Chi scuote la testa quando affermiamo che siamo ancora in piena fase controrivoluzionaria e che essa dura ormai da più di ottant’anni, basta che vada in piazza il 25 aprile e il Primo Maggio e si guardi intorno. La manifestazione del 25 aprile attrae decine di migliaia di persone, fra sbandieratori di tricolori, vecchi e nuovi partigiani, convinti democratici e sinistri critici, popolo viola e popolo giallo, reduci ed ex-combattenti, ciclisti e maratoneti, libertari, gonfalonieri, pacifisti, medagliati, rappresentanti di questo e di quello, ex di questo e di quello, pdisti, cislini, sinceri preoccupati, nostalgici depressi, portatori di cartelli e sventolatori di immaginette, e chi più ne ha più ne metta. Giusto che sia così, una festa di popolo, una festa di tutti, perché questo è il 25 aprile: la celebrazione gonfia di retorica, demagogia e cattiva coscienza della vittoria della “democrazia sul fascismo”, dei “buoni sui cattivi”, della “libertà sulla tirannide”, e ciò non può essere messo in discussione: chi lo fa rischia, oggi, l’anatema – domani (come già in passato), peggio. Per noi comunisti, non c’è nulla da riscattare in quella data: è la data con cui la borghesia di oggi celebra la vittoria di una frazione della borghesia di ieri su un’altra frazione della borghesia. Per noi comunisti, quella data segna un’ulteriore sconfitta proletaria, un ulteriore trionfo di quella controrivoluzione che, con buona pace di chi scuote la testa quando se lo sente dire, impera da più di ottant’anni [1]. Il 25 aprile non è una stazione sulla via che porta verso la rivoluzione proletaria e il comunismo (come vorrebbero i patetici “nuovi partigiani” di varie parrocchie, che s’indignano per la frase democratica che riempie i discorsi), ma uno snodo tragico di quella controrivoluzione che ancora oggi ci avvelena, paralizzando il proletariato mondiale anche in questa situazione di crisi profonda.

E poi il Primo Maggio. Che invece noi comunisti rivendichiamo integralmente, perché è una data storica, bagnata di sangue proletario (i “martiri di Chicago” del 1886): non festa popolare, ma giornata di lotta che sintetizza le mille e mille battaglie generose ed eroiche, vittoriose e sconfitte, nell’unione ideale di ieri e oggi e domani. Purtroppo, bande di gangster politici se ne sono impadroniti, e l’hanno trasformata in una triste giornata di funerali o di goliardie, fra mesti cortei di pensionati reclutati in massa da sindacati ormai da tempo pilastri dello stato del capitale, iscritti a partiti e organizzazioni corresponsabili in prima persona dello sfascio generalizzato, dell’apatia diffusa, del riflusso che sembra non arrestarsi mai, scenografie hollywoodiane di finti leninisti travestiti da lugubri beccamorti eredi in toto del vecchio PCI nella sua funzione popolar-demagogica, dove il posto dei rosolatori di salsicce e scodellatori di risotto è stato preso da petulanti venditrici di coccarde incapaci del sia pur minimo discorso politico. A Milano, poi, dopo lo squallore mattutino, impera ormai da un decennio la goliardata immonda del MayDay, proclamato da centri sociali e sindacatini di base in cerca di consenso: un putiferio all’unica insegna dello sballo e dell’ubriacatura, dove il popolo dei figli e nipotini di mezze classi bastarde e dei reduci in cerca di viagra giovanilista celebra la propria festa credendosi protagonista per un attimo e, tra i fumi di alcol e di streppa, ribellismo individualista e aperto anticomunismo, non capisce di offrirsi così come prossima carne da macello per il prossimo carnaio mondiale, cui accorrerà come una massa di zombies rincitrulliti, ubriacati di falsi miti e decadenti aneliti.

Certo, non c’è proprio da stare allegri. E comunque, abbiamo qui, in una ricorrenza che non è nostra e in un’altra che dovrà tornare nostra, a pugni e a calci, al momento opportuno, due dimostrazioni dell’abisso in cui la controrivoluzione ha cacciato il proletariato mondiale. Noi comunisti lavoriamo perché esso da quell’abisso sappia risalire. E allora saranno dolori per tutti i bastardi e i rinnegati.


[1] E si badi bene che i nostri compagni di allora non se ne stettero con le mani in mano a guardare, per quanto del tutto minoritari, oltre che calunniati, perseguitati e ammazzati dai nazi-fascisti come dalle future “forze democratiche”. Lo dimostrano tutta la loro ben documentata attività controcorrente e la loro presenza e il loro ruolo nei grandi scioperi del 1943-44. Chi è interessato a riscoprire il senso della nostra battaglia di ieri – presupposto necessario per continuarla oggi su posizioni di classe e non democratiche, opportuniste, revisioniste, può richiederci l’opuscolo ...

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2010)

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