Sulla eterna questione meridionale si fondano tutte le risorse per agitare lo  spettro del feudalismo in Italia. Sulla evocazione e sulla agitazione di questo flaccido spettro si poggia per il novantacinque per cento la lotta conservatrice della borghesia italiana contro la classe operaia, il socialismo e la rivoluzione.

 

Anche i buoni propagandisti del socialismo moderno in Italia si sono sem­pre mal liberati da questo pericoloso chiodo. Ad esempio Alessandro Schiavi, intorno al 1921, presenta per la Editrice Avanti) i Documenti della rivoluzione russa; e nella prefazione a quelli sul problema agrario, pur inquadrando bene il  programma socialista rurale in Italia, opposto alla campagna borghese per lo spezzettamento della terra in piccoli lotti, non sfugge a dire: « Abbiamo in Ita­la i due termini estremi della parabola: il feudalismo agrario scarsamente pro­duttivo, per l'interesse privato; la coltivazione collettiva e fortemente produt­tiva, per l'interesse sociale».

 

La prospettiva è totalmente deformata. Economicamente, socialmente, po­liticamente, il campo d'influenza della grandissima proprietà terriera (anche essa per nulla feudale) nel sud e delle poche aziende cooperative di lavoro a­grario nel nord, è trascurabile dinanzi al pieno quadro di un sistema di econo­mia agraria capitalistica, e di potere centrale della classe borghese, che deve costituire l'obiettivo diretto dell'assalto socialista della classe lavoratrice. E di questa fanno parte, dalla Lombardia alla Sicilia, masse potenti di lavoratori agricoli salariati, senza terra e senza sciocca fame di terra, che da settantacin­que od ottant'anni sono socialmente determinati a lottare contro l'alleanza dei capitalisti e dei possidenti, per una vittoria dei proletari delle città e delle campagne.

 

Se qualche cosa è in arretrato, non è lo slancio delle masse nella lotta ma proprio la giusta formazione della teoria sociale e politica nelle organizzazio­ne e nei partiti dirigenti.

 

Questa formazione ha poi subito un ripiegamento decisivo, con gravi con­seguenze sulla impostazione sociale delle masse e la loro spinta a combattere, per il fatto che i partiti che pretendono accamparsi a sinistra, vivendo nella lo­ro agitazione di basse rimasticature e sciocche falsificazioni delle esperienze rivoluzionarie russe, hanno spezzato le tradizioni di lotta di classe nelle nostre rosse campagne col pieno impiego dello spettro ciarlatano del pericolo feudale, ed hanno reso così alla dominante borghesia della nostra nazione il più solen­ne dei servigi.

 

Che fosse quello il cavallo di battaglia antisocialista dei nostri borghesi si può leggere in testi ormai ingialliti. Uno scontro sulle affermazioni proleta­rie e socialiste si ebbe alla Camera italiana il 13 maggio 1894.

 

Campione della borghesia fu l'ingenuo, onesto, enfatico deputato democra­tico napoletano Matteo Renato Imbriani. Né l'avversario era un campione di dottrina marxista; si trattava di Enrico Ferri, che avendo difesa la lotta di classe e prospettata l'antitesi tra il socialismo e l'individualismo, dovette ripiegare sullo sviluppo della « personalità » umana, quando l'oratore borghese usò un vecchio espediente retorico, dichiarando di essere un povero diavolo, al disotto del Ferri nella vita economica!

 

Qui ci interessa il pezzo forte dell'oratore borghese in quell'antico, e un po' barocco duello: « Ma io vi domando che cosa significa questo seme di turba­mento, che si getta nelle coscienze allorquando si parla di classe borghese? E' stata la classe che ha sacrificato tutto: vita, averi, libertà individuale; tutto, per suscitare nella coscienza popolare la dignità umana, l'affetto umano, i diritti umani. Quando il feudalismo imperava, non è stato forse questo pensiero che ha agitato le menti, che ha detto alla povera vassalla trascinata al letto del si­gnore: destati, trai il ferro che hai nascosto nelle trecce, e ferisci!? (bravo!). A cinquantasei anni di distanza, i difensori di ufficio dell'anticlassismo e delle glorie borghesi, (tra cui freschissime quelle del secondo risorgimento contro le orde feudali teutoniche, che non salvò vassalle, ma piuttosto convogliò molte italiane, redente dall'umano diritto borghese, ai letti dei democratici liberatori) non vogliono smetterla col fantasma feudale. Ma non saprebbero più in quali trecce nascondere il sacro ferro, se non forse nelle spesse, ondulate capigliature dei Dodo e dei Giangi esistenzialisti, che battono i marciapiedi dei quartieri alti eretti nell'Urbe dall'edilizia postfeudale e capitalistica. 

 

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La ciarla del medio evo sopravvivente in Italia non solo dimentica che cosa fu il feudalismo, ma dimentica che ve ne fu in Italia meno che altrove, e nel sud meno che nel nord.

 

Le caratteristiche del feudalismo sopravvivevano, ad esempio, come tutti sanno, nella Germania del 1848, quando già Marx ed Engels, pur caratterizzan­dole e avversandole, centravano tutto lo sforzo sulla lotta del nascente prole­tariato contro la borghesia imbelle, non ancora vittoriosa nello Stato.

 

Permanevano caratteri feudali in Germania verso il 1850 perché, meno che alla sinistra del Reno, « la nobiltà fondiaria aveva persino conservato la giurisdizione sui suoi sudditi » ossia, il signore faceva da giudice civile e pe­nale. Nell'Italia del sud, prima ancora della rivoluzione francese, funzionava in pieno il sistema della magistratura di stato culminante nel regio potere. Quei privilegi erano stati invano pretesi dai baroni fin dai secoli delle monar­chie angioine e aragonesi.

 

Nella stessa epoca, anzi perfino dal tempo delle civili corti di Federigo di Svevia in Palermo e Napoli, di cui nientemeno già parla Dante, ed in corri­spondenza alla dottrina politica di lui, svolta nel « De Monarchia », i nobili non erano elettori del Re, né su di lui avevano controllo; « privilegi politici » che in Germania finirono di perdere appena nel 1848.

 

Ivi conservavano tuttavia « quasi tutta la supremazia medievale sui con­tadini dei loro dominii; così come l'esenzione dalle imposte ». Abbiamo qui un punto che arreca tale luce, da essere chiaro anche ai ciechi. Residui feudali nella grande proprietà terriera possono esisterne fin quando il signore non paga im­poste allo Stato. Ma l'Italia è la terra regina dell'imposta fondiaria, possente istituto che, senza quasi parentesi, trae le sue radici dagli ordinamenti romani. Soprattutto nel Mezzogiorno, il possessore di terra piega sotto il peso di una colossale catasta di tasse, il cui ingranaggio ha funzionato nello stesso inesora­bile modo sotto gli intendenti spagnoli e borbonici, o sotto quelli della Repub­blica partenopea e di Murat, come poi del monarchico o repubblicano ministero di via Venti Settembre, ove la statua di Quintino Sella rammemora l'avvento, nella Roma dei Cesari e dei Papi, del pidocchio borghese.

 

La famosa perequazione fondiaria, vanto delle consegne economiche liberali di Roma, dopo che fu realizzato « tutto il potere alla borghesia », ha costi­tuito una delle basi per l'accumulazione capitalista in Italia, convogliando, in­sieme all'abile maneggio della politica bancaria, il gettito della rendita fondia­ria dalle tasche sbrindellate degli ex-baroni nelle casseforti della borghesia in­dustriale e finanziaria predetta. Ben s'intende che, nel processo di sviluppo capitalistico, le persone di molti proprietari di pretesi feudi si trasformavano in persone di industriali, commercianti, banchieri, e ruffiani di vario tipo del capitale.

 

Il peso dell'imposta fondiaria sull'economia è tanto più notevole ove è in arretrato la tecnica dell'intrapresa attrezzata sulla terra, ossia dove su questa vi è poco apporto, da una parte di capitale mobile, dall'altra di lavoro umano. La grande agricoltura capitalistica si copre con profitti altissimi mobiliari ri­spetto ai quali l'imposta fondiaria è trascurabile; lo stesso piccolo esercizio della terra in cui il proprietario è lavoratore, se è taglieggiato in cento modi da in­termediari e strozzini di puro tipo borghese, sente poco il peso dell'imposta •statale.

 

Il feudalismo ha per sempre abbassato la testa, in quel paese in cui il ca­tasto dello Stato inscrive la terra nei propri ruoli senza fermarsi alle frontiere del latifondo. Se nel mezzogiorno si parla spesso di « feudi », è perché tale parola indica i « demanii », ossia le terre di proprietà collettiva statale o co­munale, non intestate a privati, e che non pagano tasse appunto perché di pro­prietà collettiva e di uso collettivo. Erano boschi ove tutta la popolazione fa­ceva legna, pascoli ove tutti potevano condurre il proprio gregge. Lo Stato manteneva come aree sottratte ad ogni diritto privato i Regi Tratturi, o Traz­zère, secondo la regione, larghissime piste (fino a cento metri) che dalle mon­tagne conducevano al piano, lungo le quali avvenivano i trasferimenti stagio­nali delle greggi, specie di ovini, e dei loro allevatori: le bestie trovavano un poco di pastura lungo il tragitto di intere settimane. Il processo di usurpazione di tutti questi pubblici beni non fu un fatto feudale, ma un processo di natura borghese e capitalistica, secondo il fine degli economisti agrari classici, per cui ogni terra deve essere « libera », potersi liberamente commerciare e possedere da privati. Facilitò un tale saccheggio la istituzione delle democratiche ammi­nistrazioni locali, ovvia conquista dei ricchi borghesi. non restava allo Stato che accatastare questi tratti usurpati, e far loro pagare la imposta. Un trapasso analogo avvenne in Francia dopo la grande rivoluzione. Ma chi fa economia con metodo letterario si appaga di una parola e di una assonanza, e scambia questo fatto con la istituzione dì possessi baronali, inalienabili dalla famiglia feudale, esenti da tasse, lavorati non da salariati o piccoli fittavoli, ma da servi tenuti alla comandata. Questo a grande scala e in tempo moderno il sud d'Italia non ebbe, ma alla politica da retori fa comodo prendere lucciole per fischi; e se ne forbisca la bocca.

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