Nel n° 5/2008 di questo giornale, abbiamo commentato ampiamente la proposta del modello contrattuale avanzata dalle tre Confederazioni sindacali. Il loro modello unitario era stato presentato come un evento storico, che avrebbe cambiato le regole della contrattazione: una formalizzazione più completa e aggiornata della concertazione del luglio 1993, quell’autentico cappio al collo per gli operai. Da allora, infatti, l’unico automatismo (soprattutto dopo l’introduzione dell’euro, nel 2001) è stato l’impoverimento generalizzato: i salari sono stati pesantemente decurtati, mentre l’indice dei prezzi Istat è risultato un giocattolo nelle mani dei governi di destra e di “sinistra”, che rispondevano solo dell’inflazione programmata. Il risultato delle riforme che si sono succedute dal 1993 a oggi è la sequenza di leggi che hanno legalizzato il lavoro temporaneo: il pacchetto Treu del 1996, la Legge Bassanini e la Legge Biagi, un lungo percorso segnato dalla diffusione della precarietà generale del lavoro e dall’insicurezza sul lavoro, e sempre più insanguinato dalla morte di migliaia di lavoratori sottoposti al ricatto della scadenza di contratto, dai ritmi esasperati, dall’incubo della perdita del permesso di soggiorno.

Nella serata del 23 gennaio 2008, dopo i ripetuti fallimenti degli incontri (nei quali la Cgil pretendeva il rispetto che si merita in quanto organizzazione perfettamente integrata nel sistema delle relazioni economiche), il Governo, la Confindustria, la Cisl, la Uil e la Ugl (ex Cisnal), e altre associazioni imprenditoriali oltre che pubbliche, con l’autoesclusione della Cgil, hanno firmato il “documento d’indirizzo” del modello contrattuale (da cui discendono le “linee guida” d’area e poi, più avanti, i contratti nazionali veri e propri): un altro passo avanti nel processo d’inserimento della rappresentanza del lavoro salariato (pubblico e privato) in una “corporazione statale”, sempre più funzionale al capitale, in vista dei prossimi anni di crisi mondiale. Il documento, al di là di quel che se ne dica, ricalca quello Confederale irrigidendolo solo in alcuni punti salienti. Esaminiamolo:

1) Il contratto viene prolungato di un anno nella parte economica e normativa: gli aumenti di salario che fino ad oggi dovevano essere biennali diventano dunque triennali. Niente di diverso da quello proposto dalla “libera corporazione sindacale“. Su quest’altra concessione alla gestione del personale aziendale, che permette di tenere buona per un triennio la classe operaia occupata, mentre fioccano i licenziamenti e le casse integrazioni e aumenta il carico di lavoro con gli straordinari, nessuno dei sindacati di regime ha avuto da ridire: sembra scontato che allungare di un anno la pena di lavoro alle stesse condizioni salariali e normative sia piuttosto un privilegio, mentre l‘intero mondo della produzione crolla.

2) L’indice d’inflazione “per ancorare il sostegno del salario a criteri credibili e condivisi in ambito di vera politica dei redditi“, come recita il testo Confederale, o per stabilire l'ammontare massimo degli aumenti contrattuali dei contratti nazionali di categoria, sarà elaborato da Eurostat, si chiama IPCA (Indice dei prezzi al consumo armonizzato) e non più IPC , e non sarà stabilito più dal governo (inflazione programmata). Non voleva la Cgil che l’inflazione fosse “supportata dai parametri ufficiali di riferimento” e non da una decisione politica? non chiedeva che fosse stabilita “l’inflazione realisticamente prevedibile” di cui nessuno sapeva dire cosa fosse, dai sindacati di base alla stessa Confindustria? Eccola servita! Il guaio è che l’indice IPCA viene depurato del contributo all'inflazione apportato dagli aumenti dei prezzi dei beni energetici importati (energia e materie prime energetiche): ora, questi aumenti costituiscono la principale componente dell'inflazione e la loro depurazione porterà a una riduzione strutturale del potere d'acquisto dei salari e degli stipendi nei tre anni contrattuali. Se si aggiunge poi che il recupero della differenza tra inflazione reale e inflazione armonizzata dall’istituto di statistica avverrà nel triennio successivo a quello in cui si è avuta la perdita e che tale recupero non è automatico (bensì negoziabile!), appare evidente che ogni contratto nazionale sarà solo una rincorsa per recuperare il potere d'acquisto perduto. Guai infatti a parlare di aumenti che non siano legati alla produttività! Ma quale sarà la base retributiva a cui far riferimento nei contratti di categoria e a cui applicare il tasso d‘inflazione, il cosiddetto “punto” retributivo? Il testo dice che l’indice “sarà applicato a un valore retributivo individuato da specifiche intese”, ma già si prevede che il punto sarà del 15% in meno rispetto a quello dei contratti precedenti. Chi controllerà gli scostamenti tra gli aumenti dei prezzi e gli aumenti contrattuali? Sarà una “sede paritetica a livello interconfederale”: una struttura che con tutta probabilità sarà formata da dirigenti sindacali scelti ad hoc... Dunque, state tranquilli, né la Confindustria né il Governo vogliono il divorzio: si chiederà alla Cgil solamente di non andare così fuori dal coro nel “concerto corporativo“.

3) L’accordo prevede inoltre che Enti bilaterali, formati da imprese e sindacati, possano gestire nuove forme di sussidi, formazione, e servizi integrativi di welfare. Che cosa c’è di nuovo o di diverso? Non si voleva una “regolazione degli strumenti esistenti”? La “bilateralità sia a livello nazionale che territoriale qualificandolo [il contratto, ndr] anche sui temi del welfare contrattuale” non viene forse “qualificata e rafforzata”, proprio come si chiedeva?

4) Quello che ha maggiormente incrinato la grande disponibilità della Cgil è stato il superamento del contratto nazionale. Il documento recita: “Per consentire il raggiungimento di specifiche intese per governare nell’azienda e nel territorio situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico, le intese potranno definire procedure per modificare in tutto o in parte singoli istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali”. Che, tradotto, significa: il contratto nazionale potrà essere scavalcato sia in un’azienda che in un’area produttiva. Retribuzioni e norme non saranno più uguali da Nord a Sud, ma potranno variare, facendo saltare il significato stesso di contrattazione nazionale. L'accettazione, da parte dei sindacati firmatari Cisl e Uil, della remunerazione degli aumenti di produttività del lavoro solo negli accordi aziendali ha fatto saltare la proposta Confederale “unitaria” (?). La proposta confederale precedente chiedeva infatti un primo livello di concertazione che individuasse una “quota fissata” di aumenti contrattuali: era da parte confederale anche un tentativo di articolare le differenze di produttività nei vari settori produttivi e territoriali. Era, come scrivemmo allora, una maxi offerta di merce forza-lavoro variamente scontabile e dunque aperta a gabbie salariali d’ogni tipo: dal salario individuale a quello “regionale, provinciale, settoriale, di filiera, di distretto, di sito”. Il tutto posto sotto il giogo della “produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia”, agevolando il supersfruttamento e il regime del cottimo. A questa grande offerta riformista, elaborata con tanta buona volontà da esperti sindacali ed economisti “a progetto”, si è risposto che la Cgil si faccia gli affari suoi, che il Governo e la Confindustria, con servi al seguito, si faranno i loro. La distribuzione territoriale delle imprese medio-grandi in cui si fa la contrattazione aziendale (il 5%; il restante 95% è composto di piccole imprese che non saranno interessate dalla contrattazione aziendale, mentre il contratto nazionale di base per tutti partirà da una decurtazione notevole) riguarda normalmente il centro-nord. Questo porterà, confermano gli esperti, a una progressiva diversificazione retributiva tra i lavoratori delle imprese più grandi e quelli delle imprese minori, e tra le imprese del centro nord e quelle del sud, introducendo di nuovo le famigerate gabbie salariali. La cosa incredibile, secondo il gran gazzettiere Eugenio Scalfari, è che “agganciare i salari alla produttività in un periodo di grave recessione, di licenziamenti, di diminuzione produttiva è come costruire caloriferi all’Equatore e frigoriferi ai Poli”. Ma gli si obietta che la riforma sarà pronta per quando la crescita riprenderà!

5) Per valutare la rappresentatività dei vari sindacati (democrazia sindacale) viene prevista la certificazione dei dati (delle iscrizioni sindacali in azienda) da parte dell’INPS, come già chiesto, ma “le nuove regole possono determinare per la contrattazione di secondo livello negli enti pubblici l’insieme di sindacati che rappresentano la maggioranza che possono proclamare gli scioperi al termine della tregua sindacale predefinita”. Il che significa che ai sindacati di base, particolarmente forti nel comparto pubblico, non è permesso di proclamare scioperi per ottenere miglioramenti contrattuali nei rispettivi enti, perché a livello nazionale rimangono comunque minoritari.

6) E, per finire, viene istituita la norma che vieta le azioni sindacali durante la contrattazione, in modo che essa si svolga senza la consueta pressione dei lavoratori. Il che vuol dire che, a partire dalla scadenza del contratto, e per tutti i mesi che verranno (anni talvolta), non è consentito scioperare: si dispongono dure sanzioni pecuniarie alle associazioni sindacali e anche ai singoli lavoratori che si pongono sul terreno dell’illegalità. Sul tema del cosiddetto diritto di sciopero, oltre alle “regolamentazioni e autoregolamentazioni“ rigide già in uso e ai tempi più lunghi di preavviso, s’introduce la titolarità dello sciopero: scioperare non sarà più consentito al singolo lavoratore, se non dopo una dichiarazione anticipata di adesione (o meno), vincolata alla “sigla” che proclama l’azione! Tra le altre misure, viene dato valore allo “sciopero virtuale”: gli operai in sciopero rimangono al lavoro (con una fascia al braccio) e vengono penalizzati per la giornata di sciopero – quota che verrà recuperata alla stipulazione del contratto (stupendo! Finalmente, lo sciopero non danneggia più l’azienda, ma solo il lavoratore così coglione da praticarlo!). 

7) L’accordo definisce inoltre un “sistema di controlli”, che dovrebbe rendere automatici (?) gli aumenti salariali alla scadenza del contratto. Ricordiamo che l’80% degli aumenti contrattuali avvenuti dopo il 1993 ha superato di gran lunga i due anni di scadenza, con la perdita consistente di salari e stipendi solo in parte recuperati da una tantum e vacanze contrattuali – quote che non incidono sul calcolo della pensione e del TFR. Gli esempi più eclatanti sono i tre anni di scadenza del Contratto della sanità privata e i 18 mesi di quello del Commercio. Attualmente, sono in vigore contratti separati non firmati dalla Cgil, nella scuola e per i metalmeccanici, mentre in molti altri comparti non si contano nemmeno più i mesi di ritardo nella corresponsione di aumenti che, in cambio di una sorta di ‘tregua sindacale’, dovevano essere automatici. Nei casi in cui non si riesca a raggiungere un accordo tra sindacati di categoria e datori di lavoro, è previsto l’intervento del “livello interconfederale” – un intervento che obbliga a chiudere la vertenza rapidamente, rimandando eventualmente i punti di disaccordo al successivo contratto.

Questa dunque è l’intelaiatura della Riforma del contratto di lavoro, sanzionata come un  vero “pacchetto di sicurezza” da parte del Governo, con l’assenso di Confindustria e Sindacati, chiamati all’appello in vista dei prossimi anni di crisi. La Confindustria propone di lasciare aperto il canale di colloqui con la “disubbidiente” Cgil, colloqui che in sede privata non si sono mai interrotti. Lo sciopero di Fiom e del Pubblico impiego di qualche settimana fa, in nome di sacrosante rivendicazioni, infarcite da rispettose sollecitazioni a sanare la rottura sindacale, da inviti a mettere più denaro a sostegno degli ammortizzatori sociali e soprattutto dall’accorato tributo alla Costituzione Italiana nel suo primo articolo, è stato un dejà vu penoso. E tuttavia il Governo sa che a un’organizzazione sindacale come la Cgil (che “tanto ha dato al Paese”!) devono essere costruiti ponti d’oro, anche quando tatticamente innalza un apparente percorso alternativo; il Governo sa che la strada della crisi è lunga e c’è urgente bisogno dei... riservisti dell’ultima ora, che non mancheranno di spingere il movimento proletario verso l’abisso. Contro il percorso di sabotaggio delle forze proletarie, il Partito Comunista è impegnato ad unire in un unico fronte di lotta ogni slancio, ogni tentativo spontaneo, ogni azione di difesa e di attacco contro il suo nemico diretto e contro l’opportunismo in tutte le sue forme.

 

 

 

 

  Partito Comunista Internazionale

                      (il programma comunista n°02 - 2009)

 


 

 

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