Per meglio capire la realtà dell’economia cinese attuale, soprattutto allo scopo di seguire sempre meglio i suoi sviluppi futuri in rapporto alla crisi in corso (o ad altre sicuramente peggiori che ne potranno seguire), riteniamo utile mettere in evidenza in questa prima parte, sia pure brevemente e solo per gli aspetti più importanti, la sua storia economica passata, a partire almeno dal 1949. Ci soffermeremo, pertanto, sugli aspetti più rilevanti di questa storia, rimandando a un prossimo lavoro un’analisi più ampia ed estesa dell’evoluzione dei rapporti inter-imperialistici nella regione asiatica (Asia centrale, Sud Pacifico, Sudest asiatico) o del rilancio militare cinese ad essi strettamente legati. Un lavoro a parte dovrebbe riguardare poi una migliore conoscenza delle lotte e delle drammatiche condizioni di vita e di lavoro del proletariato cinese, su cui le autorità politiche erigono da sempre un impenetrabile muro di silenzio.

 

 

PREMESSA

L’economia capitalistica cinese, soprattutto nel periodo che va dal 1980 ad oggi, ha intrapreso una strada tanto accidentata quanto accelerata, che l’ha condotta a sorpassare, una dopo l’altra, i tradizionali più vecchi paesi imperialismi, fino a raggiungere di recente, nel campo degli scambi commerciali, la stessa potenza maggiore, gli USA. Non si tratta certamente di una caratteristica peculiare dell’economia capitalistica cinese o del retaggio di una presunta spinta “in senso socialista”, magari dei primi decenni dopo l’indipendenza politica del 1949, declinata nel senso di uno sviluppo ossessivo, come piace sostenere ancora a sedicenti marxisti, nostalgici dello stalinismo maoista; né tanto meno di una sorta di regime di “socialismo di mercato” ancora in atto, come intendono ipocritamente spacciare tuttora gli organi ufficiali del PCC: un socialismo, sostengono, “che fa i conti realisticamente” con l’economia di mercato.


 

Tutti gli Stati capitalistici “nuovi”, anche quelli ottocenteschi (Germania, Italia, ecc.), per non parlare della Russia dopo il 1917, hanno sempre avuto, almeno potenzialmente e oggettivamente, la possibilità di accelerare il proprio processo di sviluppo economico, rispetto agli Stati capitalisti precedenti, poiché potevano avvalersi di un mercato più largo e di forze produttive tecnologicamente più avanzate. Certamente, non tutti gli Stati che sono riusciti a rompere con precedenti modi di produzione hanno poi potuto sviluppare di fatto quella tendenza e quelle possibilità, e soprattutto portarle avanti in così pochi decenni, come è stato invece per la Cina. La stessa Russia, a partire dall’epoca staliniana e dai piani quinquennali di industrializzazione, conobbe infine, dopo avere “rivaleggiato” per alcuni decenni anche sul piano economico oltre che militare con la potenza maggiore, gli USA (1), il crollo di fine anni ’80 del secolo scorso, insieme alla disgregazione politica e plurinazionale che le ha poi impedito, almeno per un buon numero di anni, un'ulteriore crescita economica. Non parliamo poi degli Stati e delle regioni del Nord Africa o del Medio Oriente, le cui economie, legate in gran parte alla rendita petrolifera o all’energia in genere, non hanno mai conosciuto uno sviluppo economico capitalistico completo, forte e generalizzato, pagandone oggi, dinanzi alla crisi economica generale e profonda, le conseguenze o in termini di conflitti interni e inter-imperialistici (Libia, Siria) o con crisi politiche (Egitto, Tunisia) dalle quali sarà sempre più difficile uscire in maniera indolore. Lo sviluppo più vigoroso e completo del capitalismo dei paesi dell’America Latina, d’altra parte, dopo essere stato per lungo tempo anch’esso estremamente stentato e asfittico, è invece una realtà piuttosto recente, dell’ultimo decennio o poco più – sviluppo in gran parte direttamente legato allo stesso relativo indebolirsi della potenza economica e anche militare USA, che per più di un secolo si era posta (e ancor oggi si pone), più ancora delle vecchie potenze europee, come fortissimo fattore di soffocamento e di freno alla crescita economica di tutta quella regione, ma che oggi va esso pure risentendo fortemente degli effetti della crisi economica mondiale.


 

Anche il cammino dell'economia cinese è stato ed è ancora tutt’altro che facile. Sicuramente, esso è stato favorito dall’unità politica raggiunta nel 1949, dopo la vittoria militare sul partito nazionalista del Kuomintang, anche se poi il paese iniziato un ciclo di grande sviluppo solo dopo un trentennio di prevalente “autarchia”, coincidente con la leadership maoista: cioè, a partire dalle riforme di fine anni ’70. Da allora, esso ha però “bruciato”, in altri tre decenni, tutte le fasi e i processi di sviluppo tipici del modo di produzione capitalistico che le altre potenze avevano invece percorso, in precedenza, solo attraverso lunghi decenni o anche secoli. Di certo, la Cina ha trovato un terreno già pronto per questo suo sviluppo accelerato, così come, d’altra parte, lo avevano trovato prima altri paesi della stessa regione del sud Pacifico (Giappone, Taiwan, Singapore, Corea del sud), le cosiddette “Tigri asiatiche” o i paesi della stessa America del sud (Brasile): il terreno favorevole costituito dallo sviluppo ancor più “globale” e unitario del mercato mondiale. Non si tratta comunque di peculiarità “cinesi”, sebbene la Cina, almeno nei secoli passati, all'insegna di regimi feudali, abbia avuto una storia particolare (2), ma, come ricordavamo prima, dell’esistenza oggettiva del mercato mondiale ad una fase ancora più avanzata di quella incontrata in passato da altri Stati. Il fattore che più ha influito sul piano interno, lo ribadiamo, è stato senza dubbio quello politico: l’indipendenza che ha permesso alla borghesia cinese, allora fortemente (e necessariamente) “statalista” dal punto di vista dell’intervento massiccio nell’economia e rappresentata dallo stesso PCC, di dettare anch’essa, almeno entro certi limiti, le proprie condizioni, di imporre i propri “paletti” ai già vecchi e aggressivi imperialismi, impedendo a questi di “depredarla” ancora, come era successo in tutta la storia passata, più o meno recente.


 

Questo sviluppo accelerato dell’economia capitalistica ha significato però, per la Cina, dover fare i conti con i suoi effetti, con tutte le distorsioni e contraddizioni che gli sono tipici e che hanno sempre caratterizzato lo sviluppo economico di tutti gli Stati capitalistici. Questo sviluppo accelerato e distorto non le ha consentito di “cedere” neppure sul piano della direzione e conduzione politica, obbligandola a conservare così, apertamente, e anche sotto l’aspetto formale politico, quella feroce e totalitaria dittatura del capitale, presentata sconciamente come “socialismo”, che altri Stati capitalistici hanno invece potuto e possono ancora vantarsi, agli occhi anzitutto del proletariato, di aver abbellito o ammantato con gli abiti della vecchia democrazia borghese.


 

Lo stesso capitalismo “indigeno” si è così incaricato di continuare l’opera di sradicamento del vecchio modo di produzione, iniziata dal capitalismo europeo e in particolare britannico, così come è magnificamente illustrata nei vari scritti di Marx sulla Cina di metà '800 (3). Quest’opera di distruzione dei vecchi rapporti di produzione da parte dello stesso Stato cinese è stata così sempre più impedita all’imperialismo europeo e mondiale. Essa, intrapresa già speditamente sul piano interno dopo il 1949, è proseguita a livelli intensissimi dall’epoca delle cosiddette riforme di fine anni ‘70 e ancora oggi prosegue, nonostante la crisi economica mondiale. La forza lavoro, resa disponibile dalla continua e crescente distruzione della vecchia economia contadina, e poi dallo scioglimento delle cosiddette “comuni popolari” che inizialmente dovevano assicurare “autosufficienza” sul piano della produzione agraria-alimentare e della occupazione della manodopera contadina, è andata a concentrarsi in grandissima parte nelle regioni costiere fortemente industrializzate del sud est che avevano conosciuto un notevole sviluppo, come centri produttivi, commerciali e finanziari, fin dal primo impianto del capitalismo agli inizi del secolo scorso. Questo processo ha dato luogo a uno sviluppo fortemente diseguale e distorto dell’economia, tipico di ogni capitalismo, che non ha mai rispettato, in nessun luogo, canoni di sviluppo “armonici” all’interno dei confini nazionali, ma solo le inesorabili esigenze del profitto, investendo capitali nelle aree in cui questi risultavano più remunerativi. Più di un terzo delle esportazioni cinesi trova oggi la base e l'origine proprio nei grandi centri industriali delle zone costiere (Canton e Shangai), mentre i legami economici interregionali, all’interno del restante vastissimo territorio, si sono man mano allentati, piuttosto a vantaggio di quelli internazionali, soprattutto con gli Stati della stessa area del Sud Pacifico. Le diseguaglianze economiche regionali si sono poi accompagnate, come e più che in altre aree, a fortissime diseguaglianze sul piano sociale, anzitutto attraverso la formazione di un enorme esercito industriale di riserva, prodotto dello stesso sviluppo capitalistico, con un pauperismo diffusissimo e generalizzato, legato sia ai bassi salari sia a un affollamento urbano caotico a livelli inauditi.


 

Agli inizi degli anni ’80, l’economia capitalista cinese, da maggiormente “statalista e pianificata”, specie nel settore industriale, ma anche in quello agricolo, inizia la sua corsa forsennata, avvalendosi sempre più della forma aziendale privata e di una crescente liberalizzazione del mercato interno ed estero. Con la perdita progressiva di una certa pianificazione e dello stesso controllo statale sui prezzi, insieme alla sempre maggiore influenza del sistema bancario e finanziario e al gonfiarsi dell’inflazione, aumenteranno, intensificandosi in modo mai visto prima, corruzione, traffici “illeciti”, speculazioni di ogni sorta, che saranno alla base delle manifestazioni del maggio 1989 e della repressione successiva di giugno a Piazza Tian’anmen. Ma indietro, per il sistema capitalistico, “non si torna”, pena un inferno ancora peggiore di quello già prodotto: così, dopo qualche anno di “congelamento” delle riforme (1989-91) ad uso della cosiddetta “pace interna” (leggi: “regolamento di conti”) e della nostalgica quanto ormai sterile “sinistra” interna al PCC, la liberalizzazione riprende inesorabile il proprio corso, più velocemente di prima, avvalendosi adesso anche della “lezione” del crollo e della frantumazione dell’URSS. Al capitalismo statale industriale si va così accompagnando e sostituendo, man mano e con forza sempre maggiore, il capitalismo privato o “societario”, che sarà a sua volta rappresentato e influenzato sempre più dal capitale straniero. Questo troverà le migliori condizioni per i propri investimenti in Cina, non solo grazie al basso livello dei salari, ma anche alle progressive e crescenti riduzioni delle tariffe doganali.


 

La crisi economica del 2007 sembra all’inizio solo sfiorare l’economia cinese. Ma, “nuova officina del mondo”, la Cina non poteva ovviamente non risentire, alla lunga, degli effetti devastanti della crisi di un sistema mondiale, di cui era ormai a pieno titolo parte integrante. Così, a partire dal 2010-11, la crisi economica si farà sentire – e vedremo con quali risultati.


 

 

 

PRIMA PARTE. 1949-1979 : DALLO “STATALISMO” ALLE “RIFORME”


 

Dal 1949 al 1957: forte impulso economico statale e “idillio socialista”


 

Nonostante l’impianto del capitalismo fosse avvenuto già nel corso dell’800, è solo con l’indipendenza politica che comincia in effetti in Cina la vera e propria “accumulazione originaria” del capitale. Solo da qui iniziano infatti a registrarsi forti incrementi della produzione industriale, che corrono alla velocità media del 34% circa nei primi cinque anni (1949-53) e del 22% nei tre successivi (1953-57), in coincidenza con il varo del primo piano quinquennale. Per un raffronto, abbiamo anche i dati della produzione industriale in Russia dopo la fine della guerra civile (1917-1921) e il varo della NEP, cioè dal 1922 al 1928: l’indice d’incremento è qui del 23%, mentre nei quattro anni del primo piano quinquennale (1929-1932) l’indice scendeva al 17% (4). Quindi la marcia, dopo la Seconda guerra mondiale, è più veloce per la Cina rispetto a quella della Russia dopo la Prima. L’accumulazione originaria del capitale, ovviamente, risente fortemente del contesto interno ai due paesi, come pure di quello internazionale. Sul piano interno, la Cina corre più veloce, ma, come avviene sempre per le economie più giovani e più deboli, con valori assoluti della produzione più bassi raffrontati a quelli della stessa Russia. Il contesto internazionale dopo la Seconda guerra mondiale risulta poi senz’altro più positivo per la Cina rispetto a quello che confrontò la Russia nel primo dopoguerra: nonostante l’embargo economico cui è sottoposta dai paesi occidentali, la Cina si avvale infatti di stretti rapporti economici e finanziari con la stessa Russia.


 

La produzione d’acciaio conosce forti incrementi e, al 1957, è cresciuta di cinque volte rispetto al 1949, con le sue 5 mln di tonnellate circa (5). In forza anche della “stretta alleanza” politica con l’URSS, la Cina vara il suo piano quinquennale nel 1953-57, ispirandosi a quello staliniano del 1928-32, mirato esso pure al forte sviluppo della industria pesante a discapito di quella dei beni di consumo e dei prodotti agricoli: così, il piano stanziava 25 miliardi di Yuan per l’industria pesante (le acciaierie di Anshan e Wuahan e i centri petroliferi di Yumen e Karamai) e solo 3 miliardi per l’agricoltura (6). In questo periodo, più dei due terzi degli scambi economici si svolge con la Russia (50%) e con i paesi dell’Est europeo. Per rimettere in piedi il proprio apparato industriale e le proprie infrastrutture parzialmente distrutte dalle guerre (prima col Giappone e poi con i “nazionalisti” del Kuomintang), la Cina compra macchinari e tecnologie dall’URSS e, tra il 1950 e il 1954, ottiene anche prestiti per circa 400-500 milioni di dollari.


 

Sul piano agricolo, nel 1950 viene varata una riforma che ridistribuisce le terre ai contadini poveri in modo da assegnare loro, come minimo, almeno un sesto di ettaro (7). La terra tolta ai proprietari terrieri sarà di circa 46 mln di ettari (senza oneri e riscatti: poco meno della metà delle terre coltivate) e verrà distribuita a circa 300 milioni di contadini poveri o senza terra. La misura, che comportava lo sgravio del pagamento di rendite e interessi ai vecchi proprietari e usurai, si scontrava però sia con l’esiguità dell'estensione attribuita ai singoli contadini (1600 mq) sia con il forte aumento della popolazione agricola (che riduceva in realtà la misura a 600-700 mq). Soprattutto, si scontrava con gli scarsi investimenti di capitali in macchinari, concimi, sistemi di coltura moderni, irrigazione, ecc., capitali che, indirizzati maggiormente verso l’industria pesante, lasceranno languire l’agricoltura. Così, qualche anno dopo, tutti i contadini, nel vano tentativo di superare il deficit produttivo, saranno costretti a entrare nelle cooperative agricole imposte dal PCC, tanto che già nel 1956 tale processo super accelerato potrà dirsi quasi concluso: anche qui, il parallelo con la collettivizzazione forzata del 1928 in Russia non è certo casuale, ma solo un chiaro segno ed effetto della medesima politica di forzata e accelerata industrializzazione.


 

Fin dal 1949, lo Stato accresce poi sempre più la propria influenza nella gestione dell’economia e alla fine del periodo concentra in sé o controlla in modo diretto o indiretto la quasi totalità della produzione. Tuttavia, non mancherà anche allora una certa apertura liberista nei confronti della borghesia urbana rimasta in Cina, soprattutto a Shangai (la maggior parte, quella legata al regime del Kuomintang, aveva preferito rifugiarsi a Hong Kong o a Taiwan), “chiamata” essa pure a ricostruire l’apparato industriale nazionale. La crescita economica non è né interrotta dall’intervento militare in Corea nel 1950 né frenata dell’embargo economico da parte degli Stati occidentali. La popolazione s'aggira attorno ai 500 milioni. L’occupazione passa dai 12 milioni del 1952 ai 59 milioni nel 1960 (8). Tuttavia, nonostante lo sforzo “statalista”, nel 1954 la produzione totale di manufatti (tessuti a maglia, zucchero, fiammiferi, ecc.,) è fornita da una produzione ancora essenzialmente artigianale, di piccole e medie imprese private. Tra il '54 e il '56, dopo una “campagna” contro il “capitale privato” all’insegna della “lotta all’evasione e all’illegalità”, lo Stato offre alle “imprese in difficoltà” la possibilità di trasformare il capitale privato, prima in quello misto e poi in quello statale. Le misure in senso statalista saranno spacciate, ovviamente, come “costruzione del socialismo”.


 

Il passaggio dal tipo di produzione privato a quello contrabbandato per “socialista” (si trattava in realtà, in questa prima fase, del necessario e forte concentramento delle forze produttive in mano allo Stato), è segnato non a caso dall’introduzione del “lavoro a cottimo”, da uno sfruttamento più intenso della capacità lavorativa salariata e da una diversificazione in categorie e livelli dei proletari. A giustificazione di questo intenso sfruttamento, si scriverà che: “Il supremo, costante lavoro del sindacato in uno stato popolare è di radunare e guidare tutti i lavoratori, tecnici e impiegati in una emulazione patriottica cosciente e lavorare attivamente per l’aumento della produzione” (9). Il “sindacato di uno stato popolare” ricorda molto quello di stampo corporativo fascista! Nel 1954, dinanzi alla diffusione, invece, di tanti casi di assenteismo, di ritardi e di abbandono del posto di lavoro (evidentemente, quelle esaltazioni ed emulazioni patriottiche fatte sulla loro pelle non avevano troppo... convinto gli operai), viene promulgato un “Codice del Lavoro” avente lo scopo di stabilire che l’operaio “non può cambiare fabbrica senza il visto dell’autorità”. Negli anni successivi, però, nonostante l’ossessiva e mistificatoria propaganda “socialista”, la rabbia operaia crescerà: si diffondono richieste di aumenti salariali, di fronte alle quali il braccio destro di Mao, Chou En-Lai, denuncerà le “velleità economiciste” della classe operaia in contraddizione con le necessità dello sviluppo economico capitalistico del paese. A Shangai, ad esempio, manifestazioni e scioperi si trasformano spesso in rivolte: la protesta si allarga ai giovani, agli studenti, che solidarizzano sia col movimento proletario partito da Shangai sia con i lavoratori polacchi e ungheresi scesi allora in sciopero o in rivolta contro gli effetti del loro capitalismo di stato.


 

La politica maoista, da un lato, parlerà di “complotto controrivoluzionario”, dall’altro indirizzerà il malcontento giovanile contro la burocrazia dei “livelli medi o inferiori”, sulla sua “parte malvagia”. Alla XI sessione della Conferenza suprema di Stato, la grave crisi sociale in corso viene affrontata da Mao nella relazione intitolata “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo”, con un saggio di dialettica… confuciana. In omaggio all’apologia delle quattro classi in Cina, si sostiene che: ”Nel popolo, le contraddizioni tra i lavoratori non sono antagoniste e le contraddizioni tra classi sfruttate e sfruttatrici rappresentano, oltre che al loro aspetto antagonistico, anche un aspetto non antagonistico” (10). In forza di tale... teorizzazione, operai e studenti combattivi sono comunque bollati come “criminali” intenti a sabotare le “gloriose conquiste della Rivoluzione Popolare” e non pochi di essi conosceranno la prigione, la tortura, il plotone di esecuzione o gli “stabilimenti di rieducazione mediante il lavoro”.


 


 

1956-57: il tentativo liberalizzatore dei “Cento fiori”


 

Subito dopo essersi incaricato di estirpare “i fiori velenosi” della contestazione, “attecchiti” al di là di ogni previsione, il “Grande timoniere” sarà costretto a una nuova inversione di rotta: tra il maggio 1956 e il giugno 1957, il corso politico del partito viene rimesso in discussione al proprio interno, durante la cosiddetta stagione politica dei “Cento fiori”: “che cento fiori sboccino e cento scuole rivaleggino”, era lo slogan che l'accompagnava. In realtà, la situazione sociale sfuggiva di mano al PCC, tanto che lo stesso Mao, all’interno del partito, viene accusato di tenere una “condotta ondivaga”. Coi “Cento fiori”, si torna a riproporre, in parte, la liberalizzazione esistente prima del varo del piano quinquennale: ma, avendo in precedenza definito quel piano “statalista” come “costruzione del socialismo”, si giustifica adesso questo timido ritorno alle liberalizzazioni come la costruzione di una “nuova economia socialista”. Si passa così dalla teorizzazione del “mercato statale” come “socialismo” tout court alla teorizzazione del mercato privato con meno controllo statale, inteso neppure esso come capitalismo (questo mai!), ma come “nuova economia socialista” (11). Insomma, l’aggettivo “socialista” sarà appiccicato sempre, in ogni caso e ad ogni corso del capitalismo cinese, mettendone però sempre in rilievo le “novità”. Per immobilizzare anche sul piano ideologico i proletari e i contadini poveri, la fantasia e le teorizzazioni alla moda a Mao e ai suoi successori di “destra” certo non mancavano – alla faccia della dialettica materialista! Il nuovo corso sarà comunque ben presto troncato, nel giugno 1957, dal Quotidiano del popolo: i loro sostenitori verranno etichettati come “uomini di destra” (il loro momento non era ancora arrivato!) ed “epurati” in perfetto stile stalinista.


 


 

Il “balzo in avanti”, gli “anni bui” e gli anni sessanta


 

Falliti gli obbiettivi del primo piano quinquennale, sia nel settore agricolo che in quello industriale, l'VIII congresso del PCC lancia il cosiddetto “balzo in avanti”, con propositi ambiziosi e volontaristici (“liberare l’energia delle masse, liberare gli spiriti, spezzare la burocrazia”, ecc). Il balzo avanti si compie attraverso i ritmi sfrenati con cui vengono fatti lavorare, soprattutto per la produzione dell’acciaio, non solo i proletari urbani, ma anche circa venti milioni di contadini nelle acciaierie dislocate nei vari distretti rurali. In quattro anni, la produzione di acciaio, in mln di tonnellate, balza da sei, poi a otto e infine a tredici, per tornare a otto nel 1961. La produzione industriale, che al 1957 era cresciuta più di 5 volte, al 1961 risulterà cresciuta di dieci volte. Si prosegue dunque con la politica della forte industrializzazione, alla quale viene sacrificata l’agricoltura nonostante il varo della riforma e delle cooperative. Nel 1958, vi sarà poi anche la costituzione, delle “comuni popolari”, raggruppanti, su base regionale, le cooperative di recente formazione, che per alcuni decenni diventeranno la base dell’amministrazione agricola, sociale e militare nelle campagne cinesi.


 

Gli “anni bui” vanno invece riferiti agli effetti immediati, addirittura disastrosi, prodotti dal “balzo in vanti”. Nonostante la creazione delle comuni agricole, misura che sarà in effetti solo meramente amministrativa, il “dirottamento” del lavoro dei contadini verso la produzione di acciaio avrà come effetto il crollo del raccolto di cereali del 30% tra il 1958 e il 1960 (12), con una carestia spaventosa che mieterà decine di milioni di vittime. Come effetto della crisi agricola, si avrà un crollo fortissimo della stessa produzione industriale: l’indice della produzione, dal 1960 al 1961, scende infatti da 1180 a 811 (1949=100), con un -38% circa. Le pretese del “balzo in avanti”, di indirizzo prevalentemente industriale, dovranno essere così, almeno momentaneamente, accantonate o ridimensionate, per mettere necessariamente al centro la riattivazione del sistema agricolo e una produzione industriale più “pianificata e controllata”.


 

Dopo il crollo del 1961 nella produzione industriale, tra il 1962 e il 1965 l’indice della produzione si riporta al livello del 1959, ancora inferiore però a quelli del 1960, mentre la produzione agricola in crescita raggiunge il livello del 1960 solo nel 1965. Il debito finanziario con l’URSS viene intanto interamente rimborsato.


 


 

Rivoluzione culturale” e anni settanta


 

La cosiddetta “Rivoluzione culturale”, portata avanti dalla sinistra radicale del PCC e durata sostanzialmente dal 1965 al 1969 (quando l’esercito “ristabilirà l’ordine”), non avrà pesanti effetti sull’economia in genere, come era stato invece per il “balzo in avanti”. Gli anni più critici sul piano economico saranno il 1967, con una flessione del 13,8% della produzione industriale, e il 1968, con una flessione più leggera, del 5%. Ma già nel 1969 e nel 1970 l’indice della produzione industriale schizza in alto alla media del 32%. Nel 1970, cioè dopo 21 anni dalla proclamazione della “Repubblica Popolare”, l’indice della produzione, preso 1949=100, si trova a più di 1900: è cresciuto cioè di circa 20 volte. L’acciaio prodotto nello stesso anno è di quasi 18 mila tonnellate (13).


 

Gli scontri politici interni al PCC lentamente si placano nel corso degli anni ’70, restando sempre la divaricazione tra la linea pragmatica, di destra, e quella radicale, fino al varo del piano 1978-1985, che prevedeva un forte sviluppo dell’industria, un forte balzo della produzione d’acciaio e un enorme impegno di investimenti, attraverso l’importazione di macchinari dall’Occidente – propositi ridimensionati al Plenum del PCC del dicembre 1978, con un “aggiustamento” più modesto degli obbiettivi e con un primo abbozzo di riforma economica. In questo periodo, in effetti, la produzione industriale marcia con i ritmi previsti del 10% annuo circa; alla fine del 1979, l’indice della produzione si trova a più di 4000, con una crescita di 40 volte rispetto al 1949, cioè in soli trent’anni.

 

 

Uno sguardo d’insieme al trentennio 1949-1979


 

In questo arco di tempo, lo Stato possiede ancora la proprietà di gran parte delle imprese industriali: gestisce e controlla ancora fortemente l’economia, decidendo su investimenti, macchinari, movimento della forza lavoro tra le imprese industriali, prezzi e salari. I profitti delle aziende sono versati al bilancio dello Stato, il quale finanzia poi la quasi totalità di capitale fisso da investire – più o meno quello che avveniva in Russia, sopratutto fino al 1956, e che proprio in quell’anno sarà messo clamorosamente “in discussione” al XX Congresso, a favore sia di una maggiore “autonomia decisionale” delle aziende (14) sia di un’apertura al mercato occidentale, all’insegna della mistificatoria “coesistenza pacifica” tra Stati “socialisti” e capitalistici (anziché tra briganti imperialisti della stessa specie). In Cina, il 1956 sarà invece sostituito con l’anno 1979, seguendo un ritardo storico di poco più di un ventennio rispetto alle iniziative e al processo economico in Russia. Il primo piano quinquennale russo staliniano del 1929-1932 troverà così la sua riedizione, almeno come modello (sul piano della sostanza, quello cinese sarà più “rudimentale” rispetto a quello russo), in quello cinese del 1949-53.


 

La forte industrializzazione, coi suoi alti ritmi di crescita, sacrifica gli investimenti in agricoltura, producendo miserie e arrecando carestie: l’inevitabile esodo e inurbamento presupponeva quanto meno la messa in piedi di infrastrutture nei centri urbani e un tot di assorbimento dell’occupazione, nello stesso settore industriale – obbiettivi questi ben al disotto invece di ogni possibilità di realizzazione. Attraverso le cooperative agricole, si tentava di “tamponare” sia l’indebolimento sempre crescente della produzione agricola, cercando una certa autosufficienza alimentare, sia l'eccessiva emorragia di piccoli contadini, costretti in massa ad abbandonare il fazzoletto di terra sempre meno produttivo (nonostante le comuni agricole) per cercare migliori fortune nelle grandi città industriali. I bassi prezzi dei prodotti agricoli, imposti dallo Stato, rappresentavano in realtà un finanziamento “indiretto” per il settore industriale, che vendeva invece macchinari agricoli o materie prime alle aziende agricole a prezzi ben più sostenuti. Questa “forbice dei prezzi” tra agricoltura e industria si allarga e si mantiene sempre nel tempo, agendo come un vero strumento per estrarre risorse agricole e finanziare la modernizzazione industriale del paese. Le “comuni agricole” agiscono sostanzialmente in funzione dello sviluppo industriale, soggiacendo apertamente ad esso. L'eccessiva offerta di manodopera, la necessità di una sua occupazione, il basso livello dei salari, tra l’altro, agiscono da freno, una sorta di “sostituto” degli stessi investimenti statali in macchinari industriali, in altri termini alla stessa produttività del lavoro, che si manterrà infatti sempre bassa. Ai forti ritmi di crescita del trentennio quanto a produzione industriale e a PIL (media del 25-30%, escludendo il triennio 1961-63) fa poi da contraltare, sempre in città, una diminuzione del salario reale medio, mantenuto a livelli appena sopportabili solo per la crescita del lavoro femminile e familiare (15). In agricoltura, la forte diminuzione dei redditi non potrà essere alleviata neppure dalle distribuzioni in natura effettuate dalle comuni, divenute man mano sempre più dei semplici ammortizzatori sociali.


 

Sul piano dei rapporti economici con l’estero, la Cina, nei primi 15 anni del trentennio, rimane un regime ancora sostanzialmente autarchico. La ridotta produzione industriale, forte come ritmi di crescita nel settore industriale, ma comunque ancora bassa nei suoi indici di valore assoluto (e soprattutto pro capite), è rivolta ancora a costituire un minimo di tessuto economico, di produzione e di scambio all'interno. Deve ricorrere però alle importazioni sia di prodotti agricoli, soprattutto negli anni di crisi agricola o carestie, sia di capitali, soprattutto di impianti e tecnologie. Dopo il primo decennio di “idillio” con l’Urss, la successiva rottura con l’”alleato socialista” impone di ricorrere ai più affidabili “nemici capitalisti”. Tra il 1963 e il 1966, la Cina importa una cinquantina di impianti industriali dal Giappone e dall’Europa occidentale per mettere in piedi una sua produzione chimica e siderurgica. Tra il 1973 e il 1974, vi sarà una nuova ondata di ordinativi per impiantare complessi industriali di fertilizzanti, fibre sintetiche e laminati; nel 1978, vengono firmati contratti per sei miliardi di dollari con Giappone, USA e R.F.T. (Germania occidentale) per acquisire nuove fabbriche. La banca, da poco sostituita allo Stato nella sua funzione prettamente finanziaria, è ancora unica e centrale e funziona da stretta mediatrice delle operazioni statali, occupandosi ancora più specificamente di finanziamento alle imprese. Gli scambi con l’estero sono ancora monopolio dello stato, mediate da società specializzate in tale funzione ed emanazione del Ministero per il commercio con l’estero. Con il Giappone (gli affari reciproci lo esigevano), il disgelo diplomatico inizia nel 1972 e si conclude con un trattato “di pace e amicizia” nel 1978. E, sempre nel 1978, gli USA, dopo i viaggi preparatori di Kissinger e l'incontro fra i due presidenti, Nixon e Mao, nel 1972, si decidono a riconoscere la Cina anche sul piano diplomatico.

 


 

NOTE

(1) Cfr. i nostri testi Dialogato con Stalin (1952) e Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (1955-57, ripubblicato in volume nel 1976, insieme ad altri testi sulla Russia).

(2) Cfr. “Peculiarità dell’evoluzione storica cinese”, Il programma comunista, nn.23-24/1957 e 7-8/1958 (ripubblicato nei nn.6/2006 e 1/2007 dello stesso giornale).

(3) Cfr. ad esempio i testi raccolti in K. Marx – F. Engels, India, Cina, Russia, Il Saggiatore, e in K. Marx, Cina, Editori Riuniti.

(4) ) I dati sono tratti da “Manca all’appuntamento dell’80 la 'super pianificata' industria russa”, Il programma comunista, nn.1-2, 5-6/1976.

(5) I dati sulla produzione industriale e di acciaio indicati in seguito sono tratti da vari articoli pubblicati su Il programma comunista nel corso degli anni '60: in particolare, nei nn.10-11-12/1962 e nn. 9-17/1969; oltre che da “La Cina e l'acciaio”, Il programma comunista, n.1/1997.

(6) Cfr. Storia della Cina. Dalle origini ai nostri giorni, Enciclopedia Tascabile, pag. 82

(7) Cfr. F. Lemoine, L’economia cinese, Il Mulino

(8) La storia - La biblioteca di Repubblica, vol. 14, pag. 734

(9) Cit. tratta da China Quaterly, n. 1929/1967.

(10) Mao, “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo”, Scritti politici, Feltrinelli.

(11) Sul capitalismo di stato spacciato per “socialismo”, cfr. “Variazioni cinesi sul mercato socialista”, Il programma comunista, n.17/1969, oltre a“Un bollo e il capitalismo diventa socialismo”, Il programma comunista, n.9/1956.

(12) F. Lemoine, L’economia cinese, Il Mulino.

(13) Cfr. nota 5.

(14) “Il nuovo statuto delle aziende di stato in Russia, copia aggiornata della 'carta del lavoro' fascista”, Il programma comunista, nn.1-2-3/1966.

(15) F. Lemoine, L’economia cinese, Il Mulino.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03-04 - 2014)

 

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