Sviluppata dai classici di Lenin e dei suoi la dottrina del potere rivoluzionario con due soli personaggi centrali (stato capitalista e rivoluzione proletaria) e rivendicato il programma marxista della stretta dittatura centralizzata come potere postrivoluzionario che, distrutto lo stato borghese e fattolo a pezzi, monta la macchina unitaria del potere comunista, fu ancora una volta dispersa ogni concezione che facesse posto a poteri locali e a federali intese di organi autonomi, che potessero decidere ognuno per suo conto. A una tale dottrina per lo Stato, che spinse al massimo l’indignazione dei social traditori ex marxisti da un lato, e quella degli anarchici e sindacalisti alla Sorel dall’altro, varietà tutte della peste “autonomista” e “iniziativista” (concetti che per noi valgono: borghese), corrisponde l’analoga dottrina per la vita del partito di classe rivoluzionario. La centralità della direzione del partito – e quindi dell’Internazionale, che è considerata in Lenin come il partito per eccellenza – fu da tutti accettata, e qualche elemento a tendenza piccolo borghese autonomista, anche se di atteggiamenti estremisti, fu messo fuori, alla pari di quelli destri egualmente restii alla ferma mano della direzione centrale, che storicamente non poteva avere altra sede che a Mosca. Fu allora che, ai fini della vita interna dell’Internazionale, Lenin pose nelle sue storiche tesi l’espressione di “centralismo democratico”. Noi della sinistra italiana proponemmo – ancora una volta i fatti ci hanno dato ragione – di sostituire questa formula che giudicavamo pericolosa con quella di “centralismo organico”. Ci spieghiamo subito, ma fateci scrivere d’urgenza che chi si dà a fracassare il centralismo senza aggettivi, oltraggia Marx, Lenin e la causa della rivoluzione, è un manutengolo di più della conservazione borghese. Nella possente dialettica marxista di Lenin l’aggettivo di democratico applicato qui alla nozione di centralismo, nel fine preciso di definire la dinamica interna del partito di classe, non era affatto in contrasto con lo sterminio della superstizione democratica, che è il contenuto essenziale del marxismo, come Lenin rivendicò respigendo l’ondata opportunista del suo tempo, avente gli stessi caratteri della contemporanea trionfante e ululante del Cremlino. Il concetto di Lenin è sul piano organizzativo e si riferisce alla regolazione della vita del partito. Nella fase storica che precede e accompagna subito la rivoluzione non vi può essere partito senza statuto, senza carta costituzionale. Noi marxisti ridiamo di una costituzione della società comunista, perché se così non fosse non avremmo tra i nostri canoni la scomparsa dello stato. Ridiamo di una costituzione e di una democrazia entro la classe operaia, in quanto se l’ammettessimo dovremmo cancellare tutto il nostro programma storico, che è la scomparsa delle classi (la parola classe non ha singolare, quando sparisce la divisione della società in classi, non ne è superstite nessuna). La democrazia operaia costituzionale sotto il capitale vale la costituzione per cui gli schiavi hanno diritto a far parte del loro consorzio in base al marchio di ferro rovente che possono mostrare sulla spalla. Ad essa si riduce la nefasta illusione di laburisti, sindacalisti e ordinovisti. Lenin trattava del funzionare tecnico del partito, e la sua impostazione della questione era dialetticamente cristallina. Noi lo capivamo al mille per mille, ma noi venivamo di sotto la pressione bestiale del capitalismo parlamentare e democratico, che lui non aveva mai subita, avendole con il suo partito dato gloriosamente di ferro alla gola prima che cominciasse gli atti respiratori. Tememmo che la formula potesse – ed oggi avviene – essere predata da futuri traditori, cosa possibile fino a che il funerale mondiale della democrazia borghese, della democrazia nella società, della democrazia in generale, non sarà stato celebrato: era lontano nel 1920 e lo è ancora oggi, dopo tanti anni, e non abbiamo fatto a tempo a mandargli dietro colossali corone rosse con la scritta: da Carlo Marx, da Vladimiro Lenin, dai minimi ma gaudiosi affossatori. Era ben evidente che le decisioni del partito dalla sua “base” in su tecnicamente non si potevano prendere che con il sistema ingenuo della conta dei voti. Ciò ammesso, si trattava di ribadire la categoria primaria del marxismo, ossia la centralità, l’unità omogenea, la garanzia contro i nefasti delle velleità individuali, di gruppo, di località, di nazionalità. Il partito nella sua vita interna, una volta storicamente ricondotto alla dottrina di origine, risanato nell’organizzazione con la eliminazione degli strati corrotti, rinsaldato nell’azione con decisioni tattiche dal respiro mondiale e rivoluzionario, e per ciò stesso assicurata la sua dinamica centralista, è in un certo senso un’anticipazione della società comunista in cui il dilemma tra decisione del centro o decisione della base perderà di senso e non si porrà più. Ma esso vive ed opera nell’interno della società di classe e subisce le determinazioni e le reazioni dei suoi urti contro il nemico di classe e dei controurti di questo. Più volte mostrammo che nei momenti decisivi l’indirizzo non è cercato da consultazioni e congressi e nemmeno dai voti di istanze ristrette e comitati centrali; l’esempio tante volte ripetuto è Lenin stesso. Lasciamo negli statuti questo banale ingranaggio della conta dei voti e dei pareri individuali, noi proponevamo, ma consideriamo che l’unità del partito non è quella di un cumulo di sabbia o altra sostanza granulare, di una colonia di esseri simili, quale la primitiva madrepora nel banco di corallo o il singolo uomo (capolavoro della natura!) nella banalità dell’anagrafe e della statistica. Il partito è un organo nel senso integrale che si applica a quelli viventi. Esso è un complesso di cellule, ma non tutte sono identiche, né uguali, né della stessa funzione, né dello stesso peso. Non tutte le cellule né tutti i loro sistemi condizionano l’energetica o al più la vita di tutto l’organismo. Tale nell’insegnamento di Marx e di Lenin, nel materialismo dialettico, è la valutazione della società umana e dei complessi sociali, contrapposti alla sciocca filosofia borghese che proietta tutta la società nell’individuo, e non ammette che nella società sono le potenze e capacità di sviluppo all’individuo contese e negate, e che esse non risiedono in un individuo speciale e di eccezione, ma nella ricchezza delle relazioni tra uomini, gruppi di uomini, classi di uomini. Il “centralismo democratico” chiesto da Lenin per il partito, a parte il termine, conteneva piena l’organica unità inscindibile di esso.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2004)

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.