Senza batter ciglio, i bollettini statistici ministeriali ci informano della presenza, nel paese di Bengodi (cioè l’Italietta), di oltre 2,5 milioni di famiglie che vivono in condizioni di povertà, cioè che campano con reddito inferiore a 823 (?) euro al mese. Non ci occupiamo né delle ragioni che spingono la scienza sociale borghese a fissare questa somma come soglia di povertà quando, evidentemente, 850 o 900 euro risulterebbero ugualmente insufficienti per una vita che non sia da fame; né del miracolo per cui queste famiglie vengono quantificate nel numero di “oltre” (?) 7 milioni di individui, quando è perfettamente chiaro che i nuclei famigliari indigenti sono il più delle volte formati da quattro o più persone, il che porta il numero di “poveri” assai vicino, e probabilmente oltre, ai 10 milioni: circa il 20% della popolazione italiana che vive nella miseria. I dati Istat mostrerebbero che nel 1994 il numero di famiglie povere sarebbe stato appena superiore ai due milioni, denunciando dunque un aumento di oltre mezzo milione in dieci anni. Una commissione parlamentare che si occupò della diffusione della miseria in Italia subito dopo la seconda guerra mondiale, quando nel Bel Paese non si era ancora diffuso il welfare, era giunta alla conclusione che circa il 12 % della popolazione di allora, poco più di 6 milioni di individui, “viveva in condizioni subumane” (Inchiesta sulla miseria in Italia.1951-1952, Einaudi 1978). Allora eravamo poveri, ed oggi, come noto, siamo ricchi.

Vi sono molti modi per commentare queste cifre. Il sociologo borghese ne fa il punto di partenza per lamentare sottoretribuzioni, disoccupazione, spaventose condizioni igieniche, come conseguenza di storture legate allo sviluppo anomalo del capitalismo italiano, e in particolare al sottosviluppo.

I marxisti non vogliono dare a queste cifre - spesso frutto di “indagini” condotte con criteri quanto meno sospetti - un significato politico che vada al di là di immediate constatazioni e verifiche.

Esse dimostrano soltanto che il capitalismo pienamente sviluppato ha completamente fallito il compito che ogni altra economia precedente riusciva bene o male ad assolvere, quello di permettere la vita a chi lavora. Dimostrano che la proletarizzazione della popolazione, eliminando il piccolo proprietario di mezzi di produzione (artigiano, contadino), rende il possessore della forza-lavoro totalmente dipendente dal capitale e, molto spesso, dalle mense sociali e dalla carità pubblica. Dimostrano inoltre che la strombazzata civiltà del benessere, di cui possono riempirsi la bocca solo i succhiatori di plusvalore, è una pia illusione che decenni e decenni di “riforme” sotto governi d’ogni tinta non solo non riescono a realizzare, ma dalla quale si allontanano sempre più. Esse dimostrano per l’ennesima volta infine (e la dimostrazione ce l’abbiamo sotto gli occhi) che anche qualora peggiorassero in modo assoluto le condizioni di vita del proletariato, ciò non potrebbe costituire la base di un autentico movimento rivoluzionario, senza l’esistenza di una salda guida nel programma d’azione, costituitasi a contatto con la classe in decenni di duro lavoro, cioè senza il partito politico.

D’altra parte, la nostra scuola non ha mai sostenuto che il concetto di miseria crescente, centrale nella dottrina marxista, debba essere illustrato sempre e necessariamente attraverso numeri di questo tipo. La miseria del proletariato è la conseguenza di perdita del potere d’acquisto solo in certe fasi economiche, o di ridotta capacità di lotta da parte dei lavoratori. Essa è sempre verificata, invece, come crescita continua della terribile potenza del capitale sul lavoro vivo, come dominio totale ed assoluto del lavoro morto, cioè dei mezzi di produzione, dei macchinari, del denaro, sull’uomo. Il senso della dottrina marxista sta nel fatto che i miglioramenti tecnici applicati alla produzione e alla circolazione servono esclusivamente al capitale, mentre la ripartizione del prodotto globale mondiale è sempre a danno dei lavoratori, secondo una quota continuamente, e mostruosamente, crescente. Anche se, dunque, il tenore di vita medio tende, sui lunghi periodi, a crescere storicamente (e noi non l’abbiamo mai negato), il numero dei senza-risorse non fa che aumentare con il processo di accumulazione. Come riportato nel numero scorso di questo giornale (“A un secolo dalla fondazione della I Internazionale– Parte Prima), “non si nega infatti che i mezzi di soddisfazione del consumo possano storicamente aumentare, e che in effetti aumentino: ciò avviene in rapporto all’aumentata massa dei bisogni, che progrediscono, con l’aumento della produzione e della produttività del lavoro, in misura molto maggiore del consumo effettivo, tanto che a questo riguardo può ben dirsi che la disparità nei confronti delle altre epoche sociali è enorme”. Mentre dunque la legge storica della crescente proletarizzazione suona a piena conferma del marxismo, le cifre sulla miseria assoluta che cresce in Italia - e in simile misura nel resto d’Europa - stanno solo a indicare, una volta di più, che questo modo di produzione deve crollare, con tutto il codazzo di sociologi e imbonitori sempre pronti al suo capezzale.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2004)


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