La lotta

La lotta nazionale dei lavoratori del trasporto urbano nel mese di dicembre 2003 ha costituito uno di quegli eventi che lasciano il segno nel clima attuale di dominio soffocante e reazionario dell’opportunismo politico e sindacale. Ha avuto quel carattere di forza e di spontaneità che le lotte tradunioniste di difesa assumono, quando sono spinte dalla chiara determinazione degli obiettivi e dalla compattezza dei lavoratori.

La perfetta coincidenza tra le nostre parole d’ordine di lotta sindacali, che costituiscono il bilancio storico delle lotte economiche del proletariato, e quelle seguite dagli autoferrotranvieri, nel momento più alto dello scontro, ci confermano ancora una volta delle basi materiali su cui esse sono fondate e da cui sarà necessario passare ancora in futuro.

“Sciopero senza preavviso, a oltranza e senza limiti di tempo!”: questa è stata la parola d’ordine che si è impossessata dei lavoratori in lotta, di qualunque sigla sindacale di appartenenza.

Organizzazione e gestione della lotta nelle assemblee permanenti, trasmissione immediata a tutti i lavoratori delle decisioni, non solo in ambito locale, ma a tutti i lavoratori in tutte le rimesse aziendali, in tutte le officine.

Coordinamento di tutte le sigle sindacali di base per pesare in termini di forza nel corso della lotta e delle inevitabili trattative.

Il passaparola si è trasferito autonomamente in tutte le città nel giro di poche ore e ha permesso la continuazione della lotta per quasi tutto il mese di dicembre, riprendendo a gennaio con la stessa determinazione iniziale, pronta a sfidare l’ordine di precettazione prefettizio, con tutte le conseguenze che ne derivano.

“Abbiamo messo in conto che avremmo avuto tutti contro: azienda, utenti, media, autorità. Con l’autoregolamentazione dello sciopero ci siamo cacciati in un vicolo cieco. Siamo stati tutti compatti, iscritti e non ai sindacati, nessuno si è tirato indietro; le denunce e sanzioni o per tutti o per nessuno!”, così dichiarano dopo le assemblee ai giornalisti che si avvicinano alle uscite dei mezzi e che per lo più argomentano indignati per il fatto che “in questo modo si sta prendendo in ostaggio la città”, che ci si permette di infrangere le regole, che “ ci se ne sbatte della legge sulla regolamentazione degli scioperi” (la famosa 146 del 1990 sul diritto di sciopero nei servizi pubblici, integrata l’11 aprile 2000 da Bassanini dei Ds con l’articolo che riguarda la punibilità delle aziende che non denunciano, individuano e sanzionano i lavoratori !!).

Compatte le tre confederazioni sindacali si dissociano da una “scelta profondamente sbagliata e assolutamente inopportuna”. La segreteria della Cisl afferma: “i lavoratori hanno preso in ostaggio un’intera città, segno di irresponsabilità”; la Cgil chiede scusa ai cittadini per i disagi ribattendo lo stesso concetto: “I deboli e i diseredati sono stati presi in ostaggio”. “I danni alle aziende sono stati 130 milioni di euro - dice la Camera di commercio già al primo giorno di sciopero - il 30% dei lavoratori non è arrivato in azienda”.

La speranza da parte di questi figuri di vedere un assalto ai depositi da parte degli utenti arrabbiati è stata delusa; i lavoratori di Milano dopo l’1 di dicembre non sono rimasti isolati e non si sono rinchiusi nei depositi - al contrario la lotta si è rapidamente estesa alle altre città, a Genova, Firenze, Roma, Venezia, Brescia, Napoli, Padova. Nello stesso tempo giungeva anche la solidarietà delle ferrovie Nord di Milano, mentre i lavoratori dell’Alitalia e del commercio entravano in sciopero. Nessun isolamento: al contrario! In un primo momento, una chiara neutralità nei confronti della lotta; nei giorni successivi, comprensione e solidarietà, segni questi di una condizione sociale generale divenuta sempre più penosa, fatta di precarietà, di disoccupazione, di flessibilità indigesta, di tempi di lavoro pesanti, di pensioni e di assistenza miserabili.

Nell’esplosione iniziale della lotta, gli autoferrotranvieri hanno mostrato a tutti quel che la classe operaia sarà costretta a essere e diventare. Si sono liberati d’un tratto della cappa corporativa imposta loro da anni di destra e di “sinistra”, che li ha consegnati al degrado sociale e alla prostituzione fisica. Hanno scoperto la capacità di organizzarsi immediatamente fuori e contro le regole, da loro mai sottoscritte.

Senza alcun tavolo di negoziazione, la lotta ha stracciato immediatamente la proposta di aumento di 12 euro e di 400 euro una tantum (1-2 dicembre), poi ha battuto quella di 41 euro e 400 euro una tantum il 19 dicembre e infine gli 81 e 970 euro una tantum (“meno del recupero dell’inflazione programmata, cioè il massimo della moderazione salariale, contro i 106 e i 2500 una tantum per il ritardo di due anni del contratto 2002-2003, e per giunta lordi”) il 20 dicembre, quando i sindacati confederali, contro il movimento in piena lotta, firmavano il contratto voluto ad ogni costo da imprese private, enti locali e governo. La lotta ha  infine sbattuto in faccia ai confederali i dodici scioperi attuati nel corso di due anni, 8 diretti dai confederali, quattro dai comitati di base Cobas, Rdb, Slai Cobas.

“Quegli scioperi in cui non si è ottenuto nulla ci hanno portato alla decisione di non far trapelare le nostre intenzioni, prima del tempo, perché ci avrebbero precettato subito”.

La firma del contratto.

La firma delle confederazioni sindacali Cgil-Cisl-Uil non è su un contratto, ma su un nulla osta alla precettazione: è parte della stessa azione di intimidazione, delle stesse minacce di inchieste, azioni disciplinari, persecuzioni giudiziarie, reclusione. La lotta  doveva essere chiusa con un “diktat democratico”. Cosa di meglio di un contratto che sancisce un ordine, una disciplina? “Non si tratta che di ordine pubblico”, dicono le autorità. “Nessuno si può permettere di lottare e di ricominciare dopo che il contratto è stato firmato”, gridano in coro unanime tutte le forze politiche.

Se il contratto è scaduto da due anni, se i salari sono bassi, se i carichi di lavoro sono aumentati del 30% e i rischi di incidenti sono cresciuti a dismisura, se la precarietà e la flessibilità sono aumentati, che importa? “Un contratto è un contratto”.

Interessante cartina di tornasole per riconoscere l’opportunismo mascherato da filosofemi è il commento da parte del Manifesto del 2 dicembre, a cavallo tra la compassione per gli utenti e l’afflato lirico nei confronti del “valore civico del contratto”. Le affermazioni rivelano tutta la diffidenza e l’ottusità nei confronti di una lotta sfuggita al controllo dell’opportunismo, celate sotto un moralismo equidistante dalle parti: “Sono stati costretti a forzare la gabbia dell’autoregolamentazione”, “certo avrebbero dovuto fermarsi”, “si sono dichiarati subito in assemblea permanente”, “è stato un gatto selvaggio organizzato”, “uno sciopero sregolato”, “un gesto estremo”, “hanno voluto bucare gli schermi”, “il valore delle regole deve essere condiviso, è un problema di democrazia (se saltano le regole non c’è mediazione possibile, la società si fa selvaggia)”; “il contratto è la forma di mediazione, dell’equilibrio tra capitale e lavoro, il riconoscimento del potere di mediazione, esso è riconosciuto dalla metà dell’800, l’equilibrio si è rotto e la situazione rischia di arretrare di un secolo e mezzo”. E’ evidente, dietro queste parole, il quadretto idilliaco del lavoratore di lusso: appartamento, club democratico di sinistra e contratto. Il contratto come costrizione, catena, obbligo di lavoro coatto, forzato, come alienazione, non passa per la testa di questi borghesissimi “intellettuali ‘di sinistra’”. “I tempi sono cambiati, non siamo mica nell’Ottocento!”

E poiché il contratto è stato firmato, ecco che si pretende dalla categoria che cessi la lotta e che lo avalli con un referendum. La logora patacca democratica viene agitata davanti agli occhi dei lavoratori per cercare di addormentarne l’unità e la determinazione manifestate in questi giorni. Le “belle assemblee” preliminari degli iscritti ai vari sindacati avranno il compito, in primo luogo di dividere i lavoratori che fino a quel momento avevano lottato fianco a fianco, in secondo luogo di servire lunghe ramanzine sui codici di comportamento sindacali (magari con la proposta di un nuovo corso di aggiornamento per coloro che nicchiano o li hanno dimenticati) e infine di segnalare a cuore aperto l’impossibilità di avere altro denaro, data la situazione di crisi del settore pubblico e della “irresponsabilità del governo”. Il vero obiettivo invece, per interposta persona, è quello di isolare gli “esaltati e i facinorosi” e in “santa pace e concordia” stringere il cappio intorno al collo in attesa dei provvedimenti disciplinari.

Con grande lungimiranza, gli autoferrotranvieri hanno già risposto che il  referendum è stato gia fatto: lo dimostra la lotta compatta che ha rifiutato il contratto firmato contro la loro volontà e si è svolta anche sotto precettazione. Ecco la democrazia sindacale d’un tratto ridotta a stracci vecchi, inservibile alla lotta diretta dei lavoratori! La buona e vecchia talpa ha fatto bene il suo lavoro!   

La rabbia è quella di chi, avendo predisposto e sottoscritto regole, articoli, commi del “codice di autoregolamentazione degli scioperi”, si vede scavalcato dai fatti materiali che rivendicano in forma esplosiva la cocciutaggine nel voler esistere.  Fatti che buttano all’aria come un mazzo di carte la legge, e con essa la Commissione di garanzia che vigila sulla distanza tra uno sciopero all’altro e promuove le procedure di raffreddamento, che dilaziona le agitazioni programmate, che impone i periodi di divieto, che pretende un ampio preavviso sui tempi e modalità dello sciopero sotto minaccia di precettazione, che spezzetta e moltiplica le agitazioni rendendole inefficaci e irrilevanti, in modo che non se ne avverta il peso: col risultato che le agitazioni diventano una burla. Contro tutto questo espressamente hanno lottato gli autoferrotranvieri.

Che cosa riserva l’immediato futuro

La firma sul contratto a Milano, ancora una volta sottoscritto dai confederali, che comprende una parte degli aumenti, ma a titolo di negoziato locale e di aumento della produttività, è ovviamente la nuova trappola. Molte sono le incognite per poter capire ora se e come la lotta potrà continuare. Lo sciopero indetto dai Cobas per il 30 gennaio (ma non a Milano) dirà se la categoria ha esaurito il suo slancio.

Se la lotta manifesterà ancora energie sufficienti, il referendum indetto dalla Cgil a favore del contratto verrà bocciato e il contratto nazionale, frattanto fermo agli 81 euro e 970 di una tantum, dovrà essere ridiscusso, e in questo caso gli scioperi dovranno riprendere. Se invece la lotta non riuscirà ad avere l’ampiezza necessaria, è molto probabile che vi sarà un’astensione generalizzata: che vorrà significare senz’altro lo schifo nei confronti dell’azione dei confederali, ma in questo caso saranno date per intese l’accettazione del contratto e la sua estensione a scala nazionale.

Intanto, si fa avanti la necessità del nuovo contratto 2003-2005, oltre ai contratti aziendali da stipulare localmente. L’amichevole partita si svolgerà tra i fautori di contratti unicamente locali con la ripresa delle gabbie salariali regionali e cittadine e quelli che sostengono il mantenimento del contratto nazionale uguale per tutti, dando ad intendere che è in corso la difesa di una sacrosanta conquista.

Comunque sia, la lotta tenderà lentamente a rientrare. L’isolamento dei lavoratori operato dai sindacati confederali nei giorni di lotta è stato ancora una volta organizzato a stretto contatto con le forze politiche e istituzionali (dopo avere contribuito all’incitamento “dagli al tranviere”!), facendo scattare un cordone sanitario attorno alle altre categorie, affinché la naturale solidarietà non si estendesse, non si generalizzasse.

Ancora una volta, i confederali hanno mostrato di essere autentiche agenzie di collaborazione e concertazione, una succursale dei potenti gruppi di potere economico e politico e che è impossibile che possano mai trasformarsi in strumenti della futura lotta classe. La “via verso lo Stato” dei sindacati riformisti è un dato storico irreversibile, mentre abbiamo visto quanto sia reversibile l’abituale rapporto di sudditanza dei lavoratori: una scrollata di spalle ha permesso l’avvio immediato e spontaneo della lotta, qualunque fosse la tessera sindacale, un’azione di lotta straordinaria con metodi propri dei movimenti di classe.

Gli insegnamenti che i tranvieri hanno da trasmettere alle altre categorie salariate, non per virtù di scienza infusa, di forte determinazione, di coraggio, di unità, sono gli stessi che innumerevoli volte i proletari hanno offerto nelle tante e straordinarie lotte del passato. L’organizzazione immediata, le assemblee permanenti, i collegamenti con gli altri comparti delle altre città, il coordinamento nazionale, le casse di sciopero, tutto ciò è stato nuovamente riscoperto, segni oggettivi più che evidenti della necessità su scala generale della rinascita delle organizzazioni sindacali di classe. I lavoratori hanno recepito quel che Marx centocinquanta anni fa sosteneva: “il vero risultato della lotta non è la conquista immediata, ma l’organizzazione”. Un’organizzazione sempre più coordinata, sempre meglio capace di estendersi e di generalizzarsi a tutto il corpo della classe sulla base della lotta economica di difesa: e nello stesso tempo capace di comprendere che, senza la direzione del partito che rappresenta la memoria storica del movimento generale (di quel partito che sa unificarla, cementarla e condurla verso la meta da sempre iscritta nelle condizioni di esistenza della classe: il rovesciamento delle condizioni di vita presenti), lo sconforto, la degenerazione, la sconfitta sono inevitabili.

Anche questo – la necessità assoluta del partito rivoluzionario come guida di un’azione coordinata e generale, che parte inevitabilmente da interessi immediati e circoscritti, ma che a un certo punto dovrà porsi necessariamente l’obiettivo finale dell’abbattimento del modo di produzione capitalistico – è un insegnamento implicito della lotta degli autoiferrotranvieri, come di qualunque lotta che in futuro si sprigionerà dal sottosuolo di questa società ormai putrefatta. Il nostro partito sarà sempre a fianco di queste lotte, per contribuire a estenderle e organizzarle, dirigerle e indirizzarle verso quell’obiettivo.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2004)

 

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