dalla limitazione del diritto di sciopero alle bastonate ai proletari che dimostrano per la propria sopravvivenza all’aperta e continua repressione dei proletari immigrati)...

Questi sono i miasmi che accompagnano la crisi del modo di produzione capitalistico entrato ormai da un secolo nella sua fase imperialistica – quella in cui, dunque, tutti i suoi aspetti originari, tutte le sue caratteristiche, sono portati all’esasperazione estrema.

L’agonia si trascina e continuerà a protrarsi, finché il capitale mondiale, nei suoi vari segmenti nazionali (destinati a rimescolarsi in vecchie o nuove alleanze), non raccoglierà le proprie forze in un tentativo estremo di sopravvivenza – preparando un nuovo conflitto mondiale. Almeno agli inizi, questo protrarsi dell’agonia ha effetti devastanti sullo stesso proletariato, che vanno ad aggiungersi alla condizione tremenda in cui esso si trova dopo più di ottant’anni di controrivoluzione, in cui democrazia, fascismo, stalinismo e ogni altra forma di riformismo più o meno mascherato si sono dati la mano per cancellare anche solo il ricordo dell’antagonismo di classe, dei concetti basilari del materialismo dialettico, dell’analisi marxista della società, della prospettiva della rivoluzione proletaria e del comunismo. Ciò fa sì che, oggi, la nostra classe, il proletariato mondiale, si trovi in uno stato di prostrazione estrema, di vulnerabilità e fragilità assoluta, e che sia inevitabile che le sue reazioni all’attacco che sta subendo siano disordinate, contraddittorie, incerte, perfino equivoche: ne parliamo a lungo in questo numero del nostro giornale in lingua italiana, ma il fenomeno è ovviamente mondiale. Non c’è meccanicità né automatismo nel processo che conduce dalla crisi economica a quella sociale – solo dei pessimi materialisti, dei “materialisti rozzi e volgari”, possono crederlo. La ripresa classista sarà un percorso accidentato e difficile, pieno di contraddizioni e falsi movimenti, di prolungata apatia ed esplosioni improvvise – lo provano gli episodi grandi e piccoli che si sono verificati un po’ ovunque in questi ultimi mesi. Il proletariato è costretto a ripercorrere da capo, e in condizioni ben peggiori, la strada che aveva percorso un secolo e più fa: tanto grave è stata la sconfitta e tanto diffuso e profondo il dissesto programmatico e organizzativo. Di questa immane sconfitta, dello stato di prostrazione in cui versa il proletariato mondiale, dell’enorme lavoro da svolgere a fianco e nelle file della nostra classe, noi comunisti non soltanto siamo coscienti da sempre: sappiamo anche che è solo grazie a questo enorme lavoro (di riorganizzazione pratica e di direzione politica) che si potrà imboccare infine quella strada, che porta alla presa del potere, alla dittatura proletaria, alla società senza classi. Dalla crisi viene infatti l’ulteriore conferma della necessità primaria della presenza e dell’azione del partito rivoluzionario – contro tutti gli anti-partito, contro tutti i teorizzatori del “partito che verrà al momento giusto”, contro tutti coloro che ancora si illudono che, con il “ tanto peggio tanto meglio”, la rivoluzione possa sorprenderci dietro l’angolo.

Il capitalismo è in agonia, un’agonia sempre più sanguinaria. Ma non ci farà la grazia di tirar le cuoia da solo: andrà abbattuto. E ciò sarà solo possibile, nella dialettica dello scontro sociale e quando le condizioni oggettive siano mature, grazie all’incontro tra la forza di un proletariato che, attraverso la dura esperienza della ripresa classista (con le sue inevitabili, cocenti sconfitte), avrà ripreso a lottare per i propri fini storici e la guida del partito rivoluzionario, fattore di scienza, di coscienza e di organizzazione, restaurato faticosamente nel corso dei decenni da quelle generazioni di militanti che non hanno chinato il capo davanti alla controrivoluzione.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2009)

 

 

 

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