La falsa domanda è: “Restare nell’euro o tornare alla dracma?”, e se la pone la borghesia greca. Dopo aver sperperato il patrimonio sociale di intere generazioni proletarie ed essersi indebitata fin sopra i capelli1, se il proletariato non chinerà le spalle lasciandosi spremere fino all’osso e se la finanza mondiale non le fornirà il credito necessario, “non le rimarrà altra scelta che tornare alla dracma”, dicono gli “esperti” e gli “osservatori”.

Assediata da un proletariato che non ha un’altra pelle da farsi conciare, da una minuta borghesia stretta in difesa di rendite accumulate in passato e dalle “fraterne” aggressioni degli squali europei, la borghesia greca dice di trovarsi davanti ad un baratro. Con una disoccupazione nazionale al 16% e quella giovanile al 40%, con un debito che si è portato al 153% del Pil e un deficit del 10,5% del Pil, non c’è speranza di uscire dalla zona delle tempeste. La pressione dei pescecani non si allenta, e il Pil tende per le stesse condizioni di crisi a precipitare sotto zero: -2% (2009), -4,5% (2010), -5,5% (2011). I curatori fallimentari e contemporaneamente i creditori di ultima istanza (la cosiddetta “troika Ue-Fmi-Bce”), ritornati nuovamente ad Atene con in mano il “certificato catastale” del patrimonio greco, hanno ingiunto che non avrebbero versato la tranche di 12 miliardi del maxi prestito deciso un anno fa e fornito il nuovo prestito di 60-65 miliardi (salito a 100 miliardi il 4 giugno) per coprire le scadenze del debito fino al 2014, se l’intero parlamento, maggioranza e opposizione, non avesse firmato una “cambiale politica” senza più tentennamenti e giochi di prestigio. Detto fatto! Solo per avviare la ripresa della discussione, il governo è stato indotto a intervenire con una nuova manovra di 6 miliardi di euro nell’economia. Ma una soluzione monetaria, il ritorno alla dracma, impedirebbe dunque ai proletari di pagare il conto salato dei debiti contratti dalle classi parassite della società greca verso gli strozzini europei? Pura fantasia!

In parole povere, gli usurai della finanza mondiale hanno preteso ancora una volta la “totale resa politica della Grecia”: ha mancato tutti gli obiettivi – dicono – , il deficit di bilancio è superiore al previsto, il governo continua a spendere più di quanto stabilito nel programma di aiuti, mentre le entrate fiscali sono ancora inferiori a quanto richiesto. In realtà, l’ultimatum, lanciato più volte, è rivolto ai proletari greci: la posta in gioco, come il marxismo insegna, è il grado di sfruttamento, ovvero la produttività. Si ricorda loro che non si scherza più: il programma di risanamento imposto non può più essere di-satteso, anzi deve essere inghiottito “senza se e senza ma”. Si ricorda loro che la “ditta Grecia”, con la sua borghesia, è solo una piccola e insignificante filiale della borghesia europea ed è a quest’ultima che, volenti o nolenti, bisogna chinare la testa. La riluttanza governativa di Papandreu a imporre rapidamente e in modo cruento “lacrime e sangue” sarebbe dunque giustificata dalla convinzione (non del tutto campata per aria) che la strada che le si chiede di imboccare rischierebbe inevitabilmente l’abbandono della maschera democratica e la sfi-da aperta nei riguardi del proletariato: quale altro governo, se non quello socialista, potrebbe demolire nuovamente le pensioni e gli stipendi, bloccare l’occupazione nel pubblico impiego, chiudere aziende pubbliche, limitare le spese di gestione ordinarie, pretendere una continua riscossione di imposte dai ceti medi, proporre un piano di privatizzazione generale (porti, aeroporti, aziende energetiche, acqua, luce, gas, trasporti, telecomunicazioni) e cedere l’intero settore del turismo?  Acconsentire a questo piano significa correre dritti verso la bancarotta e prepararsi a respingere l’esplosiva miscela di violenza sociale accumulatasi negli ultimi quattro anni e solo di tanto in tanto esplosa. Nella situazione attuale, ogni tentativo imposto dall’esterno di mettere ordine rischierebbe di vedersi spalancare il terreno sotto i piedi: la borghesia greca perderebbe ogni credibilità, potrebbe distruggere la stessa illusoria promessa di una ripresa futura, dopo aver accettato un tale grado di prostrazione.

I numerosi scioperi che hanno riempito le vie di Atene, Salonicco e Patrasso (almeno una ventina negli ultimi quattro anni) dimostrano purtroppo, oltre all’instancabile volontà di battersi, anche la debolezza del proletariato, ancora nelle mani di vecchie organizzazioni politiche e sindacali, scheletri di un opportunismo nazionalista nella sua forma socialdemocratica e stali-nista che non intende uscire di scena e mollare la presa. D’altronde, come potrebbe liberarsi il proletariato di questi parassiti se non ha ancora consapevolezza della propria condizione di classe e della propria forza, se non ha affrontato ancora realmente i problemi della propria organizzazione indipendente, sia sindacale che politica, in grado di rispondere oggi a una pressione sociale che ineluttabilmente si trasformerà presto o tardi in repressione aperta?

Una guerra è stata combattuta e la Grecia dovrà pagare i debiti per la sconfitta subita: e, come sempre è avvenuto in tali frangenti, a pagare il conto sarà il proletariato. Una bufera sociale sta per abbattersi sul proletariato greco: subire passivamente le conseguenze terribili della repressione o prepararsi allo scontro di classe? Altro che la domanda ridicola se restare in area euro o ritornare alla dracma! E’ facile comprendere che l’uscita dall’euro e il passaggio alla dracma avrebbero come effetto immediato una pesante svalutazione della moneta: i creditori vedrebbero l’inflazione che ne deriverebbe come un tentativo di non pagare o di scontare la massa del debito. Il piano di uscita dall’euro non determinerebbe la rimessa in ordine del bilancio per le maggiori esportazioni (d’altronde, il paese pagherebbe più care le importazioni di cui ha bisogno l’economia). In un periodo di crisi generalizzata, di chiusura di aziende, di aumento della disoccupazione per i licenziamenti, l’uscita dall’euro non sarebbe una soluzione, ma per la bor-ghesia greca una vera martellata sui piedi: a ulteriore dimostrazione che la stessa integrazione economica europea (non – si badi bene – l’unità europea, che non esiste) è una catena ai piedi necessaria per le piccole nazioni e un fattore di concentrazione, di potenziamento e di centralizzazione imperiali-sta per le grandi potenze europee. D’altra parte, di piccoli stati-clienti è co-stituita storicamente l’area europea in tutti i suoi punti cardinali.

Il Direttorio formato da Germania, Francia, Gran Bretagna, che governa l’economia reale europea e che possiede nelle banche la maggior parte del credito greco, sa benissimo che la pressione sul debitore, che non ha grandi risorse economiche, non risolve nulla; i grandi creditori sanno che la trasformazione in merci dei valori d’uso è semplicemente un’operazione di estimo e che mettere sul mercato i beni non costa nulla, a parte le spese del notaio. Perché si trasformino in ca-pitale, e quindi siano appetibili (cioè producano rendite, interessi, profitti), non basta mettere all’incanto la cosiddetta proprietà pubblica, occorre farla vivificare dallo sfruttamento della forza lavoro: un semplice trasferimento in forma di titoli della proprietà pubblica per liquidare i debiti e attivare altro credito non promuove di per sé un processo produttivo (l’illusione della borghesia di poterlo fare specialmente in tempi di crisi di sovrapproduzione, partendo da puri e semplici titoli mone-tari, è solo demenziale). Rischia ancor più di ridurre il debitore con le pezze sul sedere!

La borghesia greca, dunque, si trova di fronte a vere e proprie minacce di guerra da parte dei partners! Le si chiede il pagamento dei debiti contratti proprio in quel luogo in cui si svolge la guerra di tutti contro tutti, il mercato mondiale, e in cui il capitale greco recita la parte della comparsa. Le si chiede di inghiottire economicamente e politicamente al proletariato e alla piccola borghesia immiserita l’amara medicina, assicurandole al contempo, in caso di scontri sociali, la “protezione” politica internazionale. Dal punto di vista dei creditori, non è certo l’unica alternativa.

Diversa è la cura, infatti, per paesi ricchi di risorse. Negli anni ’80 e ’90, per esempio, ai paesi latino-americani non rimase nient’altro che ristrutturare (dilazionare) o cancellare il debito, contando sulle grandi risorse economiche potenziali del proprio territorio. La stessa cura si va architettando per la situa-zione del Nordafrica, con la soluzione che si sta imponendo in Libia: l’intera area viene presa d’assalto da bande di predatori superarmati con lo scopo della spartizione degli affari energetici e-sistenti e delle altre potenzialità economiche, cambiandone la gestione. La stessa cosa si ebbe per i Balcani e l’Iraq quando si dovette assicurare il transito degli oleodotti dal Caucaso e dall’Iraq verso l’Europa e il Mediterraneo. Anche in Grecia il film scorrerebbe allo stesso modo, nelle sue linee generali: ma che cosa può offrire la Grecia, quali risorse economiche e politiche (materie prime, energetiche, posizione strategica, via di transito) può esibire? La sola soluzione è di presentarsi, ridotti sul lastrico, al Monte di Pietà degli Stati (Fmi, BM, Bce) e svendere tutto il patrimonio che ammonterebbe, dicono, a 500 miliardi di dollari (compreso il Partenone e l’intera cultura greca, democrazia compresa?), mentre quello immediatamente convertibile ammonterebbe a 280 mi-liardi… in privatizzazioni.

Con i suoi 11,2 milioni di abitanti e il suo pur ridotto proletariato, la Grecia non sta in un altro mondo. E’ a un tiro di schioppo dal Nordafrica e vive dentro la stessa crisi di sovrapproduzione. Ma gli avvenimenti nel Maghreb e l’appoggio generale ricevuto dalle grandi potenze dimostrano che la borsa-cre-diti a favore di quest’area è straordinariamente ricca, una vera e propria cornucopia: qui, a differenza della Grecia, si trova la porta d’ingresso di un continente; qui, un’immensa massa di popolazione proletarizzata, soprattutto giovane, si presenta sulla scena sto-rica, annunciata da una piccola e media borghesia, che presto farà sentire al proletariato, oltre al suo credo libe-rale e democratico, il suo pugno di ferro; qui, si possono “cancellare” i debi-ti; qui, è ancora “immaginabile” che, invertitosi il ciclo economico, l’economia torni a crescere, oppure che, come sta accadendo in Libia (ma niente impedisce che, oltre all’Iraq e all’Afghanistan, altri paesi del Maghreb entrino nel mirino armato delle democrazie – dispensatrici, come si sa, di progresso e di libertà!), attacchi bellici, ben congegnati e condivisi (il settore degli armamenti non è mai in crisi!) devastino i territori, sicché sorgenti di risorse potenziali ripropongano la necessità di investimenti strutturali straordinari: una vera  e propria “ricolonizzazione” imperialista in epoca di crisi, sorretta da un nuovo Piano Marshall africano, come si va dicendo.

Giochi contabili, ovviamente: la bor-ghesia ama far di calcolo senza riuscire ad anticipare nemmeno un domani prossimo. Per non essere da meno della Grecia, la richiesta egiziana è di 25 miliardi nei prossimi cinque anni e quella tunisina di 10-12 miliardi di dollari entro la metà del 2012. Al capezzale di un’economia entrata in crisi sul versante dell’aumento dei prezzi dei beni alimentari con quello che ne conseguiva (fame, disoccupazione, inflazione), già sono in fila i creditori con l’immensa massa di spazzatura cartacea: Banca mondiale (4,5 miliardi di dollari all’Egitto e 1,5 miliardi di dollari alla Tunisia), Banca europea degli investimenti (1 miliardo), Usa (2 mi-liardi e 1 miliardo di debito cancellato all’Egitto), Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (3,5 miliardi in tutta l’area, ogni anno fino al 2020), Fmi (35 miliardi, di cui la prima tranche dovrebbe andare all’Egitto). E via discorrendo.

I fondamenti del debito e del credito sono dunque le “potenzialità” presenti nelle risorse naturali di varia natura (esistenti nel territorio) e nei mezzi di produzione (che quei paesi non possiedono in maniera significativa), ma soprattutto nel rapporto organico tra questi ultimi e la massa proletaria crescente, in un contesto di produtti-vità e quindi di sfruttamento intensivo del lavoro salariato. Gli squali impe-rialisti (istituzioni finanziarie e grandi armate) non stanno certo con le mani in mano, in attesa che il torchio si rimetta in moto automaticamente o che l’economia greca, uscendo dalla crisi di sovrapproduzione (chissà poi come?!), riprenda il suo corso di sviluppo con un pil di tutta eccellenza, in grado dopo un certo numero di anni di permettere alla borghesia greca di restituire il debito. In realtà, nessuno sa come e quando si uscirà dalla crisi: chiarezza vuole che a livello mondiale per uscirne si trovino capitali veri, mezzi di produzione e tecnologie ad alto livello di produttività e un proletariato pronto a farsi spazzolare. Vana speranza è quella che spostando il cre-dito e il parziale pagamento con mezzi finanziari insolvibili da un paese all’altro si possa uscire dalla crisi, perché in realtà nuove bolle si succederebbero alle vecchie, segno della presenza irrisolta della sovrapproduzione.

Non c’è via d’uscita, dunque: il Portogallo, l’Irlanda e la Grecia riceve-ranno ancora miliardi per pagare i propri debiti o per allungare i tempi del pagamento, il Maghreb e il Medioriente sono in lista d’attesa, i Balcani sono già nel conto dagli anni ’90 così come lo sono i paesi dell’Est europeo. Quando la crisi avrà corroso anche le ultime medie potenze europee, Spagna e Italia, allora l’Europa (ovvero la Germania e la sua area, la Francia e la Gran Bretagna) scioglierà la finzione della pace, instaurata con la più tremenda dittatura sociale alla fine del secondo conflitto mondiale sotto la regia dei vincitori Russia e Stati Uniti d’America. Ma prima dovranno preparare il proletariato al naziona-lismo, alla guerra di tutti contro tutti per una nuova e diversa spartizione del mondo capitalistico. “La storia è storia di lotte di classe”, scriveva Marx, e la guerra tra le classi che ci attende sarà il più micidiale evento della storia umana, dal cui esito vittorioso soltanto potrà nascere un avvenire radioso per la nostra specie.

Non c’è via di scampo, non c’è futuro, per il proletariato, se non scende in campo e non dichiara guerra alla borghe-sia e al suo modo di produzione. L’unica vera risposta alla falsa domanda di cui sopra è dunque la seguente: la borghesia va impiccata alla sua stessa corda dorata.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2011)

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