Gli anarchici, si sa, sono persone dure e pratiche, rivolte più all’azione che alla teoria. Perciò vederne uno che si arrampica sul terreno scivoloso delle dottrine politiche è sempre motivo di sorpresa, e alla fine, inevitabilmente, anche di sconforto. Chissà perché, in recenti articoli del loro settimanale Umanità Nova, i redattori hanno sentito la necessità di occuparsi di Stalin e di Marx. Il primo, secondo loro, è stato un marxista tutto d’un pezzo, condannato ad applicare le teorie autoritarie e stataliste del secondo (“Guardate che cosa ha fatto in Unione Sovietica, quella era la dittatura del proletariato!”). Il secondo, invece, era un gradualista tutto infatuato di “tattica autoritaria [bene!], legalitaria [?!], parlamentarista [questa poi!]”.

Lasciamo perdere Stalin: la “logica” anarchica che vuole spiegare, con i nomi anziché con le forze sociali, uno degli aspetti della controrivoluzione mondiale del XX secolo, potrebbe fare il paio con quella che pretenderebbe che il fascismo sia stato il prodotto inevitabile del comunismo rivoluzionario, dati i precedenti… di Benito.

Ci interessa invece l’argomentazione relativa alla “doppiezza” di Marx, perché gira ogni tanto l’idea peregrina che il marxismo non abbia una chiara “teoria dello Stato”. La tesi di UN, in pillole, è la seguente: prima della Comune parigina, Marx ed Engels sarebbero stati tutti per la conquista parlamentare dello Stato borghese; ma poi, sotto l’incalzare della rivoluzione, della Comune e del movimento anarchico, le loro idee sarebbero state “messe sottosopra” ed essi avrebbero finalmente dovuto, “contro ogni logica”, far proprio il programma anarchico.

Sembra che UN dimentichi che chi ha saputo scrivere l’Indirizzo del Consiglio Generale dell’Internazionale nel 1871 è lo stesso che, vent’anni prima, scriveva che “la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato” (Marx a Weydemeyer, 5 marzo 1852): dittatura, un termine che spiace agli anarchici, ma che rivela un programma di violenza rivoluzionaria! E non era quel famoso amico del primo a sostenere, già nel 1842, esaminando la situazione in Inghilterra, che, nonostante il rispetto per le istituzioni, il proletariato affamato avrebbe alla fine compreso “che una rivoluzione per via pacifica è impossibile e che solo una rivoluzione violenta […] un abbattimento radicale dell’aristocrazia” sono fattori storici inevitabili (F. Engels, “Le crisi interne”, 10 dicembre 1842)? E non sono i due amici assieme che, di lì a poco, scriveranno di aver “seguito la guerra civile più o meno occulta entro la società attuale fino al momento in cui essa esplode in una rivoluzione aperta, e col rovesciamento violento della borghesia il proletariato stabilisce il suo dominio” (Manifesto del Partito Comunista, 1848)? Potremmo andare avanti in questo modo per le prossime quaranta pagine del giornale: ma a che servirebbe? Per UN, il giochino è presto fatto: se gli stalinisti di mezzo secolo fa (forse ancor peggio la va con quelli odierni, più o meno camuffati da agnelloni) strombazzavano marxismo in nome di coesistenza pacifica e gare emulative, non è forse quella la miglior prova del fallimento del comunismo?

Dal canto nostro, vorremmo chiedere a UN: quando gli anarchici avranno rovesciato lo Stato borghese, come e cosa faranno per eliminare le basi materiali su cui esso si poggia, l’intera economia centralizzata della produzione, della distribuzione e della finanza? con le piccole comunità di produttori, autonome anche l’una rispetto all’altra? col ritorno alle isolette di produzione e di scambio di tipo pre-borghese? col mito dell’autogoverno, l’eterno cavallo di battaglia della piccola borghesia?

Noi, i marxisti, la risposta ce l’abbiamo da quando esiste un partito comunista: si chiama Dittatura del Proletariato, si chiama abolizione del salario, si chiama concentrazione della produzione e della distribuzione secondo un piano sociale generale.


Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2014)

 

 
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