VII

 

VERSO IL PARTITO COMUNISTA

 

1.  SCIOPERI ED ECCIDI

La controffensiva padronale di cui in marzo si erano avute le pri­me avvisaglie, si sviluppò nei mesi successivi sul duplice fronte dell’at­tacco padronale in fabbrica e della repressione organizzata ad opera delle forze dell’ordine, nelle vie e nelle piazze dei centri più vivi e batta­glieri del movimento operaio ed anche contadino, se occorre con l'aiu­to delle prime squadre fasciste (1).

       Confederazione Generale del Lavoro e Partito socialista - l'una sotto direzione riformista,  l'altro sotto direzione massimalista - hanno dato prove così evidenti di passività nascosta dietro il velo trasparente di una fraseologia bellicosa; si sono mostrati così restii a incanalare agitazioni tuttavia imponenti verso gli obiettivi politici che pure i lavo­ratori confusamente esprimono occupando le fabbriche e rivendicando il controllo della produzione (obiettivi ingenui e sostanzialmente erronei, ma indicativi di una spinta a superare i limiti delle lotte puramente economiche) (2); hanno con tanta insistenza denunciato «l'immatu­rità delle condizioni oggettive» e la propria rinunzia a favorirne la maturazione; hanno tanto piagnucolato sulla forza dell’avversario e sulla propria debolezza - il tutto dopo aver stamburato, l'una, la grandiosità dei successi sul piano sindacale e parlamentare, l'altro la imminenza della resa dei conti fra le classi -; hanno detto a note così chiare, col linguaggio non tanto delle parole quanto dei fatti, che i successi elettorali premono loro mille volte più dell’organizzazione dei proletari (se mai ci pensano) in un unico fronte di battaglia, e che, in tale prospettiva, si guarderebbero bene dal creare imbarazzi al go­verno e perfino, nei circoli dell’onnipotente gruppo parlamentare o in quelli più ristretti della destra turatiana, gli darebbero man forte nel normalizzare la situazione; insomma, le sfere cosiddette dirigenti della pugnace classe proletaria si sono schierate su una linea così palese­mente difensiva, che il suo antagonista ha buon gioco nel passare da una posizione di attesa preoccupata ad una di attacco senza scrupoli. Superato il primo momento di instabile equilibrio, la classe dominante può ritenere a giusta ragione - contro le troppo ottimistiche diagnosi della stessa Internazionale - che l'onda rivoluzionaria (oggettivamente se non soggettivamente tale) dia segni di riflusso: solo quando ne sarà certa, scatenerà vigliaccamente le squadre nere delle spedizioni puniti­ve. Per ora, le bastano le forze rinsanguate dell’ordine la cui azione si traduce in uno stillicidio di massacri perpetrati con la complicità dell’inerzia confederale e socialista e con l'aiuto della sempre più agguerrita resistenza padronale alle «pretese» operaie in fabbrica.

Aprile vede in sciopero su scala nazionale o regionale i cartai (dall’1 al 27), i calzaturieri, i metalmeccanici, i lavoratori delle aziende di stato (tabacchifici, zecca, arsenali) fino al 4 maggio, i braccianti, i sarti; in agitazione i postelegrafonici, che per la prima volta praticano l'ostruzionismo e con la loro azione provocano la seconda caduta del ministero Nitti, e, in concomitanza con lo sciopero dei metallurgici tori­nesi (di cui diremo poi), i ferrovieri di diversi compartimenti e i marittimi di alcuni grandi porti; in fermento sono pure le campagne del Sud e della Bassa piemontese, specie a Vercelli e Novara, del Pavese e del Veneto. In maggio, prosegue l'agitazione dei postelegrafonici e ha inizio quella dei lavoratori albergo e mensa; scioperi imponenti dei lavoratori della terra si svolgono nelle province di Verona (con sciope­ro generale il 14) e di Parma; il 12, i netturbini romani sospendono il lavoro (squadre di studenti, volontari e cittadini «bene» li sostitui­scono - sintomo di rinascita delle tradizionali reazioni piccolo-borghesi a moti «plebei»); soprattutto notevole nella seconda metà del mese l'iniziativa dei ferrovieri di Brescia, Oneglia e Trieste di bloccare convogli di armi e munizioni diretti in Polonia per la guerra contro la Russia sovietica: analoghe azioni dei marittimi si hanno a Trieste e Genova. Una delle agitazioni che più si distingue per Compattezza è quella dei falegnami della provincia di Milano, che al 26 maggio tocca il 26° giorno svolgendosi parallelamente a quella dei carrozzai e dei lavoratori albergo e mensa. (La frase dell’«Avanti!» in riferimento ad essa: «Il nostro motto deve essere ormai questo, anche nelle bat­taglie sindacali: classe contro classe», ha un sapore di ironia se si pensa che il Consiglio generale delle Leghe, riunito lo stesso giorno, pur riconoscendo «il carattere di vera offensiva contro le organizza­zioni operaie» assunto dall’atteggiamento padronale, e «richiamando la massa operaia al dovere assoluto di venire in aiuto alle categorie in sciopero», delibera di sostenerle «per ora» soltanto «finanziariamente» e di riconvocarsi a tempo opportuno al fine di concretare «una più tangibile forma di solidarietà»!).

In giugno scioperano su scala nazionale i lavoranti del legno, co­minciano e via via si estendono le agitazioni contro l'aumento del prez­zo del pane (provvedimento deciso e poi ritirato da Nitti), termina il lunghissimo sciopero dei lavoratori agricoli del Veronese, si svolgono quelli dei fiammiferai (90 giorni), dei lavoratori in specchi, dei dipen­denti delle ferrovie secondarie (seguito, il 19-23, ad una serie di scioperi ferroviari circondariali, in particolare a Milano) e localmente dei lavora­tori in latta e cassoni (Sampierdarena), dei parrucchieri (Genova), dei ferrovieri (Piacenza), e dei braccianti (Teramo, Macerata, Roma, Casale, Rimini, Toscana). Questi ultimi si prolungano fin nel mese di luglio interessando altresì le province di Firenze, Bologna, Ferrara, e il Forli­vese.

Impressionante è il crescendo degli scontri fra proletari e forze dell’ordine, e degli eccidi perpetrati particolarmente da carabinieri e guardie regie; del tutto episodico, in confronto, l'intervento di squadracce fasciste, e più insistenti, benché secondari rispetto all’azione repres­siva del regio democraticissimo Stato, gli episodi di «teppismo bianco», come le prime gesta di... manganellatori cattolici nelle campagne emi­liane e lombarde. Valga uno scarno elenco: 31.III: Uccisione di un contadino e ferimento di un altro ad opera dei carabinieri a Mortara. 4.IV: Scontri fra contadini e mazzieri in Puglia: tre feriti. 6.IV: Durante un comizio alla CdL di Decima di Persiceto (Bologna), i carabinieri sparano sui proletari uccidendone otto e ferendone una trentina: nel Bolognese viene proclamato lo sciopero generale. 7.IV: A Modena, due lavoratori uccisi e numerosi feriti in uno scontro coi carabinieri: scio­pero generale in provincia. 8.IV: A Nardò (Lecce), i braccianti armati di bombe a mano e rivoltelle bloccano in caserma i carabinieri (uno dei quali perde la vita), e, a dire della stampa borghese, «saccheggiano la città» (un assalto al mulino locale si era già avuto a Molfetta il 2): nel­la violenta reazione della truppa, si registrano 4 morti e diversi feriti. 9.IV: A Cattolica, un morto da parte operaia. Lo stesso giorno la dire­zione del PSI, sollecitata da tutte le parti a prender posizione sulla gragnuola di assassini e sugli scioperi immediatamente proclamati in diverse province, pubblica un comunicato che, sia pure suggerito dalla preoccupazione di evitare estesi conflitti in rapporti di forza negativi, svela tutto il nullismo massimalista nel vano piagnucolio sulle «pub­bliche [!!!] libertà» calpestate ed irrise, nella stolta pretesa (che sarà il leit-motiv del biennio successivo) di ottenerne il ripristino dallo Stato - proprio lui, il protagonista degli eccidi! - nel lacrimevole invito ai proletari per una «sollecita [!!!] preparazione» nel caso che il nemico di classe faccia loro il torto di disturbarne le... pacifiche proteste locali; il tutto alternato in contraddittoria miscela agli squilli di tromba annunzianti l'imminenza dello scontro finale e la necessità di abbattere il regime capitalista (in maggio-giugno, la stessa direzione dovrà tirar le briglie a una parte sostanziosa del gruppo parlamentare non disposta neppure ad abbattere... il ministero del piombo facile e del pane caro di F.S. Nitti). Ecco il testo del comunicato:

 

«La Direzione del PSI, di fronte alle continue violenze e ai continui eccidi che si ripetono in ogni parte d'Italia e che pur ieri furono commessi a Decima e a Modena, ravvisa in essi i sintomi che rivelano, oltre agli istinti criminali dei tutori dell’ordine borghese, una situazione che diviene sempre più grave e che conduce inevitabilmente ad uno sbocco rivoluzionario; ritiene urgente perciò una seria preparazione da parte proletaria e un'azione intesa ad imporre il ri­spetto delle pubbliche libertà, a fiaccare la reazione borghese, ad abbattere il regime capitalista. Pure assicurando la propria solidarietà ai proletari dei vari centri che proclamato lo sciopero generale di protesta, non crede utile [!!!] di estendere al momento tale forma di protesta a tutta Italia: invita però i com­pagni tutti ad una sollecita preparazione per il movimento che si ritenesse dover ordinare nel caso [?] che la borghesia e il governo intendessero infierire contro il proletariato delle città in sciopero e fiaccarne la solenne protesta».

Da parte sua, l'«Avanti!» commenta: «Non è ancora il tempo di agire». Quel tempo, per il massimalismo bagolone, non verrà mai - neppure per esigenze di difesa!

12-22.IV:  Durante lo sciopero delle lancette a Torino, arresti a ripetizione, tafferugli, violenze. 25.IV: A Venezia, durante uno sciopero generale, un morto e 15 feriti in scontri con la guardia regia. 26.IV: A Ruvo di Puglia, un morto e alcuni feriti durante un episodio di occu­pazione delle terre. 27.1V: A Canosa, tre braccianti uccisi dai carabi­nieri. 28.IV: Durante uno sciopero generale dei lavoratori dei campi nel Padovano, 4 morti e numerosi feriti. 1.V: A Torino, dove le forze dell’ordine, dai giorni dello «sciopero delle lancette», presidiano pratica­mente in armi la città, i carabinieri caricano i dimostranti: 5 morti e 30 feriti. Tre morti e altrettanti feriti si lamentano fra i «rossi» inermi sia a Pola che, al capo opposto della penisola, a Paola. 2.V: Durante scioperi locali, feriti nel Biellese, nelle Puglie, a Ragusa, a Verona. 3.V: Due morti a S. Severo di Puglia, due a Livorno durante uno scio­pero di solidarietà con i lavoratori caricati dalla forza pubblica a Via­reggio. 12.V: Cinque operai uccisi a Iglesias. 24.V: Tre morti e tre feriti a Canosa di Puglia ed eccidio in provincia di Aquila. 25-26.V: Sparatoria con feriti e sciopero generale a Palermo. Eccidio di braccianti ad Ortona. Il 26, a Udine, gli arditi sparano sulla folla, causando fra gli operai un morto e diversi feriti. 4-5.VI: Conflitti di piazza «nei tu­multi per la fame» a Roma, Bari, Genova; la forza pubblica spara a bruciapelo sulla folla. 11.VI: Durante lo sciopero generale a Bari, pro­clamazione dello stato d'assedio, arresti e ferimenti. A Trento, due morti e diversi feriti. 15.VI: A Gambassi (Firenze) i carabinieri sparano all’impazzata sugli intervenuti ad una festa socialista; un morto e 4 feriti. Scontri con clericali e preti a Ravenna e a Trezzo d'Adda. 16.VI: Tra i ferrovieri in sciopero attaccati dai carabinieri a Milano, un morto e numerosi feriti: scioperi di solidarietà su diverse linee ferroviarie, e generale a Piacenza. 22.VI: Manifestazione di solidarietà per i ferrovieri a Milano: la città è praticamente in stato d'assedio, guardie regie e ca­rabinieri sparano sulla folla, autoblindo pattugliano le strade; i morti, i feriti, gli arrestati, sono numerosi. 27-30.VI: Eccidio a Brescia (5 morti e 4 feriti) in occasione di uno scontro fra giovani socialisti e clericali; violenze a Noto; sparatorie a Forlì; 2 morti e 27 feriti a Belluno; ripetuti scontri fra braccianti, carabinieri e squadre padronali in Puglia.

A partire dal 26 giugno, scoppiano ammutinamenti fra le truppe concentrate dal regio governo ad Ancona per trasferirle in Albania, al­lora e poi riserva di caccia agli... «anarchici» per le esercitazioni a tempo perduto di militari di carriera e per le facili avventure di nostal­gici delle glorie patrie. (Com'è noto, dal 1914 l'Italia occupa Valona: ora interviene, come dice Giolitti, in «difesa dei fratelli» aggrediti da «sudditi anarchici» o, alternativamente, da emissari di organizzazioni nazionaliste jugoslave). I moti culminano il 1° luglio in un ammutina­mento di bersaglieri: tutta la città sospende il lavoro e viene bombardata dal mare, mentre arresti e perquisizioni si abbattono sulle organiz­zazioni proletarie. Le direzioni del PSI e della CGL, che già il 25 giugno, in un manifesto comune, avevano dichiarato: «Per la necessi­tà di affrontare la nuova lotta [lo «scontro frontale fra borghesia e proletariato» previsto come ormai «prossimo»] con tutte le nostre energie, gli organismi dirigenti il movimento proletario in Italia debbo­no mettere in guardia i lavoratori da mosse che potrebbero essere dannose e pregiudizievoli al movimento di insieme [...]; la rivoluzione non può essere opera di un gruppo di uomini, né compiuta in un'ora: essa è  il  risultato di  una  formidabile  preparazione  compiuta  attraverso sforzi immani e una disciplina ferrea» (che esse si guardano bene dall’instaurare!), decidono dopo un giorno la cessazione dello sciopero avendo avuto dal governo «assicurazione chiara e solenne [!] di ri­nunzia ad ogni impresa guerresca all’estero e a ogni proposito di rea­zione di classe all’interno [lo si vedrà subito, infatti]» (3): ma il loca­le Consiglio delle Leghe delibera a grande maggioranza di continuarlo, come avviene «senza alcuna defezione». La città è per qualche giorno in mano agli operai; negli scontri, violentissimi, si registrano 24 mor­ti e 400 feriti. I tribunali provvedono a completare l'opera dei reparti dell’esercito, dei carabinieri e della guardia regia: lo spettro della «set­timana rossa» 1914 non deve risorgere! Ancora una volta, il PSI non muove dito, non diciamo per scatenare... la rivoluzione, ma nemmeno per opporre resistenza a una chiara e dichiarata offensiva padronale.

Quanto poi valgano le assicurazioni del governo, lo si constata subito: fra il 6 e il 10, l'«Avanti!» annunzia la condanna di ferrovieri scioperanti al tribunale di Legnano e di proletari colpevoli di «vio­lenze» a quello di Ancona, lo stato d'assedio a Macerata, un nuovo eccidio a Brindisi ed arresti in massa di socialisti solidarizzanti con reparti in partenza per l'Albania che si sono ammutinati. Ed è in questa situazione che il 1° luglio la CGL invita gli operai ad accettare la nuova legge sulle assicurazioni sociali fondata sul contributo con­giunto dello Stato, dei padroni e dei salariati! Le Camere del Lavoro di Bologna e Torino esortano gli operai a non versare nulla; uno sciopero di protesta scoppia alle officine Bianchi di Milano.

L'11 luglio, il centro siderurgico di Piombino è cinto d'assedio da reparti di polizia e carabinieri dotati di armi pesanti: il governo teme» un movimento generale per l'estenuante prolungarsi delle trattative fra metallurgici e padroni. Lo stesso giorno, la repressione antioperaia in corso a Torino induce i deputati socialisti a chiedere in una interpellanza al governo «quale atteggiamento intenda assumere verso la Prefettura e la Questura di Torino, che in tutte le manifestazioni dei lavoratori torinesi dimostrano [ma guarda un po'] di non sapere e non volere tutelare la vita e la libertà dei cittadini [sic]».

Il 13, i tramvieri proclamano uno sciopero nazionale di solidarietà coi dipendenti delle ferrovie secondarie (in sciopero dal 20 giugno), a danno dei quali si verificano episodi di gravi provocazioni e violenze a Brescia. L'«Avanti!» del 15 lamenta candido candido: «La Prefettura (così larga di misure preventive contro i socialisti e così pronta a rimet­tere l'ordine quando... è turbato da noi) si è ben guardata    benché [!!] avesse sul posto carabinieri ed alpini dall’intervenire durante queste vili violenze, durate tutta una giornata»!

A Trieste, squadristi giuliani devastano le sedi di organizzazioni slave e seminano il terrore nella città: 2 morti e 14 feriti. Dal 16 al 20, l'«Avanti!» elenca un'aggressione a contadini socialisti a Cassino (1 morto), la condanna di sindacalisti giudicati responsabili dei disordini di Macerata, l'uccisione di 5 braccianti a Panicale (Umbria) ad opera dei carabinieri, il licenziamento di 300 operai con minaccia della stessa sorte ad altri 1200 all’Ansaldo di Genova, la chiusura del lungo sciopero dei ferrovieri delle linee secondarie. Ed ecco che a Roma, il 20.VI, ufficiali e squadristi malmenano i tramvieri tornati al lavoro fra uno sventolio di bandiere rosse, devastano la sede dell’«Avanti!», e l'indo­mani aggrediscono alcuni deputati socialisti, fra cui Modigliani. A Badia Polesine è gravemente ferito un capo-lega; in provincia di Siena, i braccianti in sciopero lamentano tre morti. L'«Avanti!» del 22, nell’editoriale pubblicato sotto il titolone:  «I lavoratori d'Italia si stringono attorno al Partito Socialista per la vigile ed accorta difesa dei loro interessi», scrive:  «Non siamo mai stati così sereni e tranquilli come in questo momento, all’indomani di una aggressione che non ci umilia, ma ci conforta». Il 27, a Randazzo in provincia di Catania, mentre già da alcuni giorni si agitano i metallurgici - preludio ai fatti di agosto e settembre -, i carabinieri sparano su una folla di braccianti e contadini in attesa del ritorno di una commissione inviata a chiedere il blocco del grano raccolto: i morti sono otto, i feriti superano il centinaio. La stessa sera, proletari reduci da un comizio socia­lista vengono selvaggiamente aggrediti a Piana dei Greci. Il 30, durante un comizio socialista, la polizia apre il fuoco; i morti sono 5, i feriti oltre 30.

* * *

Fin dal 25 aprile «Il Soviet», in un articolo intitolato come questo paragrafo,  aveva messo in rilievo le caratteristiche fonda­mentali e gli urgenti imperativi della situazione qui sommariamente descritta e destinata a risultare ancor più chiara, nelle sue ombre come nelle sue luci, dalle pagine seguenti.

La Frazione non ignora affatto né guarda dall’alto con sovrano disprezzo - come pretendono gli storiografi intonati alla voce del pa­drone - i moti parziali della classe operaia; al contrario, addita nei tentativi di occupazione e gestione delle officine e nella «tenace azione per il riconoscimento dei consigli di fabbrica e del diritto da parte di questi ultimi ad esercitare un controllo sulla produzione», la manife­stazione di una tendenza positiva delle masse lavoratrici - indipenden­temente dal contenuto illusorio di tali obiettivi - a «superare i confini di una sterile ed estenuante contesa per l'aumento del salario e per benefici di categoria subito frustrati dal vorticoso rincaro della vita o dalla caparbia controffensiva padronale», per volgere i loro sforzi gene­rosi verso l'obiettivo, posto inesorabilmente dai fatti come necessario, di impadronirsi dello stesso meccanismo della produzione - obiettivo a sua volta irraggiungibile senza la conquista rivoluzionaria del potere. Di questa tendenza, era la borghesia la prima ad essere cosciente: era essa a prendere l'iniziativa nella guerra di classe giunta ormai ai limiti della guerra civile (il che non significa, egregi «storici» dei nostri stivali, che per noi si fosse già in periodo rivoluzionario!); da essa veniva il monito che il problema, fuori da qualunque illusione gradua­lista e pacifista, era ormai posto dalle cose «nei suoi veri termini, come problema di forza».

Vano era quindi, allora più che mai, piangere sulle libertà perdute, sulle guarentige calpestate, sulla violenza rimessa sugli altari; vano, peggio ancora, «richiamare il governo borghese al rispetto della vita umana, e obbligarlo a punire i suoi sgherri» autori di eccidi a rota­zione, come farà il massimalismo (del tutto simile al riformismo) in tutti i giorni, mesi ed anni successivi. Il proletariato doveva, al contrario, ricevere dalla sua avanguardia la parola d'ordine di impegnare tutte le forze «affrontando la lotta in tutta la sua asprezza», ed esercitando la violenza non come semplice ritorsione o mezzo di difesa ma «come necessità ineluttabile della sua azione liberatrice».

Vano, d'altro lato, deprecare la mancanza di coordinazione, l'oriz­zonte limitato, gli obiettivi in gran parte illusori, delle lotte parziali; giacché si trattava appunto di «guidarle, incanalarle, disciplinarle», impedendo loro di esaurirsi in frammentarie scaramucce e indirizzandole verso le finalità che, sia pur confusamente, esse stesse esprimevano nel loro esplodere istintivo e nella affannosa ricerca di legami più saldi e di campi di azione più vasti. Di questo obiettivo le lotte parziali non erano, come non sono mai di per sé, la negazione, purché fatte servire di «allenamento, esercizio, preparazione» ad esso, mai se concepite e proclamate come mezzo alla conquista di «posizioni intermedie di po­tere»: ed era appunto qui che si innestava il compito primario, la vera e storica funzione del partito.

Raccogliere il guanto di sfida della borghesia, estendere le lotte par­ziali concentrandole e incanalandole sul terreno, sul quale la classe avversa si era già posta, della guerra civile: sarà questa, un anno dopo, la direttiva, applicata con un rigore di cui l'Internazionale sarà la prima a dargli atto, del Partito comunista d'Italia diretto dalla Sinistra. Fosse potuta essere la direttiva del 1920!

Non volle la storia che così fosse  - nel caos ideologico e quindi nell’impotenza pratica di una maggioranza numericamente poderosa che comunista si diceva e in tutte le sue ali restava ottusamente sorda alla questione pregiudiziale dell’allineamento sulla base del programma anti­democratico, antigradualista, anti-immediatista della III Internazionale, e della rottura, a costo di una relativa debolezza numerica più che con­trobilanciata dall’efficienza organizzativa e dall’influenza reale sulle masse, con chiunque in buona o cattiva fede non lo accettasse integralmente. A chi ciancia di rivoluzionari comunisti che il nostro «settarismo» cocciuto avrebbe allontanato, si risponde che la pietra di paragone della serietà della loro adesione al comunismo era (e non ci fu) la capacità di riconoscere l'urgenza di una guida politica omogenea - perché pog­giante su basi teoriche e programmatiche rigorosamente definite - la cui presenza attiva avrebbe essa sola permesso alle generose battaglie del proletariato di non disperdersi nella vana ricerca di soluzioni parziali né di cader preda dello sperimentalismo volontaristico di una «intelli­ghenzia» a caccia di formule taumaturgiche di snodamento del dramma sociale visto come aspetto di una «crisi della cultura», e gli avrebbe fornito i mezzi e il modo di difendersi - in attesa di poter contrat­taccare e, se possibile, contrattaccare già nella difesa - dalle forze della controrivoluzione montante, senza precipitare (come quattro anni dopo) nelle secche fatali di un antifascismo idiotamente interclassista e pecore­scamente democratico. Se lavorare per la costituzione del partito - e non di un partito come che sia, ma del partito poggiante sulla completa unità di teoria e di azione che il marxismo esige - fosse, per assurdo, «passivismo, fatalismo, meccanicismo», ebbene noi voteremmo per queste divinità ignote contro «l'attivismo dei realizzatori» alla rincorsa di «em­brioni» della società nuova entro la vecchia, sedicentemente costruiti dal proletariato nella sua lotta come classe non per sé, ma per il capitale!

 

(1) Il 19 aprile il capo del gabinetto della Presidenza del Consiglio informava Nitti, che una circolare dei fasci di combattimento milanesi invitava le sezioni, «in caso di pericolo, a mettere le forze a disposizione dell’autorità militare». Il mi­nistro della guerra Bonomi non se lo farà dire due volte.....

(2)   Si veda l'articolo Scioperi ed eccidi nell’ora attuale, pag. 389.

(3)  Il nuovo manifesto «risponde alla fiducia» degli operai anconetani, guidati in gran parte dagli anarchici, e di tutta Italia, «con la promessa che la realizza­zione piena e completa dell’ordinamento socialista è in cima al nostro pensiero [!!!] ed è nostra intensa, vigile e intensa volontà quella di perseguirla con ogni mezzo», assicurandoli che li chiamerà a tale azione «non appena la maggior pro­babilità nelle condizioni della riuscita si concili con il minor sacrificio vostro e di tutto il proletariato italiano». Ma tutto si riduce a mobilitare gli operai affinché «vengano mantenute» le promesse, tuttavia definite «ambigue e ingannatrici», strappate alla borghesia e al suo stato!

 

 

2.         - LO «SCIOPERO DELLE LANCETTE»: PROSPETTIVE E BILANCIO

 

Fu proprio allora che, di fronte a un grandioso episodio di com­battività operaia - quello che doveva passare alla storia «minore» come lo «sciopero delle lancette» a Torino - vennero in cruda luce il sabotaggio confederale, l'impotenza del massimalismo, ma anche, nella sua ala estrema ben rappresentata dal gruppo de «l'Ordine Nuovo», le carenze teoriche, le incertezze pratiche, le oscillazioni tra un super­ficiale ottimismo da pre-allarme insurrezionale ed una precipitosa rica­duta su posizioni flebilmente apologetiche, e infine, o soprattutto, l'incapacità di tirare una lezione feconda anche dagli insuccessi.

Come scriveva «Il Soviet» del 2 maggio (1), un movimento di quella natura, violenza ed estensione, non poteva sorgere «per capric­cio» di pochi uomini, secondo la versione di dirigenti politici e sindacali sempre pronti ad attribuire alla «indisciplina» altrui ogni fiammata di lotta di classe della cui imminenza avrebbero avuto «il dovere di accor­gersi, e provvedere in tempo», e che, in realtà, temevano più che il diavolo non tema l'acqua santa proprio per il terrore che, sfuggendo al loro controllo, uscissero dai comodi binari della routine legalitaria e pacifista. Esso traeva origine da una situazione obiettiva: «il maggior grado di sviluppo capitalistico dell’industrialismo torinese e la netta ed aspra posizione della lotta di classe», cui dava ulteriore alimento, esasperandola, la controffensiva padronale rivolta a distruggere le con­quiste di un orario di lavoro, di un salario, e di condizioni di vita, meno pidocchiosi e a smantellare e ricondurre all’ordine quelle com­missioni interne e quei commissari di reparto nei quali la Confindustria vedeva lo spettro incombente di un «secondo potere» nelle officine, e che erano stati, nella carenza o nella passività degli organi sindacali centrali e malgrado saltuari cedimenti, le punte avanzate dell’azione di difesa economica degli operai (2).

Una prova di forza era in ogni caso nell’aria, anche perché, oltre ai metalmeccanici, erano in agitazione in Piemonte cartai, sarti, calzaturieri, lavoratori agricoli.

Il 22 marzo, gli operai di uno stabilimento FIAT, le Industrie Metallurgiche, iniziano lo sciopero bianco contro il licenziamento della CI che, rendendosi interprete di uno stato d'animo diffuso, ha ri­sposto al decreto governativo di introduzione dell’ora legale - che agli operai ricorda gli odiosi anni di guerra con la disciplina implacabile di cui, specialmente alla FIAT, avevano sopportato il peso - spo­stando sull’ora solare le lancette degli orologi in fabbrica (3): contem­poraneamente, alle Acciaierie FIAT i lavoratori incrociano le brac­cia contro il rifiuto di rimborsare ai componenti la CI le ore per­dute nell’esercizio delle loro funzioni. Nel primo caso, gli scioperanti vengono scacciati dalla polizia il 25; nel secondo, il 23, trovano chiusi i cancelli della fabbrica (4). Il 26, il comitato esecutivo della sezione torinese della FIOM, consultati i commissari di reparto (che erano in numero di  1 ogni 30 operai), proclama lo sciopero bianco nelle 44 officine meccaniche. Folti reparti della polizia e dell’esercito presidiano Torino dal 29 marzo, mentre gli industriali formano comitati - Ame­rica docet! - di «difesa civica», e chiudono gli stabilimenti... ri­belli.

L'agitazione, che per quasi un mese tiene col fiato sospeso non solo il Piemonte ma tutta la penisola, si svolge in due tempi. Nel pri­mo, che dura fino al 14 aprile, gli «scioperi interni» si intrecciano a trattative convulse tra la FIOM da un lato e le rappresentanze padronali dall’altra, e qui si dimostra come l'organizzazione sindacale, presa in contropiede dall’iniziativa delle commissioni interne e ad essa so­stanzialmente avversa (il pretesto, tanto più sottile e gesuitico in quanto formalmente legittimo, è che la questione investe l'intero proletariato italiano, non può risolversi localmente), ma costretta suo malgrado ad assumersi la salvaguardia degli interessi degli operai e dello stesso prin­cipio della libertà di organizzazione economica, lo faccia tuttavia su posizioni non solo flebilmente difensive e legalistiche, ma sempre più capitolarde  che  incoraggiano  l'offensiva  della  «controparte»  invece di disarmarla. A sua volta, cosciente sia di aver le spalle al sicuro per la ferma decisione del governo d'impedire l'estendersi a macchia d'olio di un movimento che nel clima arroventato degli inizi di prima­vera trova mille ragioni per assumere valore esemplare, sia di poter contare sulla remissività confederale di fronte al pugno di ferro, e sulla istintiva diffidenza dei bonzi per le impennate - oggi si direbbe «a gatto selvaggio» - di una categoria già splendidamente distintasi nel maggio '15 e nell’agosto '17, e nelle cui file non invano la sezione socialista aveva gettato i semi di un'opera di «organizzazione e propa­ganda» che proprio «Il Soviet» definiva «meravigliosa» per inten­sità e fermezza, il padronato punta rabbiosamente i piedi e, a poco a poco, respinge su posizioni sempre più concilianti - malgrado la resi­stenza di operai semplici e di commissari di reparto tratti dal loro seno - la più che molle FIOM e il suo capo supremo Buozzi.

In realtà, mentre il proletariato freme e perfino le categorie mino­ri e impiegatizie (i tecnici, al solito, si proclamano «neutrali») danno segni non equivoci di solidarietà verso gli scioperanti, i «serrati» e i sospesi dal lavoro, il «fronte» confederale passo passo arretra; ri­solta bene o male la vertenza alle Industrie Metallurgiche, il verbale di accordo stilato dalla FIOM il 2 aprile sera non solo dà partita vinta ai padroni in materia di... lancette e di non-corresponsione del salario per le ore di lavoro «perdute», ma statuisce per le Acciaierie che «gli uomini che dovranno comporre la nuova CI  [la vecchia è stata costretta a dimettersi] siano richiamati al loro compito [...] di tutelare gli interessi degli operai in rapporto all’esecuzione dei contratti di lavoro secondo i concordati e il regolamento vigente» (niente, dun­que, iniziative autonome a vasto respiro, né «colpi di testa»), limi­tandosi a chiedere alla FIAT di accordare alla CI «le facilitazioni che quelle delle altre sezioni hanno» e di rinunziare al risarcimento danni per la fermata del 27-29 e la serrata dal 30 in poi.

Di rimbalzo, gli industriali respingono la bozza d'accordo esigen­do, invece delle gravi sanzioni previste in origine, l'applicazione di multe pari a 6 ore di lavoro per i responsabili del primo atto di indi­sciplina - il peccato originale! - e pari a due ore di lavoro per tutti gli altri scioperanti, l'aperta sconfessione da parte della FIOM dei promotori del moto contro l'ora legale («se gli operai delle Acciaierie - essi dicono, come si legge nell’«Avanti!» edizione torinese del 4 - avessero chiesto l'intervento della FIOM, le loro richieste si sarebbero collocate nella giusta sede e si sarebbe evitata la sospensione»), il ri­torno a un severo regime «di regolamento» in fabbrica (5).

Una ripresa delle trattative non è però esclusa, malgrado il conclamato rifiuto della FIOM di sottoscrivere misure punitive a carico degli operai: che diavolo, il prefetto si è dichiarato pronto a interporre i suoi buoni uffici! E lo stato d'animo nel quale gli alti papaveri della FIOM si preparano a sedersi al tavolo del negoziato non ha neppure lo scrupolo di circondarsi di veli: l'articolo in cui l'«Avanti!» ed. torinese del 4.IV commenta la «vertenza dei metallurgici», accusa gli industriali di «cocciutaggine insulsa» di fronte alla «continua dimostrazione di spirito conciliativo e di volontà pacificatrice» data da un'organizza­zione operaia che ha pure la forza di riconoscere e correggere gli erro­ri e i «torti» dei suoi iscritti: «insistendo nel chiedere una multa anche oggi dopo che l'organizzazione ha offerto come riparazione [!!] tutto quanto da essa si poteva pretendere, gli industriali chiedono un doppio castigo, chiedono una umiliazione; non possono ricevere altro che ripulse!». In realtà, le «ripulse» non ci sono se non tardivamente e ob torto collo: la sola accettazione di un rinvio della decisione di sciopero in risposta al no padronale e di un nuovo round di trattative in prefettura equivale di fatto a una prima Canossa; gli industriali abilmente rinunciano alle punizioni a carico degli operai che hanno scioperato per solidarietà, ma insistono che queste vengano applicate alle Acciaierie, se pure in misura ridotta, «onde riaffermare la validità del regolamento» e nella chiara consapevolezza che in tal modo si terrà aperta la porta ad uno scontro sul problema non tanto dell’esi­stenza, quanto delle attribuzioni delle commissioni interne, di fabbrica e di reparto, e sui Consigli; infatti, quando l'8 i commissari di reparto respingono le nuove proposte di accordo (lesive degli interessi degli operai delle Acciaierie, se non completamente di quelli degli altri sta­bilimenti), gli organi direttivi confederali non decidono essi lo scio­pero, ma affidano ogni decisione al responso di un referendum - mez­zo provatamente efficacissimo per fiaccare la volontà di lotta collettiva delle masse appellandosi alla coscienza individuale dell’operaio esposto a mille sollecitazioni contrarie, provenienti non solo dalla contingenza con tutte le sue perplessità e le sue angosce, ma anche dal passato, dal peso bruto dell’ideologia avversaria metodicamente istillata nel cer­vello e nel cuore dei proletari - e, ottenuta una maggioranza anti­sciopero, gli stessi commissari di reparto e le commissioni interne piegano il capo deliberando «di uniformarsi alla volontà della massa la sola sovrana in qualsiasi deliberazione [!!!]» (santa democrazia: non era sovrana la massa, dieci giorni prima, quando aveva agito incrocian­do le braccia; lo è ora che, dopo aver riflettuto testa per testa, accetta a conti fatti di offrire nuovamente le braccia all’uso che vorrà farne il capitale!), e di rimanere al loro posto di lotta «conformemente al principio fondamentale in base al quale furono creati i consigli di fabbrica» un principio evidentemente ultrademocratico, cioè non di guida, ma di subordinazione al sacro e inviolabile dettato della scheda, neppure alle elezioni o in parlamento, ma nei conflitti sociali!

I cedimenti al feticcio della democrazia si pagano. Dopo aver dato «per 15 giorni prova non solo di remissività e moderazione che ad alcuni poterono sembrare eccessive, ma di conservare la completa padronanza di sé» («Avanti!» ed. torinese del 13 aprile), gli operai si accorgono che gli industriali vanno in cerca di ben altro che di soddi­sfazione a richieste marginali, ma sono (sono sempre stati) decisi a portare la vertenza sul loro terreno, quello dello smantellamento pro­gressivo delle commissioni interne e dei consigli di officina; al momento della firma di un primo accordo a conclusione dell’ottenuta ripresa del lavoro, eccoli risfoderare prima l'annosa «questione del regolamento», delle «norme disciplinatrici precise» da introdurre per evitare «i va e vieni degli operai alla ricerca dei loro commissari e delle CI» e, subito dopo, presentare uno schema di procedura in base al quale (ci­tiamo ancora l'«Avanti!») «gli operai non potranno venire a contatto con la CI che in ore fuori dell’orario di lavoro, giudici naturali di tutte le vertenze saranno i capi-reparto e i capi-officina eletti dai padroni, e ad essi pure spetterà di giudicare i casi nei quali gli operai possono rivolgersi ai loro rappresentanti» (fra i quali non sono neppure nomi­nati i fiduciari della CI). Non resta ai delegati operai che respingere in blocco le proposte degli imprenditori: detto fatto, questi tengono chiuse le porte delle officine sui tetti delle quali «vegliano ancora le mitragliatrici puntate».

Sembrerebbe che si sia giunti ad una svolta, ed è certo che i pro­letari subito concentratisi nella Camera del Lavoro ardono dalla vo­lontà «di resistere alla nuova provocazione». Ma alla svolta non si è ancora. In una lettera agli avversari, «gli enti direttivi dell’agitazione» dicono bensì apertamente che, «dati gli accordi e le consuetudini vi­genti nei diversi stabilimenti della città e data la situazione generale del paese, le norme proposte in merito al disciplinamento della CI sono ri­tenute assolutamente inapplicabili», e «il consiglio della FIOM non può autorizzare nessuno a firmarle perché sa di non poterle far ri­spettare, in quanto menomano accordi e consuetudini vigenti»; ma, dopo questa dichiarazione già di per sé timida e difensiva, non si spin­gono oltre il declino di «ogni responsabilità per la prolungata chiu­sura degli stabilimenti e per tutti gli eventuali incidenti e complica­zioni che essa può provocare». La risposta confindustriale è pronta quanto sottile: si rinvii il dibattito sul disciplinamento della CI, lo si discuta e risolva entro 15 giorni, e, scaduto il termine, si applichino «i regolamenti vigenti» così «chiari» che le due parti possono interpretarli in modo non solo diverso, ma antitetico! La delegazione operaia, che ha notizia della dichiarazione suddetta alla presenza di Sua Maestà il Prefetto, «si riserva completa libertà di azione in caso di mancato accordo»; solo il 13 sera, dopo nuovi tentativi di riaprire il discorso, FIOM, Camera del Lavoro, Comitato di agitazione, Sezione socialista decidono finalmente di proclamare lo sciopero generale a tempo indeterminato. Complici le «supreme assisi» sindacali, il padro­nato ha ottenuto che si perda un tempo prezioso in trattative ed attese sfibranti: alla fine, malgrado la splendida combattività dei lavoratori, potrà a buon diritto cantare vittoria!

L'ordine del giorno del Consiglio generale delle Leghe pone come obiettivo della lotta: 1) la risoluzione totale delle vertenze di catego­ria già in corso, 2) il riconoscimento di «organismi di officina per il disciplinamento autonomo della massa e il controllo della produzione», e così formula la delibera di sciopero generale (6):

 

«Ritenuto che è evidente da parte della Lega industriale l'intenzione di attentare alle CI impedendo l'ulteriore sviluppo di questi organismi, che spe­cialmente in questi ultimi tempi si sono dimostrati di valido ausilio all’opera dell’organizzazione di classe, e atti a diventare strumenti di nuove conquiste, consi­derato inoltre che le proposte avanzate dagli industriali tendono a revocare e a menomare patti regolarmente concordati e consuetudini vigenti conquistate con aspre lotte, afferma che la lotta non può fare a meno di interessare tutte le ca­tegorie di lavoratori per le quali la sconfitta dei metallurgici segnerebbe certa­mente un grave passo indietro; delibera lo sciopero generale in Torino e provincia dal 13 fino alla completa soluzione della vertenza locale in corso» (si tengano presenti, per capir meglio il seguito, i termini del comunicato).

 

Lo sciopero generale  assume immediatamente un carattere di globalità e compattezza: tutte le officine, il servizio tranviario e postale, il compartimento ferroviario, gli uffici e i servizi comunali (compresi i vigili, i dazieri, i maestri, i bidelli, il corpo dei pompieri, sospendono il lavoro; tutta la città è ferma; la truppa cinge d'assedio la CdL am­mettendovi solo i dirigenti; la polizia carica assembramenti e comizi, che tuttavia si svolgono imperturbati nei rioni operai; rapidamente lo sciopero si estende in provincia; solo l'intervento dei militari permette in parte l'attivazione del traffico ferroviario per Roma e Milano; e, mentre gli arresti si susseguono, la più ferma azione viene attuata nei confronti dei crumiri, con particolare riguardo ai tipografi dei quoti­diani borghesi. Il 16 entrano in sciopero generale Asti, Pinerolo, Casale Monferrato, Chivasso, Santhià; il 17, i grandi centri lanieri del Bielle­se; il 18, Novara e Vercelli - dove l'agitazione coinvolge anche i sala­nati agricoli - Alessandria e i nuclei industriali della Val d'Aosta; il 19, Pavia e in particolare la Lomellina. Il 21 incrociano le braccia i ferrovieri di Voghera e Novi; il 22 quelli di Bra; nei giorni prece­denti, quelli del compartimento di Livorno hanno già impedito a treni carichi di truppa di proseguire per Torino; scioperi sono stati proclamati allo stesso scopo a Firenze, Pisa, Lucca, Bologna, mentre a Genova i marittimi bloccano la Caio Duilio ai cui servizi il governo è ricorso per un tentativo di trasporto dei contingenti impossibilitati di servirsi della ferrovia. Si calcola che non meno di 20.000 uomini delle diverse forze d'ordine - carabinieri, guardie regie, polizia, esercito - presidino in assetto di guerra il capoluogo piemontese, e che, d'altra parte, il numero degli scioperanti in tutta la regione raggiunga e probabil­mente superi, al vertice dell’agitazione, i 500.000.

Dal giugno 1919, non si era mai assistito a un'ondata di scioperi così estesa e compatta;  mai lo spiegamento dell’apparato repressivo dello stato aveva toccato punte così elevate, né i suoi movimenti si erano mai scontrati in un così vigoroso sabotaggio da parte degli ad­detti ai trasporti di terra e di mare; mai la situazione era apparsa così pericolosamente ai confini della guerra civile. La posizione ai vertici del movimento si era, rispetto alla prima fase, capovolta: il 14 aprile, la direzione dello sciopero generale era stata assunta da un Comitato di agitazione eletto dalla CE della Camera del Lavoro e dalla Sezione e Federazione provinciale socialista; da esso emanava il bollettino gior­naliero Lavoratori, avanti!, in pratica unico organo di stampa in circo­lazione, cinghia di trasmissione degli ordini e dei comunicati di infor­mazione e di battaglia, strumento di impostazione non soltanto sinda­cale ma politica: la sezione della FIOM, responsabile delle tergiversa­zioni del primo mezzo mese di vertenza, ne era rimasta irrevocabil­mente esautorata. L'opera del Comitato, pur nei suoi limiti politici, è d'altra parte esemplare; il suo sforzo di imprimere al movimento la massima estensione e diffondere in tutti gli operai la coscienza della posta in gioco, meritorio; la sua fermezza, degna delle più recenti tradizioni di combattività del proletariato torinese e piemontese, delle città non meno che delle campagne.

E tuttavia, la grande fiammata è fin dall’inizio condannata a spe­gnersi. Gli uomini che compongono il comitato, e che non risparmiano nulla per dare allo sciopero un polso fermo e sicuro, sono in gran parte gli stessi che da Bologna in poi hanno eluso il problema di una direzione generale di classe del proletariato e continueranno ad eluderlo malgrado la dolorosa esperienza di quei giorni: eccoli, ora, tragicamente prigio­nieri e di un partito dalla cui maggioranza non hanno voluto né vo­gliono scindersi, e di una CGL che riflette sia l'impotenza del massimalismo, sia l'arrogante indisciplina della destra, e all’interno della quale essi non hanno mai voluto muovere battaglia giudicandola superata da organi periferici ritenuti intrinsecamente rivoluzionari perché «ade­renti alla produzione» (padri, anche in questo, del velleitarismo con­siliare dei mille «scopritori» odierni di «vie nuove» alla rivoluzione); sono vittime del proprio «localismo», di una fiducia astratta nella possibilità di risolvere lo scottante problema di una guida classista del proletariato italiano con gli exploits di generoso ma sprovveduto volon­tarismo di uomini e gruppi ancorati in una situazione bensì di avan­guardia, ma fatalmente circoscritta, e dell’incapacità di comprendere che moti del genere - all’insegna del controllo della produzione, del potere in fabbrica ecc. - o si proclamano con la forza di portarli fino al limite di uno scontro frontale con l'avversario, o si risolvono in una rovinosa disfatta.

Invano, fin dal primo comunicato del 14 aprile, nel comminare severe misure punitive contro le categorie e i lavoratori che non aderi­scono allo sciopero, e nel disporre che nelle sedi delle CdL succursali si costituiscano «sottocomitati d'organizzazione d'accordo fra le organizzazioni economiche e politiche», essi fanno appello alla CGL e alla direzione del Partito «affinché vogliano intervenire in questa lotta che non ha carattere e portata locale, ma è di interesse generale, poiché investe questioni di principio e [...] può essere l'inizio di un più vasto e nazionale movimento»; invano, in reiterati appelli, sottolineano che «i proletari torinesi sono un esercito rosso assediato dalle forze controrivoluzionarie»; invano commissari di reparto, od altri portavoce della «base», chiedono loro di influire «nel modo più espressivo sugli Enti massimi, perché [...] venga proclamato in tutta la nazione lo sciopero generale»: la CGL e la direzione del PSI non ritengono di dover  esprimere  solidarietà  attiva né per  i  contenuti  economico-­normativi dello sciopero, né per i suoi protagonisti impegnati in una dura lotta contro lo schieramento delle forze dell’ordine nel quadro di una situazione generale che consiglia bensì di evitare i colpi di testa, ma offre tutti gli elementi propizi ad un'azione concertata su scala nazionale. In un incontro avvenuto il 20 aprile (come riferisce il bollettino n. 7) i due rappresentanti degli «Enti supremi», quello politico e quello sindacale, si limitano a «dichiarare esplicitamente che non sarà permesso a nessun costo lo schiacciamento delle organizzazioni dei lavoratori se questa intenzione degli industriali si traducesse in un tentativo di attuazione» (quasi che lo sciopero non avesse tratto origine proprio da questa intenzione!) e... se ne lavano le mani. I membri del comitato - disperatamente soli - si vedono costretti a sguinzagliarsi non solo nel Piemonte ma nelle zone limitrofe per incitare alla lotta proletari che gli organi di stampa del partito infor­mano sulle condizioni di Torino rossa, i dirigenti sindacali si curano, quanto meno, di chiamare a una stretta vigilanza (l'«Avanti!» mila­nese non reca che pallide notizie di cronaca...), e cercano solidarietà, e la direzione politica di cui mancano, negli ambienti più diversi - anarchici, anarcosindacalisti ecc. - fuori da una seria valutazione delle forze in gioco e del loro necessario schieramento e così alimentando o favorendo illusioni insurrezionali a sfondo avventuroso - e avven­turistico.

Il muro contro il quale, in lunghe riunioni tenute nel capoluogo in febbraio e marzo, la Frazione astensionista aveva avvertito i teorici della «conquista di un nuovo potere nella fabbrica» che si sarebbe andati a sbattere - il doppio muro dello stato centrale e dell’oppor­tunismo - si erge ora in tutta la sua tracotanza di fronte ai generosi salariati; su di esso l'onda impetuosa del movimento finirà per spez­zarsi. E prima ancora, in piena lotta, i proletari dovranno assistere smarriti alla polemica fra i dirigenti torinesi che accusano partito e confederazione di non aver voluto estendere lo sciopero, e questi che li controaccusano di essersi lanciati in un'iniziativa di tale portata senza aver preso accordi preventivi. Come dirà «Il Soviet» del 2 mag­gio, bisognava schierarsi prima, cioè in tempo! con chi voleva la scis­sione e la fine delle degenerazioni elettorali e corporativistiche del movimento proletario: adesso, era troppo tardi...

Certo, per noi l'assenteismo degli organi centrali era colpa ben più grave delle mosse infelici dei torinesi nelle tragiche circostanze in cui erano venuti a cacciarsi; ad essi risale la responsabilità prima del fallimento dello sciopero. Resta però il fatto che tutto il movimento mostrò fin dall’inizio tutte le tare di confusione ideologica e di su­perficiale intemperanza nel giudizio della situazione obiettiva, proprie di gruppi di formazione non marxista. Gli ordinovisti in particolare si buttarono a capofitto in un movimento con troppa leggerezza definito «insurrezionale» (parole di Terracini al Consiglio nazionale del 18-22 aprile, ma corse in quei giorni sulle labbra un po' di tutti) e al quale - se tale davvero fosse stato - erano materialmente e politicamente impreparati (e non potevano non esserlo, data la loro sudditanza alla politica generale del PSI) col duplice effetto di fornire al governo una comoda esca per il ricorso a misure repressive estreme, e ai bonzi confederali un facile pretesto non solo per disinteressarsi dello sciopero, ma addirittura per denunciarlo; e col risultato ultimo di ripiegare bruscamente sulla formula della difesa degli... interessi nazionali, scia­guratamente anticipatrice dell’odierno programma di «riforme di strut­tura» in nome e per il bene della produzione... in pericolo!

In realtà, lo sciopero, che traeva la sua giustificazione dalla difesa di istituti economici e di rivendicazioni sindacali di inequivocabile chiarezza, venne subito incanalato sui binari prediletti dall’ «Ordine Nuovo» e dal Comitato di studi sui consigli di fabbrica (7) da esso ema­nante e incautamente fatti propri almeno in parte - come lamenterà «Il Soviet» - dagli stessi astensionisti torinesi:  quello del «controllo della produzione». Ma le parole, e a maggior ragione le parole d'ordine, non si buttano al vento: la tendenza proletaria alla conquista del «controllo», che il proletariato eserciterà soltanto dopo la conquista del potere (e lo eserciterà centralmente, in funzione di interessi e fina­lità generali; non localmente, in funzione di obiettivi aziendali) si può certo utilizzare in periodo prerivoluzionario per mobilitare la massa operaia «dirigendola contro il bersaglio centrale, il potere di stato del capitalismo» (8) - e solo così ne prospettano l'impiego le tesi del II Congresso di Mosca, oh «storici» che pretendete di trovare una divergenza di fondo fra esse e la nostra posizione, e una loro con­vergenza, viceversa, con la posizione degli ordinovisti! - mai come indicazione di «conquiste intermedie», o, peggio ancora, come riven­dicazione di un «potere in fabbrica» da realizzarsi entro il regime del capitale in una prospettiva chiaramente riformista, anche se fatta passare con somma leggerezza per rivoluzionaria! Su questo piano si sarà sempre e necessariamente battuti, sia che la classe avversa, senten­dosi più o meno sicura per esserle i rapporti di forza ridivenuti tem­poraneamente favorevoli, punti i piedi nella ferma decisione di scorag­giare o addirittura reprimere qualunque moto operaio, foss'anche pura­mente rivendicativo (come appunto nell’aprile 1920), sia che, ormai tranquilla, tenti l'abile manovra di farsi essa stessa promotrice di un «controllo» che sa di contenuto innocuo e di effetto paralizzante per l'azione della classe lavoratrice (come in settembre durante l'occupa­zione delle fabbriche); peggio ancora - ma questo i teorici dell’op­portunismo non lo capiranno mai,, se lo capissero, cambierebbero strada - si sarà sconfitti perché non si lascerà nelle file operaie neppure il seme, fecondo anche nella disfatta, di una più chiara visione del fine cui tendere e della traccia sulla quale avviarsi per raggiungerlo. Buttandosi - nella peggiore impreparazione teorica e pratica - nell’esperimento dei consigli come «organi di potere» (l'opportunismo si risolve sempre, poco importa la buona fede di chi lo pratica, in uno sperimentalismo condotto sulla pelle degli sfruttati), gli uomini cre­sciuti nell’atmosfera ordinovista ottennero solo di aggiungere alla già critica situazione in cui versava il movimento un nuovo fattore di insuccesso e confusione.

Gli «storici» dernier cri, la cui missione ben retribuita è di de­formare la storia dell’Ottobre rosso e della III Internazionale per giustificarne il cinquantennale tradimento, hanno mille ragioni di crogiolarsi nella rievocazione delle parole d'ordine via via lanciate dai dirigenti del poderoso sciopero: esse contengono in nuce l'immonda degradazione del movimento proletario mondiale, anche nei suoi aspetti più modestamente economici, a pura «forza d'ordine», riformatrice anziché demolitrice del sistema, democratica anziché demistificatrice di ogni finzione democratica, e infine, per somma vergogna, compiaciuta-mente «nazionale». Possono gioirne anche gli scopritori del «nuovo» prosperanti nei mille gruppetti nati la sera e ben morti la mattina: esse sono le venerabili antenate del loro illusionismo «consiliare». Quanto ai marxisti, essi possono leggere solo con un fremito di rivolta le dichiarazioni e gli slogan di cui, per dovere non di scrupolosità storio­grafica ma di battaglia politica, siamo costretti a dare un pallido florilegio a completamento della cronaca di quei giorni tuttavia ardenti.

Nel Lavoratori, avanti! del 15 aprile si parlava ancora timidamente di «quell’embrione di potere che nella fabbrica stava sorgendo  in contrapposto al potere degli industriali» (ed era già una stortura); in quello del 16.1V, il Comitato d'agitazione pubblica il seguente manifesto di cui sottolineiamo le frasi più tipicamente «ordinoviste», le più lontane da una corretta impostazione marxista, le più immediatiste e interclassiste, in cui l'«embrione di potere» è già divenuto «potere tout court»:

 

«Lavoratori!. Gli industriali, dopo aver tergiversato per 15 giorni, si sono decisi a gettare la maschera e a porre in campo la questione delle CI. Le Orga­nizzazioni Operaie non potevano non raccogliere la sfida. La lotta ha raggiunto oggi la più vasta estensione e dovrà proseguire fino alla vittoria, perché la questio­ne è ormai fondamentale per lo sviluppo del movimento operaio. Tutti i piccoli incidenti originati della vertenza sono superati, la battaglia è oggi su questo terreno: se nelle fabbriche e nei campi possa sorgere liberamente e svilupparsi il po­tere dei produttori, se i contadini, gli operai, gli impiegati, i tecnici, possano avere oggi, sui modi e sui fini della produzione, almeno tanto potere quanto ne ha il capitalista, che delle fabbriche e della terra conosce solo la rendita che dal lavoro altrui egli ricava. Noi affermiamo che la produzione oggi non può essere la­sciata all’arbitrio dei capitalisti. L'esperimento della strage mondiale ha dimostrato quali conseguenze derivino dal loro strapotere. Le CI sono gli organismi in em­brione del nuovo potere dei produttori. Gli industriali vogliono schiacciare le CI. I lavoratori le vogliono difendere, e soprattutto vogliono creare intorno ad esse un ambiente nel quale un loro ulteriore sviluppo sia possibile fino al giorno in cui nuove forme di convivenza sociale saranno stabilite...».

 

Ancora il nr. 1, cercando di spiegare all’ «uomo della strada» il significato dello sciopero, non si limita a dichiarare che «senza le Commissioni Interne [...] non è possibile che la produzione si svolga in modo normale ed intenso»  (viva  lo...  stakhanovismo!),  giacché «l'operaio cadrebbe al livello di un bruto, in balia di un'autorità lon­tana ed irraggiungibile, che freddamente e automaticamente lo stritola e lo uccide»; non si limita a vantare il successo delle «CI coadiuvate dai commissari di reparto» nel «rimettere un po' d'ordine» nella con­fusione creata dal moltiplicarsi delle «fermate nel lavoro» e degli «arresti nella produzione» nel complesso meccanismo della fabbrica moderna, facendo «cessare le fermate impulsive» e migliorando «l'am­biente industriale»; ma proclama con fierezza che gli operai torinesi «con lo sciopero generale difendono l'economia nazionale aggredita dai plutocrati, dai nuovi ricchi, dagli affaristi della Banca e della Borsa [...]; difendono la libertà del popolo lavoratore contro i capitalisti che hanno rovinato l'Italia e la stanno consegnando mani e piedi legati alla Banca e al capitale straniero» (non sembra di essere nel 1946-72, con l'ormai rituale identificazione tra gli interessi di vita e di lavoro degli operai e la difesa della patria e della sua economia contro «i monopoli» in­terni ed esteri?).

Il bollettino n, 5 del 19 aprile spiega «il fondamento dell’agita­zione» in termini degni dei riformisti della destra politica e della CGL allora ed oggi:

«Gli operai non vogliono l'istituzione del caos ma vogliono nelle officine e nei campi un ordine nuovo fondato sul potere del produttore. Essi vogliono par­tecipare alla direzione della produzione: oggi possono anche accontentarsi di una partecipazione, domani potranno anche imporre che tutte e solo le categorie dei produttori abbiano nelle mani il potere economico» (non diversamente, i rifor­misti presentavano la conquista dei... comuni come l'assunzione di una fetta di «potere» o come la «partecipazione» - solo partecipazione, per ora - ad esso!).

E nel nr. 6 del 20.IV, rallegrandosi delle manifestazioni di solida­rietà avvenute in tutto il Piemonte e fuori, e rivolgendo un estremo appello alla direzione del Partito e alla CGL perché estendano il mo­vimento, il Comitato di agitazione vincola addirittura alla famosa con­quista del «potere in fabbrica» le sorti della classe proletaria:

 

«Sono in gioco le conquiste di anni ed anni di lavoro, di cento battaglie, di sacrifici inauditi; sono in gioco l'avvenire del proletariato, tutte le speranze, tutte le possibilità di emancipazione».

 

Di giorno in giorno, sono questi i chiodi battuti e ribattuti; e valga, per concludere, il seguente manifesto «alla massa operaia e al contadino d'Italia» lanciato dal Comitato di studio, che, se ben descrive lo stato d'assedio da cui è cinta Torino e fa energicamente appello all’azione congiunta dei lavoratori delle città e dei campi come sola garanzia di vittoria contro il potere di stato, ricade poi nel fu­moso idealismo del «governo della fabbrica» facendone, come con­quista nazionale, un'arma da contrapporre al... cieco disordine e all’anti-patriottico... disinteresse per la produzione di cui darebbero prova i capitalisti unicamente interessati al profitto!

 

Alla massa operaia e al contadino d'Italia!

 

«Da venti giorni gli operai metallurgici torinesi sono in sciopero: da sei giorni tutta la massa operaia torinese è in sciopero per sostenere la lotta impegnata dai me­tallurgici. L'agitazione dalla città è irresistibilmente dilagata nella provincia, nell’in­tera regione piemontese; tutti i mestieri, tutte le industrie, tutta la massa delle centinaia e centinaia di migliaia di operai e contadini piemontesi hanno abban­donato il lavoro e hanno immobilizzato la macchina del potere di Stato borghese. Da un mese e mezzo il governo borghese, al servizio della Confederazione Gene­rale dell’industria italiana, addensava a Torino migliaia di guardie regie, di cara­binieri, di arditi, attrezzati per un'operazione bellica in grande stile. Venivano co­stituiti depositi d'armi per i borghesi, si costruirono nidi di mitragliatrici nelle chiese e nei palazzi, le autoblindate furono tenute sotto pressione, le colline domi­nanti la città furono armate di artiglieria, intere brigate furono trasportate dalla zona di armistizio e accampate attorno a Torino. Essendo così riusciti ad asser­ragliare la classe operaia torinese in un sistema di stato d'assedio rinforzato, gli industriali scatenarono l'offensiva contro i metallurgici; essi volevano schiacciare di un colpo solo Io spirito rivoluzionario delle masse, volevano umiliarle, rove­sciarle a terra, mettere loro il ginocchio sul petto, costringerle a rientrare in offi­cina con la testa bassa, come una mandria di schiavi frustati dal negriero... La solidarietà della classe operaia e contadina di tutto il Piemonte ha sabotato la macchina reazionaria preparata dagli industriali e dal loro potere di stato borghe­se:  dalle officine, dai campi, le armate rosse del proletariato sono insorte per difendere i loro fratelli torinesi, per affermare che la potenza operaia e contadina è superiore al potere di stato capitalista. Oggi tutto il Piemonte è in movimento, ma perché la battaglia sia vinta ciò non basta. La classe operaia torinese non si è impegnata nella lotta per una questione di orario e di salario; è in gioco un istituto rivoluzionario, quello delle Commissioni di reparto e dei Consigli di Fab­brica, che non interessa solo la categoria locale, ma interessa tutto il proletariato comunista italiano. La lotta non può risolversi favorevolmente alla classe operaia e contadina se tutte e due non si impegnano nella lotta, se non affermano la loro potenza contro la classe proprietaria e il potere di stato borghesi.

«Compagni operai e contadini: a Torino gli operai industriali difendono il principio che il governo della fabbrica deve essere in mano alla classe operaia, il principio che l'ordine del lavoro e della produzione deve essere controllato dai produttori (operai manuali, tecnici, intellettuali). Nel Novarese i contadini poveri difendono gli stessi principi nella produzione agricola. La protervia dei capita­listi industriali ha già determinato una perdita secca di centinaia di milioni che, essendo rappresentati da produzione destinata all’estero, provocherà inasprimento dei cambi, aumento della carestia, miseria e fame per il proletariato italiano. La protervia dei proprietari terrieri ha già compromesso il raccolto del riso, e uccide quotidianamente oltre duecento capi di bestiame bovino. Industriali e terrieri vo­gliono, per salvare il loro potere sulla produzione e sulla macchina statale, gettare tutto il popolo lavoratore italiano nella disoccupazione e nella carestia, vogliono prendere alla gola l'operaio industriale e il contadino povero con la mano ossu­ta della fame e costringerli ad un lavoro di 12-14 ore quotidiane per continuare ad incassare i profitti di guerra, per continuare ad essere i signori della vita e della morte delle moltitudini lavoratrici. Solo contrapponendo la forza di tutta la classe operaia e contadina a questo scatenamento di selvaggio desiderio di profitto e di potere, il proletariato uscirà vittorioso dalla lotta gigantesca e segnerà una delle tappe importanti nel cammino della sua emancipazione, nel cammino aspro e difficile della Rivoluzione sociale».

 

Intanto la fiammata dava però gli ultimi guizzi - e in condi­zioni che per la classe operaia, malgrado le apparenze, non erano più, non diciamo di forza, ma neppure di esile vantaggio. Le trattative con la Lega Industriali erano state iniziate fin dal 15 da un'apposita commissione operaia in base ai seguenti «capisaldi» (si era appena all’inizio dello sciopero, e le ambiziose mire del suo comitato di agitazione non erano ancora ben definite):

 

«1) Ogni stabilimento industriale deve riconoscere una Commissione interna del proprio personale.

2) Le CI saranno nominate nei modi che verranno sta­biliti dalle organizzazioni operaie, le quali comunicheranno alle direzioni (che dovranno prenderne atto) i nomi degli eletti.

3) Proporzionalmente all’importanza degli stabilimenti e al lavoro che le CI devono soddisfare, previo accordo con le singole direzioni, uno o più membri delle commissioni stesse per una o più ore al giorno o a giorni fissi, a seconda delle necessità, dovranno rimanere a dispo­sizione degli operai durante le ore di lavoro.

4) I membri delle CI, durante le ore in cui resteranno fuori dal posto di lavoro, verranno retribuiti in misura eguale a quanto guadagnano normalmente.

5) Gli operai durante le ore di lavoro potranno recarsi a conferire con i membri delle CI previo regolare permesso del loro capo reparto.

6) Le vertenze degli stabilimenti metallurgici si intendono risolute con la risoluzione dello sciopero generale. Gli industriali rinunciano alle richieste punizioni. Gli operai rinunciano ad ogni richiesta di pagamento di giornata di serrata e di sciopero.

7) Riammissione di tutti gli scioperanti (operai, impie­gati; addetti al commercio, ai servizi pubblici, ecc. di ruolo od avventizi) senza punizioni o rappresaglie.

8) Rilascio degli arrestati».

 

L'indomani, la «controparte» risponde chiedendo che la discus­sione venga limitata alla vertenza dei metallurgici e condotta con «l'in­tervento dei massimi organismi nazionali - Confederazione Generale dell’Industria, Confederazione Generale del Lavoro, Federazione degli Industriali Metallurgici»; e ottiene bensì in risposta l'energico rifiuto di circoscrivere ad una sola categoria una trattativa che non poteva ignorare l'entrata in lotta di tutte le altre, d'altronde già impegnate in vertenze di vario contenuto (i calzaturieri chiedevano le ferie pagate, la revisione periodica dell’indennità caroviveri, la soluzione dell’annoso problema di arretrati mai corrisposti; i ferrovieri l'allontanamento dei commissari dalle stazioni, e così via), ma anche il rifiuto, in verità con­traddittorio rispetto alle proclamazioni originarie sebbene dettato da giusta diffidenza verso gli «enti supremi», di trasferire sul piano nazionale il dibattito su questioni di origine provinciale o al massimo regionale. Quando, il 17, gli industriali pongono crudamente il dilemma: discutere delle funzioni e del regolamento delle CI in base alla piatta­forma già elaborata dalla FIOM, ; discutere dei consigli di fabbrica e della loro pretesa al controllo della produzione, no; la commissione operaia - nella quale, lo volessero o no gli uomini del comitato di agitazione, non poteva non avere una parte di primo piano la stessa FIOM col suo onnipresente Buozzi (altro aspetto della mancanza di guida unitaria nell’agitazione: nessuno dei suoi organi è, in assoluto, «com­petente»; l'azione dell’uno si scontra con quella dell’altro, e perfino la elide!) - ripiega sul diniego di ogni proposito diverso da quello, minimalista e puramente tecnico, della definizione di un regolamento non limitativo delle attività pratiche delle CI, dichiarando che lo scio­pero non mirava se non a obiettivi economici e accettando di discutere su tale base con la sola riserva che si rinunzi ad ogni richiesta di misure disciplinari contro gli scioperanti e si diano precise garanzie contro le rappresaglie a carico dei dipendenti dei servizi pubblici e, in specie, dei gloriosi ferrovieri piemontesi, liguri, toscani, emiliani. Infine, avendo gli industriali accettato di non richiamarsi ai puri e semplici regolamenti addivenendo alla fissazione di «alcune norme atte a disciplinare il funzionamento delle CI in conformità alle consue­tudini elaborate nella maggioranza degli stabilimenti di Torino» (il farlo non gli costava niente; si trattava di rendere... nulla e non avvenuta la poderosa agitazione, tornando alla routine di uno status quo contro il quale avevano puntato i piedi solo per impedire che si tirasse troppo la corda), prende atto «delle dichiarazioni dei rappresentanti dei metallurgici i quali sciolgono le altre categorie dall’impegno preso con la proclamazione dello sciopero generale» e, augurando «al prole­tariato metallurgico la migliore vittoria [!!], delibera [il 23] la cessazione dello sciopero quando si avrà garanzia che nessuna rappresaglia verrà esercitata»:  ribadite le «consuetudini vigenti», alle CI si «con­cede» di avere rapporti con gli operai solo fuori dell’orario di lavoro, e con la direzione durante, con retribuzione delle ore perdute. La assemblea dei commissari di reparto sanziona la decisione in un ordine del giorno che almeno riconosce gli scogli contro i quali lo sciopero è venuto a naufragare, non traendone però le necessarie conclusioni nei confronti del partito così com'è e della CGL così com'è sempre stata:

 

«I commissari di reparto delle aziende torinesi, rilevando la mancata estensione del movimento per il controllo operaio a tutta l'Italia, riconoscono che, mal­grado 15 giorni di sciopero delle masse metallurgiche e 10 di sciopero generale, gli industriali sostenuti dalla forza armata della borghesia hanno ancora una volta im­posto la loro volontà di detentori dei mezzi di vita; ed invitano perciò la CE della sezione metallurgica a sanzionare il concordato proposto dal Prefetto. Le immense forze di cui dispone il proletariato sono però ancora intatte. Rientrino gli operai nelle officine con la convinzione di non aver vinto, ma di non essere domi. Ritorni ciascuno al lavoro con la ferma volontà di preparare i mezzi per debellare la forza armata della borghesia e di evolvere gli organismi di gestione operaia della produzione. Abbiano questa volontà specialmente coloro che alle preoccupazioni della prepara­zione hanno preferito l'inerzia e lo svago e che per ogni prepotenza borghese sanno solo piagnucolare.

«Ma questa prima e non ultima battaglia per il comunismo dimostra che, nell’ora presente, è vana la resistenza passiva del proletariato. Agli scioperi deve sostituirsi l'armamento del proletariato. I Sindacati devono diventare mezzi di preparazione. Organizzati e non organizzati devono vieppiù confondersi con un solo spirito di classe per mezzo dei Consigli. I commissari, se imbavagliati nella loro opera tecnica produttiva, devono investirsi dell’opera sociale proletaria. Agli arrestati daremo tutta la nostra solidarietà ed invitiamo il Comitato di agitazione ad assisterli e a richiedere, se del caso, il nostro aiuto.

«Alle masse contadine che furono a fianco del movimento operaio; alle masse operaie di ogni parte che si unirono spontanee al nostro movimento; ai ferrovieri che audaci si opposero alla forza armata, i commissari di fabbrica torinesi inviano l'assicurazione di essere pronti a rendere loro la solidarietà avuta, in pegno di una maggiore o più diretta corrispondenza fra masse e masse e dell’unione ormai inscin­dibile del proletariato agricolo e industriale nell’opera rivoluzionaria».

 

Da parte sua, il Comitato di agitazione (9) commenta:

 

«Alle fiere deliberazioni degli operai metallurgici, il Comitato di agitazione crede inopportuno aggiungere parole. I sentimenti, la volontà dei metallurgici, sono i sentimenti, la volontà di tutto il proletariato. All’offensiva dei capitalisti, il prole­tariato torinese ha risposto con uno sciopero generale la cui intensità e la cui durata non ha riscontro nella storia delle battaglie dei lavoratori, e soprattutto ha risposto ponendo per la prima volta, apertamente e risolutamente, la questione dei Consigli di fabbrica, degli organismi che dovranno realizzare il potere operaio per il controllo sulla produzione. Mai battaglia fu combattuta con tanto accanimento dalla borghesia capitalistica, che ha mobilitato tutte le sue forze, che ha avuto a disposizione guardie regie, poliziotti, magistrati, che ha gettato centinaia e centinaia di migliaia di lire stampando manifesti e giornali, corrompendo gruppi incoscienti, pagando spezzatori di scioperi, fomentatori di disordine, divulgatori di menzogne e calunnie.

 

Questo sforzo enorme non ha spezzato la compagine del proletariato torinese, che ha firmato un pezzo di carta, di cui nessuno, né fra i lavoratori, né fra gli indu­striali, si attende possa avere un valore qualsiasi. Questa battaglia è finita: la guerra continua».

A conclusione dell’affannoso negoziato, il Consiglio generale della Camera del Lavoro, dopo brevissima discussione, emana infine la se­guente dichiarazione pubblica:

 

«Il Consiglio Generale, richiamandosi al proprio deliberato della sera prece­dente, delibera la ripresa del lavoro per tutte le categorie, eccetto quelle che hanno particolari vertenze da risolvere».

La grave prova di forza era cessata.

* * *

 

Beninteso, l'insuccesso parziale o totale di uno sciopero non è di per sé una prova di fallacia nell’orientamento politico: i bolscevichi non pretesero mai di aver vinto ogni e qualunque battaglia anche solo rivendicativa! Nel caso dello sciopero torinese, tuttavia, il costituzionale sabotaggio degli organi sindacali centrali non consente dubbi: alla CGL non si chiedeva di... fare la rivoluzione e neppure di tentar l'impossibile sul piano specifico delle organizzazioni «di resistenza», bensì di affa­sciare tutte le vertenze in corso (quante fossero, e con quale vigoria sostenute dai lavoratori, si è visto) intorno ad obiettivi che a Torino erano solo apparsi più urgenti che altrove, quali la difesa degli orga­nismi di fabbrica, delle 8 ore, del posto e delle condizioni di lavoro, dell’adeguamento del salario al costo della vita ecc.; ad essa spettava di assumere la direzione di un moto che si era dato, o tentava di darsi, una portata e un'estensione generali (altro che «non è il mo­mento di agire»!), e di imprimergli una direttiva vigorosa al cui successo pratico uno sciopero come quello torinese, ove non fosse stato appesantito da sperimentalismi più che contestabili, avrebbe forse potuto dare un contributo decisivo. La storia, comunque, non è fatta di se e di forse. Né d'altra parte qui si fanno questioni di persone, ma di indirizzi; e questi, disgraziati sia da parte confederale che da parte ordinovista, erano il frutto della generale immaturità del movimento, lo specchio di una «inerzia storica» di cui i protagonisti fisici dello scontro ai suoi vertici direttivi - ai quali noi soli esprimemmo una solidarietà non verbale e non di circostanza, pur nella schiettezza delle critiche - si limitavano ad esprimere l'immutata persistenza. I riformisti erano quelli che erano, e non ne facevano mistero; gli ordinovisti e quanti ne subivano l'influenza potevano illudersi di aver spezzato le catene del riformismo per abbracciare la causa rivoluzionaria; ma resta il fatto che non avevano prima e non trassero poi dagli eventi dei quali erano stati parte dominante la coscienza delle condizioni necessarie non pur della rivoluzione, ma della sua preparazione teorica e pratica. Non basta dire che non sentirono l'esigenza del partito e della direzione politica centralizzata delle lotte operaie ad opera di esso e delle sue «cinghie di trasmissione» economiche; bisogna aggiungere che non potevano sentirla, essendone impediti da un fondo inguaribilmente aziendista, operaista, immediatista, e, per dir tutto, idealista.

Il 2 maggio, commentando la dolorosa sconfitta, «Il Soviet» aveva espresso la fiducia che il movimento torinese sopportasse «la grave scossa senza restarne scompaginato» - come appunto fu. E aveva aggiunto:

 

«Il materiale di esperienza accumulato è tale, da essere un utile contributo alla azione ulteriore: ancora una volta il proletariato imparerà, dai suoi errori, la via travagliata della sua vittoria immancabile».

 

Ma la via si dimostrerà assai più lunga e travagliata di quanto noi non ci augurassimo. Lo si vede proprio in quel gruppo dell’«Ordine Nuovo» che del «materiale di esperienza accumulato» avrebbe dovuto essere il depositano e l'interprete. A sciopero concluso, l'8 maggio, Gramsci scrive su «l’Ordine Nuovo»:

 

«La classe operaia torinese è stata sconfitta, e non poteva che essere sconfitta. La classe operaia torinese è stata trascinata nella lotta; essa non aveva libertà di scelta, non poteva rimandare il giorno del conflitto, perché l'iniziativa della guerra delle classi appartiene ancora ai capitalisti e al potere di stato borghese... In Italia non esistono ancora le energie rivoluzionarie organizzate capaci di centralizzare un movimento vasto e profondo, capaci di dare sostanza politica ad un irresistibile e potente sommovimento della classe oppressa, capaci di creare uno Stato e di imprimergli un dinamismo rivoluzionario».

 

Ma, detto questo (e non si vorrà sostenere né che i proletari ne potessero trarre indicazioni non diciamo «concrete», come a lor signori piace di scrivere ad ogni piè sospinto, ma nemmeno chiare, né che non vi si rispecchi lo stato d'animo di rassegnazione sconsolata così frequente in chi è troppo incline a veder «la rivoluzione» al primo balenio di un incendio), conclude:

 

«[La classe operaia] ha però già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà la lotta su due fronti: lotta per la conquista del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e dell’unità proletaria».

 

Nulla, dunque, era stato appreso dalla dura lezione degli eventi.

A chi affidare la «conquista delle organizzazioni sindacali», se non al partito finalmente comunista? Intorno a che cosa, se non al pro­gramma mondiale di classe del marxismo, quindi ancora del partito, realizzare «l'unità proletaria» (10)? E che senso dare al sibillino «potere industriale» fuori dalla conquista del potere politico ad opera, ancora una volta, del partito? Ma il grande assente dalle riflessioni di Gramsci è proprio il partito; e le polemiche destinate a scoppiare poco dopo a Torino dimostreranno che dai fatti di aprile egli -usiamo il nome di persona solo per indicare una corrente - sarà spinto ancor più a ritornare sui suoi passi, per così dire alle origini dell’ideologia consiliare pura, mentre la sezione socialista, nella sua struttura eterogenea, non andrà oltre l'auspicio di un rinnovamento del partito nel fuoco dell’azione, invece di porre senza ambagi il problema della scissione organizzativa come premessa di ogni azione «rinnovata». E' in questa incapacità di trarre dai rovesci gli insegnamenti indispen­sabili per una ripresa sul cammino della vittoria, la vera sconfitta della primavera torinese del 1920; in essa è, in buona parte, la causa del fatale ritardo nel processo di costituzione del Partito Comunista d'Italia, sezione della III Internazionale.

 

(1) Lo sciopero di Torino, riprodotto integralmente più avanti, pag. 391.

(2)  «Non è possibile - aveva dichiarato Gino Olivetti alla riunione inaugurale della Confindustria, il 7.III - che nelle fabbriche si costituisca un organismo il quale voglia e possa agire e decidere all’infuori e, sotto un certo rispetto, al di sopra degli organi direttivi delle fabbriche»: era tempo di concludere intese a carattere nazionale per impedire la «ostentata formazione dei cosiddetti consigli di fabbrica». Già in febbraio, del resto, Agnelli aveva avvertito il prefetto di Torino, a proposito dello sciopero dei ferrovieri e delle sue ripercussioni sulla attività produttiva, in specie alla FIAT, che «si deve entro breve termine addi­venire ad una crisi violenta»; non era «opportuno provocarla» ma bisognava prepararsi a farle fronte!

(3)  L'invito ai proletari «di continuare il proprio lavoro con l'orario solare» era partito il giorno prima dal consiglio generale della CdL.

(4)  Da parte sua, Agnelli aveva ventilato una serrata generale fin dal 20 per ricondurre l'ordine e metter fine a uno stato di fatto «che rende ormai intollerabi­le la situazione dell’industria ed ha esautorato completamente la direzione di fronte alla massa operaia». (cfr. Castronovo, Agnelli, Torino 1971, pag. 223).

(5)  Come dirà giustamente Tasca al Consiglio nazionale di aprile, gli industriali ragionavano così:  «Le commissioni interne le abbiamo sempre avute e non le vogliamo negare, ma debbono svolgere la loro attività fuori dalle ore di lavoro, debbono passare attraverso tutto un regime burocratico e poi, soprattutto, debbo­no limitare la loro attività unicamente a controllare, a difendere, a tutelare le maestranze nell’interno dell’officina nei casi dubbi di applicazione dei concordati già esistenti». Ecco che cosa importava il richiamo «al regolamento»!

(6)  Il manifesto congiunto della FIOM, della Camera del Lavoro e della Sezione socialista anticipa alcuni dei temi che saranno caratteristici della impostazione data allo sciopero sotto l'influenza dell’«Ordine Nuovo». Esso denuncia il tentativo degli imprenditori di «annientare le Commissioni Interne» e così «togliere alla classe operaia un istituzione che ha dimostrato in questi ultimi tempi di essere special­mente utile alla produzione e alla disciplina del lavoro» e li accusa di preferire l'arresto della produzione e la chiusura degli stabilimenti alla possibilità di lascia­re che gli operai si elevino «attraverso le loro istituzioni di fabbrica, disciplinandosi da sé, acquistando una maggior coscienza della propria dignità di lavoratori e di cittadini». Annunziando la decisione di lottare ad oltranza, il manifesto scrive che «i metallurgici si impegnano nella lotta serenamente, sicuri del loro buon diritto di uomini e di lavoratori, avendo dimostrato quanto fosse grande la loro volontà di riprendere il lavoro produttivo».

(7)  Esso era stato costituito, come si sa, quando, di fronte a sintomi di rilassa­mento nell’azione dei consigli di fabbrica, il CE della sezione torinese era venuto alla conclusione di «spiegare agli operai il carattere schiettamente rivoluzionario dei Consigli e preparare la conquista di essi da parte dei comunisti aderenti alla III Internazionale». Un o.d.g. Tasca, Togliatti (segretario), Montagnana e Boero propugnava «la convergenza di tutte le forme di attività socialista e proletaria nella lotta per la conquista del potere [...] soprattutto preoccupandosi di precisare e regolare i rapporti che devono correre tra i Consigli di fabbrica e le organizza­zioni di resistenza [...] per evitare che l'attuale organizzazione di resistenza (sinda­cale e di partito) sia indebolita, ma anzi acquisti maggior prestigio di fronte alle masse». Il 27.IV, il comitato aveva lanciato un appello «ai proletari e contadini d'Italia» per la riunione a Torino di un congresso dei Consigli (che poi non ebbe luogo) come «data importante nella storia dello sviluppo della rivoluzione proletaria italiana».

(8)  Cfr. Lo sciopero di Torino nel numero citato de «Il Soviet», riprodotto integralmente a pag. 391.

(9)  Da una comunicazione di Serrati al Consiglio nazionale di aprile risulta che la decisione di dare in extremis allo sciopero... un carattere puramente economico e di riprendere su questa base le trattative era stata accolta dal comitato all’unanimità meno i compagni Barberis e Boero.

(10)  «L'unità proletaria - si legge nel manifesto del Comitato di studi sui Consigli del 27 marzo, di cui si è già detto - noi crediamo che sorgerà spontanea nella officina, dove siete tutti eguali, creando istituti che incarnino ed esprimano la vostra volontà reale». Poco meno di un secolo prima Marx aveva scritto, ed è qui il noc­ciolo della questione del partito, della «costituzione del proletariato in classe, quindi in partito»: «ciò che conta non è che cosa questo o quel proletario, o anche tutto il proletariato, si rappresenta temporaneamente come fine. Ciò che conta è che cosa esso è e che cosa sarà costretto storicamente a fare in conformità a questo suo essere» (Sacra Famiglia, IV, glossa 2).

 

 

3.         - «PER UN RINNOVAMENTO DEL PARTITO»

 

Il lungo testo così intitolato apparve nel numero dell’8 maggio de «L'Ordine Nuovo» e finì per correre sotto il nome di «mozione dell’Ordine Nuovo» (1) benché letto e commentato da Terracini al Consiglio nazionale socialista di aprile senza alcuna pretesa né di condensarlo in una mozione, né di metterlo ai voti, e privo di alcuna delle tesi caratteristiche dell’ordinovismo, e benché sia invece l'espressione del pensiero della sezione socialista torinese, composta di varie e diffor­mi correnti, e solo in virtù di un fragile accordo (rotto in agosto con le dimissioni del compagno Boero da segretario) diretta dagli astensio­nisti; quindi anche nell’impossibilità di prendere posizioni univoche. Che Gramsci si sia assunto l'incarico di redigerlo, non cambia nulla al fatto che esso non esprime né le idee sue caratteristiche né quelle del suo tut­t'altro che omogeneo gruppo: esprime solo il grado - ancora timido e pieno di riserve - al quale era giunta nella sua faticosa maturazione la crisi interna del massimalismo. Da parte nostra, non abbiamo nessuna ra­gione di nascondere che il suo contenuto corrisponde al giudizio che della situazione del partito dava allora l'Internazionale, un giudizio che soltanto la lezione dei fatti la costrinse non solo a rivedere ma addirittura a capovolgere abbandonando qualunque speranza di «rinnovamento» del PSI e ponendo infine - troppo tardi! - il problema della scissione non solo dalla destra ma, come invano la Frazione astensionista andava predicando da mesi - e da un angolo non «nazionale» ma interna­zionale -, dal centro. Poiché lo riproduciamo in appendice (2) limitiamoci a sottolinearne i punti salienti.

Le «tesi» si aprono (punti 1 e 2) con un breve schizzo del divam­pare delle lotte sociali in Italia sullo sfondo della crisi internazionale capitalistica, che solo qua e là risente - in modo d'altronde superfi­ciale - della fraseologia ordinovista (il «nuovo ordine nel processo produttivo», che la rivoluzione sarebbe chiamata ad instaurare; il «controllo operaio» cui avrebbero dato inizio i consigli di fabbrica; «l'ordine immanente nello spaventoso attuale disordine», e il passaggio, cui si dovrebbe tendere, «a nuovi modi di produzione e distribuzione che consentano una ripresa della produttività») e pone invece con nettezza il dilemma: o conquista del potere politico da parte del prole­tariato, o «tremenda reazione» da parte della borghesia e del suo apparato statale sul duplice piano della distruzione dell’organo-partito e dell’inserimento degli «organismi di resistenza economica» (i sinda­cati e le cooperative) «negli ingranaggi dello Stato borghese». Segue (punti 4 - 6) una vivace critica del PSI che «ha assistito da spettatore allo svolgersi degli eventi», non ha lanciato parole d'ordine accessibili alle masse, non ha neppur cercato di dare «un indirizzo generale alla azione rivoluzionaria» unificandola e concentrandola, e, decaduto a «mero partito parlamentare», manca di «una figura autonoma di Partito caratteristico del proletariato rivoluzionario, e solo di esso»; che non soltanto non ha neppure iniziato la polemica coi riformisti, ma ha lasciato che questi sfruttassero la sua autorità «per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali» e così, mentre non ha neppure cercato di «rendere omogenea e coesa» la propria compagine rivoluzionaria secondo i dettami della III Internazionale, col suo nulli­smo ha spinto le masse «verso le tendenze anarchiche che aspramente e incessantemente criticano l'accentramento e il funzionarismo dei partiti politici»; che, infine, è stato assente dal movimento internazio­nale delle cui vicende non si è nemmeno preoccupato di informare il proletariato italiano.

I rimedi? Le «tesi» (punti 7 e 9) partono dalla convinzione che il grosso del partito sia recuperabile: gli rivolgono quindi un appello perché si rinnovi attraverso un'azione diversamente impostata. Mentre la conferenza nazionale della Frazione comunista astensionista dei primi di maggio metterà inequivocabilmente sul tappeto il problema della costituzione del Partito comunista e ne fisserà la piattaforma teorica, programmatica e tattica, il testo della sezione torinese chiede al PSI dì diventare, «da partito parlamentare piccolo-borghese, il partito del proletariato  rivoluzionario  che  lotta  per  l'avvento  della  società comunista,   attraverso   lo   Stato  operaio   [ma   come ? ];   un partito omogeneo, coeso, con una sua propria dottrina, una sua tattica [ma quali?], una disciplina rigida e implacabile [ma attuata in che modo?]»; gli chiede di eliminare i «non comunisti rivoluzio­nari» in modo che la direzione (così com'è), liberata dalla preoccu­pazione di conservare l'unità (ma se è la sua preoccupazione prima, il suo ideale proclamato!) e l'equilibrio fra le diverse tendenze, rivolga tutte le sue energie all’organizzazione delle masse operaie «sul piede di guerra», accentrando nel suo comitato centrale, attraverso le sezioni e «i nuclei di fabbrica, di sindacato, di cooperativa», tutta l'azione rivoluzionaria del proletariato. L'esistenza di un simile partito - si noti come l'ideologia ordinovista sia addirittura capovolta - «è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperi­mento di Soviet: nell’assenza di una tale condizione ogni proposta di esperimento deve essere rigettata come assurda, e utile solo ai dif­famatori dell’idea soviettista».

Infine, si invoca lo studio, la compilazione e la diffusione di «un programma di governo rivoluzionario del Partito Socialista», da condensarsi in un manifesto nel quale si prospettino sia gli obiettivi mas­simi sia gli «elementi delle soluzioni comuniste per i problemi at­tuali» - elementi specificati in modo assai flebile come il «controllo proletario sulla produzione e sulla distribuzione; il disarmo dei corpi armati mercenari; il controllo dei municipi esercitato dalle organizza­zioni operaie». Concludendo, «la Sezione socialista torinese» (non l'«Ordine Nuovo»!) esprime l'intendimento di «promuovere un'intesa coi gruppi che in tutte le sezioni vorranno costituirsi per discuterle e approvarle [le tesi]» in vista di un «congresso dedicato a discutere i problemi di tattica e di organizzazione» e l'esercizio nel frattempo di «un controllo sull’attività degli organismi esecutivi del Partito».

Il testo si commenta da sé. Esso collima certo con l'illusoria prospettiva, ancora presente nell’Internazionale, di un recupero del PSI «epurato» dai suoi elementi di destra individualmente presi; vuole (o meglio: sogna) che il partito si rinnovi; esclude che debba scindersi; gli chiede di agire in base ai deliberati di Bologna, non di cassarli. Non di qui prende l'avvio la costituzione del Partito comunista!

Esso è tanto poco «gramsciano» e «ordinovista», che condi­ziona ogni esperimento di soviet all’esistenza del partito di classe, inteso inoltre come organo fortemente centralizzato e centralizzatore. Esprime la risultante di tendenze diverse in seno alla Sezione torinese; tanto diverse, che il proposito di quest'ultima di agire come centro promotore di gruppi all’interno del partito e di un congresso di «dibattito» sui problemi tattici e organizzativi non si realizzerà mai, e il fisico estensore del testo, a poche settimane di distanza, si scontrerà perfino coi suoi compagni di corrente per essere ricaduto nella più genuina ideologia consiliare.

E' il frutto di una posizione intermedia, l'unica che la Sezione torinese potesse esprimere:  quindi gracile e rapidamente moritura. Rappresenta il sintomo di un graduale «ripensamento» in seno al massimalismo, ancora però ben lontano dal tradursi in un allineamento sulle posizioni programmatiche dell’Internazionale, e nostre. Un sintomo, quasi l'albeggiare di una remota coscienza dei problemi reali del movi­mento comunista:  infatti, al successivo Consiglio nazionale del PSI, Terracini non solo non lo proporrà al voto, ma, con Tasca, prenderà sulle questioni interne del PSI una posizione (rispetto alle «tesi») del tutto equivoca. Ancora in aprile, dunque, il fantomatico «comunismo elezionista» era di là da nascere.

Ci smentisca chi può!

 

(1)       Oggi corre più che mai sotto questo nome, in forza di un malcostume politico al quale reagiamo non per scrupoli morali, ma perché è uno dei mille aspetti della codardia, del gesuitismo, della menzogna sistematica, prosperanti al sole dello sta­linismo.

(2)  Cfr. pag. 385.

         

 

4.      - IL CONSIGLIO NAZIONALE DEL 18-22 APRILE

 

Convocato essenzialmente per discutere il nuovo progetto di costi­tuzione dei soviet (1), il Consiglio nazionale deI PSI non poteva non riflettere le gravi tensioni interne provocate dagli sviluppi delle lotte di classe e dall’atteggiamento del partito nei loro confronti. Ma, se qualcosa emerge dai resoconti del farraginoso dibattito, è da un lato il grado in cui la coscienza dei problemi aperti alla classe operaia europea e mondiale dal dopoguerra ritarda, in militanti che pur si dichiarano «comunisti», sulla registrazione delle più dolorose sconfitte, e il grado in cui d'altro lato un primo albore di tale coscienza ritarda sul riconosci­mento che non si tratta di rimediare a errori tecnici o deficienze di uomini, ma di ritrovare contro ogni forma di opportunismo il filo del programma comunista con tutto ciò che esso comporta in materia di decisioni pratiche. Lungi perciò dal cercarvi, come fanno gli storici convenzionali, il primo germe del Partito comunista d'Italia infine costituito oltre mezz'anno dopo, noi vi riconosciamo le carenze, le incertezze, le ambiguità nel segno delle quali - per l'intrecciarsi di fattori oggettivi indipendenti e meno che mai voluti da noi - esso nacque.

Che ci fosse inquietudine, e perfino rivolta, in frange del partito schiacciate fra un massimalismo cadaverico e una destra sanguigna e prepotente, e sensibili agli umori delle masse proletarie in lotta per­ché direttamente partecipi delle loro ansie, è incontestabile. C'era in­genuità e improvvisazione, senza dubbio, nell’accorato appello di Terra­cini, ad apertura dei lavori, affinché il Consiglio - dallo «stato di fatto, che giunge all’esasperazione della situazione rivoluzionaria ed è presso ad una situazione insurrezionale», vigente nella Torino operaia - traesse lo spunto a redigere «un programma di vera e immediata attuazione»; ve n'era una dose ancor più forte nell’invito ad una «azione che non può più soffrire altri indugi, azione che significa preparazione  armata del proletariato» (di fronte, fra l'altro, a un uditorio che aveva ancora da decidere, e perdere tempo nel discute­re, se ammettere o no alle sedute la stampa borghese!) rivolto da Misiano ad una direzione assorbita da problemi di semplice routine. Ma quelle voci erano pur sempre indicative di un malessere diffuso e di esigenze che, per non essere chiare alla mente di coloro che le for­mulavano, non erano perciò meno reali.

Se ne avverte l'eco nelle scialbe parole del segretario Gennari, tutte intonate all’imbarazzo in cui si trova il «partitone» di allora (una pulce, tuttavia, in confronto ai mammut della felice èra attuale!) anche solo per riunire le membra sparse dei supremi organi diret­tivi in situazioni di emergenza; tutte gonfie di piani di «concretazio­ne comunista» e «rinvigorimento» organizzativo, quanto imbevute del­la constatazione che, a quasi un anno dal congresso di Bologna e dai suoi trionfalismi di maniera, nulla si è ottenuto nell’accrescere le forze del partito, nel guadagnargli la fiducia della classe, nel rintuzza­re gli attacchi del nemico; che dunque occorre «prepararsi seriamente», poiché «la sciagura più grande che potrebbe capitarci sarebbe quella di un potere strappato in un momento, che poi ci cadesse dalle mani o, peggio ancora, ci ponesse nella impossibilità, dopo la rivoluzione po­litica, dopo la conquista del potere, di tradurre in atto, di realizzare, di ricostruire, tutto quanto l'edificio economico in senso socialista». Lo si avverte nel grigio discorso di Serrati sulla situazione internazionale, mirante a trarre - dalle «particolari condizioni nelle quali dobbiamo svolgere la nostra attività» (potere rafforzato - alla buon'ora, dopo tanti pronostici di crollo imminente! - «delle classi capitalistiche») e che ci costringono a prendere, rispetto ai compagni russi, «atteggia­menti diversi, che ci portino verso lo stesso obiettivo ma d'altra parte non compromettano il movimento nostro» - la conclusione che, men­tre «gli avvenimenti maturano di giorno in giorno [...], la nostra forza, la capacità dei nostri uomini [...] sono infinitamente inferiori al grande compito che ci attende» (2), e a scaricare sull’immaturità degli altri partiti europei e sulle deficienze organizzative della stessa Internazio­nale la responsabilità della propria «debolezza». Lo si avverte infine nello sgangherato discorso di Bombacci reduce da un viaggio in Ger­mania e Danimarca (3) e incapace di fornire a militanti avidi di no­tizie nulla più del «messaggio» che bisogna lottare per la ripresa integrale e definitiva dei rapporti diplomatici con la Russia, unico pun­to fermo in un'Europa «fredda» al Nord ed «entusiasta e senti­mentale», ma con tutti i difetti del «sentimento», al Sud! In verità, il massimalismo apre le sedute del II Consiglio nazionale 1920 al tocco di qualcosa di simile alla campana a morto...

E la discussione si accende, irosa, irrequieta, prolissa, ma inconcludente: Gennari ha parlato di impreparazione, e tutti gli oratori si affannano a proporre rimedi tecnici (magari l'uso di... razzi segnaletici per favorire l'organizzazione di «movimenti sincroni»), salvo a sen­tirsi dire da Serrati che la questione è politica e si riassume nel «costi­tuirsi in forza della classe borghese capitalistica» per «opera nostra, del nostro metodo, della nostra condotta logica, della situazione politica del regime italiano», e nell’aver noi, troppo facili a subire «la suggestio­ne delle folle anche quando non si muovono socialisticamente», perduta la nostra forza; nell’aver noi, marxisticamente consapevoli di non esse­re «facitori della storia», disfatto... la storia pretendendo di mutare il mondo «con un colpo di fucile» e trovandoci malinconicamente a dover constatare che «è una necessità, in determinati momenti, china­re il capo, accettare quella che può parere un'umiliazione» per poter dare battaglia solo dopo esserci adeguatamente «preparati» (ma come? in base a quale orientamento? in virtù di quale tattica?) «quando sarà venuta la nostra ora, sul nostro terreno», mai chiedendoci se quella «ora» e quel «terreno» non impongano già adesso (perché sempre) un dato modo di agire, quello e non altro!

Così il dibattito gira su se stesso. Se dite che bisogna «preparar­si», prepariamo dunque quella «parte del fenomeno rivoluzionario» che è la violenza, obietta Terracini; se ripetete che è necessario creare gli organismi indispensabili della società nuova, ebbene, guardate a Torino, dove «i consigli di fabbrica [...] hanno dato prova di essere organismi veramente rivoluzionari»; se parlate di forza che dovrem­mo avere e non abbiamo, andate a scuola da una città in cui «un certo apparato che possa contrapporsi allo stato borghese» si è pur costituito. Ma Terracini, se ha tutte le ragioni di protestare contro la letargia della direzione e la sua sudditanza ai riformisti della CGL, non vede neppure lui che il problema va oltre una città per quanto operaia e un episodio per quanto imponente: è il problema del partito, un partito non da «rinnovarsi» (secondo la formula della mozione torinese da lui letta fra gli schiamazzi della platea massimal-riformista), ma da costituire ex novo coi mattoni della dottrina ristabilita sulle sue storiche basi; è la questione del programma, e non di un «pro­gramma di governo rivoluzionario» ma del programma di teoria e di prassi senza il quale non solo non v'è azione rivoluzionaria, né conqui­sta rivoluzionaria ed esercizio rivoluzionario del potere, ma non v’e neppure l'unità d'azione e la saldezza di organizzazione la cui assenza nello stesso «sciopero delle lancette» l’oratore deplora, e senza il do­minio del quale non esistono né organizzazioni rivoluzionarie di per sé, né «situazioni insurrezionali» su cui «incidere». Il massimalismo as­siste con musulmana accidia ai fatti, e li subisce; l'ordinovismo li sente e vi partecipa, ma non ne va alle radici: impotente ad agire l'uno, im­potente a reagire l'altro.

Intervenendo di ritorno da un viaggio di propaganda nelle cam­pagne piemontesi e in Lomellina, l'altro rappresentante della Sezione e del Comitato di sciopero torinese, Angelo Tasca, resta, se possibile, ancor più irretito nell’equivoco. Il suo discorso, vigoroso nell’illustra­re i motivi per cui lo «sciopero delle lancette» si è trasformato in un movimento politico per questioni di principio e si è saldato alle agi­tazioni - in atto da 50 giorni nel più completo disinteressamento del partito e della CGL - nelle campagne (dove la dipendenza dalle vicis­situdini delle condizioni stagionali pone gli scioperanti di fronte al di­lemma di perdere tutto o cedere), e nell’invocazione dello sciopero gene­rale da proclamarsi senza indugio come «strumento idoneo a risolvere due vertenze importantissime, nelle quali sono implicate questioni im­portantissime di principio sindacale», elude però totalmente i problemi politici tuttavia formulari nella mozione sul «Rinnovamento del par­tito» per ripiegare con monotona insistenza e con caratteristica inde­terminatezza sulle idee-madri dell’ordinovismo: le commissioni interne come forma del «potere operaio [o dell’ "autodisciplina"] all’interno dell’officina», cui vanno conferiti «altrettanti poteri quanto ai padro­ni»; la «vittoria dei compagni torinesi nel costituire un potere auto­nomo» entro la fabbrica come «nucleo dell’approvazione dei Soviety» (cosicché, «se Torino è sconfitta», la discussione del progetto di co­stituzione di questi ultimi diventa «pura accademia», anzi menzogna) e via di questo passo.

Come stupirsi che, di fronte a un massimalismo «andato a Canos­sa in materia di tattica» e deciso a fare «un salto indietro, molto au­dace, verso il pompierismo socialista» (la frase, anzi il «complimen­to», è di Turati) e attaccato nei suoi vertici dai rappresentanti delle sezioni periferiche per il suo assenteismo e la sua inerzia burocratica, mai tuttavia preso di petto nemmeno dalla sua ala più «battagliera», la destra senta di avere in pugno il Consiglio nazionale e di poterlo dominare in tutto l'arco delle sue sfumature, dal riformismo puro al riformismo barricadiero? Se a Bologna Turati non aveva nulla da na­scondere, qui ha tutto da rivendicare: la «rettifica di tiro» dei mas­simalisti potrebbe polemicamente rallegrarlo, ma egli la respinge perché è inconsistente, perché non è il frutto di una seria meditazione, ma è un «atteggiamento da fisarmonica» - ora anarchico-insurrezionale ed ora pompieristico all’insegna dell’«oggi non si fa credito, non si fa ri­voluzione; domani sì»  -  perché è tanto «politicamente disastroso» quanto «moralmente brutto». O si riconosce che «scongiurare la guer­ra civile, in questo momento, [è] il compito più alto che spetti spe­cificamente al partito socialista, il compito più urgente», e ci si assume la responsabilità e «il diritto di disarmare la mano assassina da una parte e, dall’altra, di portare la massima luce e la massima dose di uma­nità nella lotta civile», o si abdica al proprio «principale dovere»; peggio, si disorienta il proletariato in un'altalena di «febbre a 40 gradi e pioggia di docce fredde continue», e si provoca, con «atto ingenuo e puerile, da inconsapevoli o da criminali», la violenza dell’avversario «centomila volte più forte della nostra». Il vecchio leader non esita a dirlo: quello che sta avvenendo - a Torino e dovunque - è «la devastazione, il sabotaggio della produzione, l'eccidio delle macchine, la minaccia» della dinamite, è «la jacquerie», è «il ritorno al me­dioevo», è il preludio «alla soppressione del Partito e delle organiz­zazioni [economiche] per grandissimo tempo» nell’atto stesso in cui si ripete «fino alla sazietà che non siamo preparati, che ci mancano le armi [...] perfino di difesa e controffesa». Insomma, si «crea la reazione»! Ed allora «quello che dovrebbe importarci come socialisti, è che un Governo ci sia, o che lo prendiamo noi nelle mani, o che sia il meno sfavorevole, nelle contingenze presenti, alle richieste, alta vita, al respi­ro delle classi proletarie»; dovremmo «agire per la conquista di quel tanto di socialismo che è possibile nella nostra nazione» e non «far gettito di questo che possiamo fare per aiutare una repubblica lontana». Dovremmo e potremmo agire così, perché «se la nostra tattica fosse più gentile, più socialista, la borghesia è disposta a cedere; sente la necessità di concessioni, per la propria salvezza [...], per vigliaccheria, nel proprio interesse»! Fuori, dunque, dall’equivoco: «o essere per la violenza o per la forza, essere per la vittoria o per la sconfitta, essere per il socialismo o per il tradimento e il sabotaggio del socialismo».

 

La chiusa del discorso  - che, dal punto di vista logico, non fa una grinza - è insieme un invito e una minaccia:

 

«Io sono un feticista dell’unità del partito [...]. Ma l'unità che volesse dire fare come ci pare, che volesse dire la contraddizione dell’azione, vale a dire il non socialismo, vale a dire il divorare nello stesso giorno l'azione di quel giorno, questa non è più l'unità del Partito, questa è la demolizione del Partito, e non vi è ragione di mantenere un Partito che sia demolito. Io sarò sempre per l'unità contro tutte le faziosità anti-unitarie, ma se mi costringete ad optare tra l'unità della compagine transitoria del Partito ed il socialismo, io opto per il socialismo, e non lo tradirò!» (4).

 

Sorvoliamo sulle molte voci di sezioni purtuttavia massimaliste che esprimono preoccupazione per la sfiducia crescente del proletariato e degli stessi militanti nel partito, anzi nel socialismo; o di pezzi grossi che «prendono atto» dell’incapacità di organizzare perfino uno scio­pero generale; o del rappresentante della Federazione giovanile, Polano, che propone di rinvigorire gli organi supremi provocando un «chia­rimento interno» tale da uscir dall’equivoco di due concezioni che non possono più convivere nel suo grembo (senza che ciò tuttavia impedisca di restare... «buoni amici coi compagni di destra»); o di Francesco Misiano che, memore delle eroiche battaglie di Russia e Germania, auspica ancora il distacco dai soli riformisti, quasi che i primi a non volersi «scindere» non siano proprio i Serrati e C.; o di Graziadei il quale, pur essendo sotto certi aspetti  il più «a sinistra» dei massi­malisti - almeno ha il senso di ciò che significa «forza» e sa bene che cosa sia conquista del potere politico e che cosa opera di trasfor­mazione economica - non ha però nulla di meglio da opporre al fran­co discorso di Turati che la frase: «Spezzare il Partito, quando non sia assolutamente necessario, è appoggiare, sia pure involontariamente, la borghesia, e siccome i compagni di destra, in fondo [!!!], sono per accettare tanta parte di quello che noi diciamo, io credo che dobbia­mo restare quanto più è possibile uniti». Sorvoliamo su queste ed al­tre manifestazioni di sudditanza al ricatto riformista, per dedicare qual­che riga alla seconda offensiva di destra - scatenata questa volta dal «gran mattatore» delle riunioni generali socialiste del 1920, Modigliani - per dimostrare come il PCI di oggi costituisca in certo modo una sintesi fra il concretismo «realizzatore» di Turati e l'attivismo riformista-repubblicano di «Mené».

Al solito, il riformismo si presenta qui con un volto assai più «duttile» che in Turati e, nel suo ambito, perfino... garibaldino, con tutto ciò che di equivoco e sottilmente avvocatesco esso comporta. Non c’e il turatiano disprezzo né per la «barbara» Russia né per il dittato­riale Comintern, ma in compenso si suggerisce un tentativo di recupe­ro non solo degli indipendenti tedeschi, ma dei «ricostruttori francesi», a cominciare da Longuet. Per i torinesi, c'è perfino un inno al loro spi­rito di iniziativa e di battaglia («meritano degli sculaccioni disciplinari, ma sono il simbolo di un'eresia benedetta!») ma - e qui Modigliani gioca su certe differenze di tono fra Terracini e Tasca - il loro torto è stato di spingersi più in là di quello che ai loro mezzi era possibile, e quindi ora ripiegano dagli squilli di tromba sul «momento insurre­zionale» alla richiesta di un puro e semplice «sciopero generale di affer­mazione», mentre, se avessero chiesto a tutti i socialisti una... colletta, i soldi sarebbero venuti a palate e i proletari torinesi avrebbero vinto sul loro terreno originario, cioè strettamente economico, fuori da diva­gazioni politiche e dottrinarie. Il giudizio sulla situazione italiana, stret­ta nella morsa del reazionarismo borghese nelle città e del pretume all’assalto nelle campagne, ed internazionale, non è meno cupo e pes­simista di quello di Turati o ... di Serrati, ma la conclusione è che il partito, se rinunzierà alle «formule» e baderà più al concreto (nel con­cretismo tutti son d'accordo!) «discriminando ceto da ceto, corrente di opinione da corrente di opinione, insofferenza morale da insofferenza» e facendo appello a «tutta una sterminata congerie di piccoli borghesi e di impiegati angariati in quest'ora di dopoguerra» per ottenere «in questo tumultuare di insofferenze, di coscienze, di aspirazioni, senza intransigenza, tutti gli aiuti che possiamo trovare in tutti i tentativi di forze politiche nuove»; se il partito offrirà all’operaio la prospettiva della «diretta gestione della fabbrica», della «preparazione dei conge­gni che [lo] obbligano a diventare non solo controllore, ma gestore supremo, nell’ora che è lontana, della fabbrica, che dovrebbe conquista­re gradualmente, per comune consenso»; se proporrà ai borghesi ciò che essi stessi accettano come ormai inevitabile (per es., un minimo di distribuzione delle terre); se spiegherà pubblicamente le ragioni per cui, «non potendo oggi realizzare in pieno il comunismo, conviene al pro­letariato di fermarsi per quel tanto di anni ad un programma dì realiz­zazione che è al di qua della barriera comunista», allora esso potrà e saprà «pigliare il potere e fare andare la barca come vuole» (...via italiana al socialismo ante litteram!) mediante «un largo fronte demo­cratico».

I dottissimi storici Lepre-Levrero danno del comportamento degli ordinovisti al Consiglio nazionale un ritratto agiografico, che nulla nel dibattito avvalora. In realtà, non solo essi peccarono di «insurrezioni­smo» a vuoto, mettendosi così nella condizione di fare precipitosamen­te marcia indietro e limitarsi a chiedere uno sciopero generale «di affermazione» ormai reso impossibile dallo snodamento dei fatti; non solo si tennero sulla difensiva preoccupati così più di giustificarsi che di portare a fondo l'attacco al massimalismo più che mai codardo, assen­teista e alieno dall’assumersi la minima responsabilità di fronte ad au­tentici moti di classe; non solo lessero e commentarono la troppo ce­lebre mozione sul «Rinnovamento del partito» lasciandola però cade­re e non proponendola neppure al voto dei presenti; ma, quando si arrivò al termine del dibattito sulla situazione nazionale e internazionale, si irretirono in una pietosa girandola di mozioni sottoscritte e smentite, presentate e ritirate, prima con un testo Tasca-Misiano che ambiva tracciare al partito una chiara linea di azione, nel proposito - vecchia illusione di Bologna, ribadita del resto da Gennari (5) - di costringere i destri ad... espellersi da sé, e cadde non appena alcuni firmatari si accorsero che implicava sfiducia nella direzione; poi con un nuovo e più generico testo Misiano-Tasca dal quale il secondo ritirò l'adesione perché, viceversa, non conteneva un'esplicita dichiarazione di sfiducia negli organi direttivi (e annunziò il proposito di astenersi dal voto), cosicché alla fine rimase in piedi soltanto l'ordine del giorno Misiano che accennava solo vagamente ad una possibile separazione dalla destra, e al quale ancora Tasca dichiarò di non aderire perché, a parte la ragione già detta, non vi si rilevava l'importanza dello sciopero di Torino (da cui, ripeté - e gli storici della «via parlamentare al so­cialismo» e dei «fatti concreti» plaudono come ad una prova ulte­riore di «realismo»... leninista -, l'«Ordine Nuovo» si augurava potesse scaturire «un movimento insurrezionale»!), cosicché la mozio­ne a firma Misiano, Monaci e Salvadori, fallito il tentativo di fonderla con quella massimalista ufficiale, venne infine presentata come unico te­sto di «Opposizione».

Si giunge così - gira e rigira - al voto. L'ordine del giorno Cazzamalli, accettato dalla direzione, vede nella situazione nazionale e internazionale «l'indice della sempre più accelerata maturazione rivolu­zionaria, a cui è collegata l'affannosa preparazione reazionaria della bor­ghesia»; riconferma la fiducia nella direzione «per l'opera di prepa­razione [alla faccia!] morale, politica e tecnica del movimento rivolu­zionario»; propone alcune misure pratiche per renderla più efficiente e meno inceppata da «ostacoli di carattere materiale e finanziario»; ri­chiama la «necessità del funzionamento strettamente armonico degli organismi sindacali e cooperativi col Partito per la preparazione della forza necessaria a conquistare e mantenere la dittatura proletaria indi­spensabile allo svolgimento della sistemazione comunista»; sollecita «un minimum [!!!] di solidarietà internazionale», un' «azione tendente a disgregare le forze armate dello Stato e a preparare la forza armata proletaria» e una «più intensa propaganda dei principi comunisti fra le masse meno evolute»; infine, «invita categoricamente gli organi del Partito - sezioni e federazioni - a mantenersi in stretto collegamen­to con la direzione ed a conservare ferma disciplina (6), evitando in modo assoluto, nell’interesse superiore del Partito e della direzione, iniziative localistiche e manifestazioni che divergendo contrastino coll’azio­ne del Partito». Un'aggiunta Lazzari esalta «gli sforzi dei lavoratori agricoli per l'invasione delle terre e quelli dei lavoratori industriali per la costituzione dei Consigli di fabbrica, l'alta benemerenza della classe lavoratrice italiana, la quale lottando contro il privilegio proprietario nell’interesse del proletariato e per l'avvenire della rivoluzione sociale, afferma l'ardente vitalità del proletariato in marcia per la conquista della propria emancipazione» (così si salvano capra e cavoli: senz'essere no­minata, la «ribelle» Torino riceve in extremis la corona di alloro!). Messa ai voti, la mozione ne raccoglie 71.562 su 117.353.

L'ordine del giorno Misiano-Monaci-Salvadori «conferma la sua fi­ducia nella Direzione del Partito» ma «ritiene necessario intensificare l'opera di preparazione per l'abbattimento violento dello Stato borghe­se e l'instaurazione della dittatura proletaria»; chiede «che il Partito si impegni ad infondere negli organismi proletari di miglioramento, re­sistenza e cooperazione lo spirito comunista, affinché la loro azione si coordini e si armonizzi con la propria»; conclude «che, di fronte alla sistematica opera di violenza della classe borghese, si impone la dupli­ce azione che tenda a disgregare le forze armate dello Stato ed a pre­parare la forza armata proletaria, e che a raggiungere tali scopi la di­rezione del Partito deve costituire nel proprio seno un Comitato ese­cutivo permanente». Morale del tutto platonica: «Il Consiglio nazio­nale afferma che per l'attuarsi di tale programma, rispondente ai prin­cipi e alla tattica della III Internazionale, si impone la più rigida di­sciplina che, liberando il Partito da ogni preoccupazione di unità e di tendenza, permetta la completa organizzazione delle forze proletarie sul piede di guerra».

La mozione raccoglie 26.351 voti, mentre gli astenuti («torinesi» e altri) risultano 11.569, e i contrari ad ogni ordine del giorno (cer­tamente i turatiani, poiché la Frazione astensionista non è rappresen­tata al Consiglio) 7.496. Basta un confronto fra i due testi per convin­cersi che la divergenza è minima e che l'enucleazione di una «corrente Misiano» non equivale affatto a un serio ripensamento del bilancio di un anno di bancarotta massimalista. Il feticcio della «unità» prevale ancora, sommergendo perfino la timida richiesta originaria di «purifi­cazione» dalla destra in un generico richiamo alla disciplina e ai suoi rigori che suona ironico dopo tutto quanto si è dovuto pagare in ter­mini di disordine organizzativo e di paralisi del partito e della classe. Soprattutto, manca il più lontano segno di chiarezza sui principi, sul programma, quindi sulle implicazioni tattiche, del comunismo rivoluzionario.

Chiunque abbia votato con Misiano, chiunque si sia astenuto con Tasca, nessuna luce si è fatta, non diciamo nel partito, ma neppure in una cerchia ristretta di militanti. E' una constatazione; ma da non per­dere di vista, se si vuol capire il seguito degli eventi.

* * *

Prova macroscopica della confusione ideologica regnante in campo massimalista-elezionista, e insieme della sostanziale convergenza delle sue «correnti» interne, è il successivo dibattito sulla questione dei soviet.

Esso si svolge sul testo della mozione congiunta della direzione (a firma Gennari - Regent) e della CGL (a firma Baldesi, un riformista della più bell’acqua), che già in questa origine composita mostra l'as­senza di principi della maggioranza: la questione è eminentemente politica;  a che, dunque, l'imprimatur dell’organizzazione sindacale?  Il testo, poi, trasuda il più malinconico disordine: da un lato si parla di «urgenza di apprestare gli strumenti di coordinazione, di disciplinamento e di preparazione per le decisive lotte proletarie» e si afferma la «necessità della costituzione dei Soviety prima ancora della presa del potere politico da parte del proletariato»; dall’altro si invita la dire­zione ad iniziarne e curarne «l'attuazione in determinate plaghe, cor­reggendo così e completando i dettagli secondo l'esperienza e l'esigen­za della pratica concretazione», salvo ad «estenderli, a mezzo di ap­posito organismo nazionale, ovunque il proletariato si mostri pronto a dar vita ai nuovi organi di lotta» - come se si trattasse di fabbricare un utensile e metterlo alla prova, di... volta in volta, secondo una vi­sione insieme empirica e costituzionalistica del processo rivoluzionario. Fissando poi in quattro punti la funzione del soviet prima della presa del potere, cioè: 1) «Illuminare ed organizzare le grandi masse»; 2) «Studiare e preparare i mezzi e gli organi per la realizzazione del Co­munismo»; 3) «Formare il nuovo Stato proletario accelerando così il cozzo con lo Stato borghese»; 4) «Ostacolare, paralizzare l'esperimen­to socialdemocratico», essa da un lato attribuisce ai nuovi organismi fabbricati in serie alcune delle funzioni specifiche del partito, dall’altro vede nella rete dei soviet costituiti prima della rivoluzione «la crea­zione, sia pure nello spirito [!!!] delle masse, dello Stato proletario, incompatibile e quindi che tende ad abbattere lo Stato borghese; la formazione cioè di una legalità [?!?] sovietista - che sola deve essere riconosciuta e seguita dalla classe lavoratrice - negante, che si oppo­ne alla legalità borghese» (trascriviamo il testo così com'è, orribile an­che nella formulazione... grammaticale), e così si avvicina alla pur con­dannata concezione ordinovista dello Stato operaio che nasce entro l'in­telaiatura dello Stato borghese. Infine, la mozione contiene uno statu­to bell’e pronto dei soviet urbani e rurali, dei loro elettori, esclusi dal voto ed eleggibili, del comitato centrale provvisorio chiamato a costi­tuirli nelle diverse regioni, e infine della scala successiva di soviet cir­condariali, regionali e centrali in cui, una volta formati, i nuclei ur­bani e rurali dovrebbero raggrupparsi; e li presenta come il mezzo con cui il proletariato, «da massa anonima ed amorfa, diviene un corpo vi­vente, che ha forza e volontà propria, che non delega a nessuno i suoi poteri, che assume e riconosce le proprie responsabilità, che muove alla rivoluzione con piena consapevolezza dei suoi fini e con l'uso metodico, preordinato, sicuro, dei suoi mezzi» - cosa che (osserviamo) i soviet possono essere solo in quanto diretti dal Partito, mai di per sé come nella visione immediatista dei teorici della «democrazia operaia».

La discussione, svoltasi negli ultimi due giorni del Consiglio, rivela anzitutto che sulla questione della cosiddetta costituzione dei soviet tutto il massimalismo concorda con le posizioni della direzione; in secondo luogo, che la peggior confusione regna fra gli stessi massimalisti sia sul piano teorico, sia sul piano delle implicazioni pratiche. Le «divergen­ze» riguardano aspetti marginali e, si potrebbe dire, statutari: c'è chi teme che, ammettendo all’elezione dei soviet tutta la massa proletaria senza distinzione fra organizzati e non organizzati, si introduca nei nuovi organismi un elemento di disordine e perfino di... teppismo; c'è chi rabbrividisce all’ipotesi che agli organi dirigenti vengano eletti degli anarchici, e quindi propone vengano dichiarati eleggibili soltanto gli iscritti al partito; c'è chi, come nel progetto della direzione, vuole in­trodurre un sistema elettorale differenziato per esempio nei confronti dei mezzadri, e chi vede in ciò un' «ingiustizia»; c'è chi suggerisce un intervallo sperimentale di 6 mesi e chi, come Polano per la Federazione giovanile, esige che si proceda a costituire i soviet subito e dovunque; qualche massimalista lamenta l'impreparazione in cui il partito è stato chiamato a discutere di un argomento così complesso, e giustamente osserva che il Soviet può nascere soltanto in periodo prerivoluzionario, ma cade a sua volta in gravi contraddizioni per ciò che riguarda la natura del soviet stesso e il suo rapporto con gli organismi economici. Tutti questi rilievi, in parte marginali, in parte contraddittori, sparisco­no tuttavia di fronte alle dichiarazioni conclusive di Gennari, il cui succo è, sostanzialmente, che i soviet bisogna costituirli perché... li si è promessi ormai da troppo tempo e che, d'altra parte, è necessario metterli alla prova in determinati settori... sperimentali per evitare di giungere alla loro costituzione «senza sapere se dal clima russo posso­no essere trasportati nel clima italiano [esperti in meteorologia, fatevi sotto!], senza vederne i difetti, senza attenuare gli attriti che possono nascere fra questi organi nuovi e gli organi già esistenti».

Vale tuttavia la pena di soffermarsi su due discorsi, l'uno di Tasca, ben rappresentativo delle posizioni dell’«Ordine Nuovo»  - piena­mente convergenti con quelle della maggioranza massimalista (7) - e l'altro di Modigliani, a sua volta e al solito ben rispecchiante la ferrea logica riformista.

Tasca, dopo aver manifestato pieno accordo con i «criteri fonda­mentali e pratici che hanno ispirato la direzione del partito nel presen­tarci questo progetto», interpreta i soviet come il superamento della «divisione dei compiti» cui si era giunti al tempo della II Interna­zionale fra organismi politici e organismi economici del proletariato, e come un ritorno a quella «unità formidabile che era già nella I Inter­nazionale»  «il partito politico di classe dev'essere dato dall’unione di tutte le forze del proletariato, economiche e politiche, organizzate pe­rò sul terreno politico» - una specie di «partito del lavoro»! A chi chiedesse se il partito socialista «è il partito del proletariato come classe», l'oratore risponde categoricamente: «No! esso ha un compito proprio, tanto vero che deve rimanere anche quando si sarà realizzata la dittatura del proletariato [ ...1, ha un compito specifico di propul­sione». Ricordando le posizioni dei «consiglisti» tedeschi e, in specie, del KAPD, non si può non riconoscere la giustezza della nostra classica tesi che avvicina queste correnti all’ordinovismo italico: il Soviet come organizzazione economico-politica di «tutto il proletariato come classe produttrice», il partito come puro «illuminatore delle coscienze» - con­cetto nel quale d'altronde Tasca riecheggia le note posizioni «culturaliste» già vivacemente attaccate dalla  Sinistra nella polemica del 1912 (8).

A sua volta, Modigliani insorge contro la frettolosità con cui il par­tito pretende di allestire un organo prima ancora che la storia ne abbia creata la funzione e, abilmente distorcendo pro domo sua argomenti sempre ribaditi a questo proposito dalla Sinistra, ne trae la conclusione che, per intanto, l'organo reale della lotta proletaria è l'organizzazione locale dei sindacati economici, la Camera del Lavoro, immagine della «organizzazione sovietista tal quale può esistere in regime borghese». E ironicamente osserva ai massimalisti che, il giorno in cui fondassero dei soviet, non potrebbero più cacciar dalla finestra i riformisti perché questi troverebbero rifugio proprio sotto l'ala protettrice di organismi composti della totalità indistinta della classe operaia. La conclusione, non nuova, anzi costantemente ripetuta nei mesi precedenti, è: rinsa­vire, cioè convocare un nuovo congresso che faccia piazza pulita dei pe­ricolosi «mimetismi» del congresso di Bologna!

Nella grigia discussione si inserisce tuttavia un lungo discorso, ascoltato con profondo interesse e, nello stesso tempo, condannato - inutile dirlo - da tutti gli oratori susseguitisi alla tribuna come svo­lazzante nel cielo della teoria pura, tenuto per la Frazione astensionista da Amadeo Bordiga. Abbiamo già detto che la Frazione non era rappre­sentata di diritto nel Consiglio nazionale; Misiano però aveva chiesto che almeno sulla questione dei soviet fosse sentita la sua voce, e il Consiglio aveva accettato la proposta. Il discorso non ebbe quindi, né poteva avere, un addentellato formale con le questioni dibattute: fu in­vece una limpida dichiarazione di principio in un consesso che ogni questione di principio ignorava o travisava. Ne riportiamo solo i bra­ni più significativi perché il resoconto stenografico è in alcuni punti la­cunoso o addirittura incomprensibile, e ci permettiamo qua e là di correggerne gli errori di trascrizione (i corsivi sono sempre nostri).

 

(1)  L'ordine del giorno comprendeva cinque punti: «Questioni nazionali e inter­nazionali. Soviety. Elezioni amministrative. Stampa. Varie». Cfr. Il Consiglio Na­zionale Socialista, sessione tenutasi a Milano dal 18 al 22 aprile 1920, Testo steno­grafico integrale, Edizioni del Gallo, Milano 1967, tre volumi.

(2)  L'«internazionalismo» dei massimalisti assomiglia come una goccia d'acqua a quello degli indipendenti tedeschi e dei menscevichi russi: il riconoscimento del carattere necessariamente e organicamente internazionale della lotta di emancipazione proletaria serve di copertura alla negazione, poco importa se esplicita od implicita, di movimenti rivoluzionari in questo o quel paese. «La rivoluzione non si fa a Torino», è certo, ma non «si fa» neppure nella Città del Sole o nell’Isola di Utopia, e la preparazione ad essa in tanto è internazionale, in quanto si compie dovunque e in ogni circostanza. Si noti poi l'accento posto da Serrati sulle famo­sissime «particolari condizioni», classica scappatoia del riformismo mascherato da antiriformista...

(3)  Egli era stato con Cabrini a Copenhagen per trattare con Litvinov la con­clusione di un accordo commerciale fra il Centrosojuz (Unione centrale panrussa delle Cooperative) e la Lega nazionale delle Cooperative italiana: le conversazioni durarono dal 24 al 29 marzo; l'accordo venne sottoscritto il 29 marzo e ratificato il  12 aprile. (Il testo dell’accordo, in «Kommunismus»,  1920, pagg. 534-5).

(4)  Più avanti, rispondendo all’eterno quesito di Graziadei, echeggiante le sottili distinzioni kautskiane: «Violenza è una cosa, forza è un'altra: siete per la forza?», Turati dichiara: Grazie tante per la rivelazione; anch'io sono «contro la violenza per la violenza»; sono contro il «culto della violenza [che] è inutile se si ha la forza prevalente, e disastroso se la forza prevalente è dalla parte contraria»; e aggiunge: «Quando si ha il suffragio universale, quando si può conquistare gradual­mente il potete politico, quando si possono conquistare le coscienze ogni giorno più, e per conquistarle bisogna avere un governo non reazionario - onde tutto lo scopo e il senso del mio discorso -, quando si possono preparare nella società pre­sente i germi degli organismi preparatori della futura società, la violenza è inutile, non ce n'è bisogno»; se poi si insiste sulla necessità di avere con sé la «forza armata», cioè l'esercito, come ripete ogni giorno Graziadei, ebbene, c'è un solo modo di averla, ed è di «essere al governo [...] con tutte le condizioni per poterci rimanere», altrimenti «si fa i Malatesta» (come a Torino); e, «dopo Bologna [...], Malatesta è lo sbocco logico, è lo sbocco necessario». Questo, lo si vorrà ammet­tere, è parlar chiaro!!!

(5)       Il secondo discorso del segretario del partito ha almeno il pregio della chia­rezza; il guaio è che costituisce la pura e semplice ripetizione dei concetti svolti a Bologna e il richiamo al «dovere» di non rimetterli in causa: costituzione dei soviet - impiego della violenza rivoluzionaria per la conquista del potere - e, soprattutto, libertà di pensiero e disciplina nell’azione...! L'ultimo punto è diretto esplicitamente, più che contro i destri, contro gli «astensionisti» da un lato e contro i «localisti» dall’altro, i quali «sia pure per un'illusione, sia pure animati dalla più pura fede rivoluzionaria, compiono però o preparano fatti che possono condurre a situazioni gravi, e ciò senza che il Partito, senza che gli organi centrali ne siano avvisati»; dunque, contro i «torinesi».

(6)  A proposito dello strano concetto che della disciplina - nell’azione, non nelle idee – che avevano i massimalisti, «Il Soviet» del 25 aprile, in una nota intitolata Programma e disciplina, e dedicata ad uno dei tanti i quali esprimevano parere favorevole all’esperimento sovietico, perché «costituire preventivamente i soviet può anche voler dire avviare le masse al governo diretto della società senza incorrere nella dittatura del proletariato», scriveva:  «Noi domandiamo alla direzione del Partito, fedele espressione della maggioranza che compilò il programma nuovo del partito stesso: Esiste o no, nel programma, un comma che riconosce la necessità di instaurare la dittatura del proletariato? Dal momento che esiste ed è uno dei capisaldi del programma, può essere consentito che degli iscritti al partito accettino parzialmente o non accettino affatto il suo programma fondamentale [...]? La que­stione non è di disciplina; la disciplina potrà riguardare le azioni dei singoli se siano o non conformi ai deliberati della maggioranza. L'accettazione del programma è connessa alla qualità di socio. Senza l'esistenza di un chiaro e preciso programma, accettato da ogni singolo componente, un partito diviene un'informe accozzaglia di persone che, se avranno un legame che le unisce, questo non sarà certo il fine che il partito stesso si propone. Quale vigilanza disciplinare potrà esercitarsi sulle azioni dei soci, se manca l'unità fondamentale del programma da cui deve scaturire la direttiva tattica?».

(7)  E' da notare che, riprendendo la parola prima del voto dell’ordine del giorno ufficiale, e annunziando il ritiro della propria mozione, Tasca chiederà soltanto che vi sia reso esplicito «l'impegno per una accelerata preparazione rivoluzionaria e per abbattere il potere borghese a breve scadenza», e si sentirà dire da Gennari che tale impegno è già... implicito in un comma della mozione ufficiale della direzione.

(8) Cfr. Storia della Sinistra Comunista, vol. I, pagg. 62-64.

 

5. - LA PAROLA ALLA SINISTRA

 

L'oratore comincia con l'osservare che la mozione massimalista di Bologna, riflettendo una situazione dominata dall’imminenza della bat­taglia elettorale, era, in materia di soviet, estremamente generica e im­precisa, soprattutto là dove considerava come strumenti di lotta di li­berazione del proletariato non soltanto i soviet politici - come era giusto relativamente ad una fase prerivoluzionaria - ma anche gli or­ganismi economici, cioè i consigli dell’economia popolare, e quindi anche la rete dei comitati di fabbrica, cadendo così nella concezione antimar­xista dell’«Ordine Nuovo» e analoghe correnti, secondo le quali il proletariato andrebbe costruendo nel seno dell’economia capitalistica su scala aziendale o generale, gli embrioni di un'economia nuova. Nella mozione presentata al Consiglio nazionale, la stortura era d'altra parte aggravata dalla pretesa di costituire i soviet «a freddo», fuori da ogni considerazione sia della situazione oggettiva, sia della natura e del ruolo che i soviet hanno (e che ad essi riconosciamo) in periodo preri­voluzionario, e a maggior ragione a rivoluzione avvenuta e dittatura del proletariato instaurata.

Richiamandosi per conferma alla lettera del rappresentante dell’Internazionale (1), l'oratore prosegue:

 

«I soviety politici sono gli organi del nuovo Stato proletario, sono la forma che assume la nuova organizzazione politica della società che succede alla forma propria del regime capitalistico. La forma propria dell’epoca capitalista e borghese è la democrazia parlamentare; quella dell’epoca proletaria, del potere proletario è invece il sistema dei consigli e della dittatura del proletariato.

«Orbene, questi organismi che sono gli organi di Stato del proletariato vittorioso, possono sorgere prima di questa vittoria? Sì, lo possono. La storia contemporanea dimostra che possono sorgere, perché esistono e sono esistiti in molti paesi prima che il proletariato arrivasse alla vittoria [].  Ma in questo periodo essi non sono gli organi della lotta di liberazione del proletariato; essi sono sem­plicemente un campo in cui questa lotta si svolge, sono una forma rappresentativa in cui il vero organo proletario [cioè il partito] può portare questa lotta.

«Ciò che manca nel programma di Bologna è dunque l'affermazione di un postulato marxista che ho sentito un po' deformare da Tasca, cioè che l'organo della liberazione del proletariato è il partito politico di classe, e il compito dei comu­nisti è l'organizzazione del proletariato in partito politico di classe finché il potere della borghesia come classe dominante è in piedi; ma, anche quando il potere della borghesia sarà stato spezzato e il nuovo sistema dovrà essere organizzato, anche allora i soviety appaiono a noi non come l'organo bensì come la forma rappresen­tativa del movimento rivoluzionario, ed il movimento politico comunista, che rappre­senta la parte veramente rivoluzionaria del proletariato, agisce in questo campo e fa sì che la rivoluzione segua le linee che rispondono al momento di decisiva soluzione della lotta di classe».

 

Non esiste il Soviet come forma in sé rivoluzionaria: istituto rappresentativo della classe, esso ne riflette necessariamente lo stato di preparazione politica, e nulla esclude che i medesimi organismi che in una certa fase hanno svolto un compito essenziale per il trionfo della rivoluzione proletaria, cadano, per l'assenza del partito di classe o per la sua incapacità di assolvere il proprio compito storico, nelle mani del nemico attraverso la «cinghia di trasmissione» dell’oppor-tunismo. La storia recente, osserva l'oratore, ne reca purtroppo la conferma; il problema non è dunque se i soviet si possano o no costituire prima della rivoluzione (e noi, checché ne dicano i Lepre-Levrero, am­mettiamo che possano e perfino debbano sorgere in periodo prerivolu­zionario); il problema è se esiste l'organo politico, il partito, capace di indirizzarli verso la presa del potere:

 

«I soviety, i consigli operai, possono sorgere anche prima, e questa afferma­zione è contenuta nel programma di Bologna. E sono sorti appunto in molti paesi, come nella Germania e nell’Austria (2) in diversissime condizioni: sono sorti in Russia prima della conquista del potere da parte dei comunisti, prima del momento in cui si è instaurata la dittatura del proletariato; ma non bisognerebbe soggiacere alla grave illusione che il sorgere di questi organismi abbia dato una soluzione infallibile al problema rivoluzionario, mentre possono essere gli organi di libera­zione del proletariato come possono anche essere organi che vi rinunziano o che sabotano la liberazione del proletariato quando in essi, anziché prevalere il pro­gramma comunista, prevalgano altri partiti, come si è verificato in Germania, dove la maggioranza del Congresso dei soviety, essendo di socialdemocratici, ha rinun­ziato all’assunzione del potere politico ed ha riconosciuto quel potere all’Assemblea nazionale, cioè alla borghesia ed al capitalismo.

«Non solo; vi è un altro pericolo. Mentre in Germania i consigli operai sono scomparsi sotto la bufera reazionaria, in altri paesi, come in Austria, sono sopravvissuti avendo nel loro seno una maggioranza socialdemocratica, ed i migliori compagni comunisti di quei paesi constatano oggi che l'esistenza dei consigli operai in questa condizione, con una maggioranza socialdemocratica, con una maggioranza che agisce formalmente nei soviety ma li svuota del concetto dell’assunzione del potere, rafforza il meccanismo della rappresentanza democratico-borghese, con uno svantaggio per l'azione rivoluzionaria dei comunisti, con uno svantaggio per la rapida diffusione in seno alle masse del programma comunista, che consiste nell’affidare il potere al consiglio dei proletari spezzando il potere dello Stato borghese avente per istituto rappresentativo l'assemblea parlamentare».

 

La stessa esperienza storica recente dimostra che mai i soviet

 

«sono  stati  formati  per un  atto  di  volontà,  ma  sono  sorti  da  una condizione di crisi della lotta di classe, in un momento di urto violento in cui il proletariato non era giunto ancora a spezzare la compagine dell’avversario, ma era avvenuto qualcosa che metteva in crisi l'organismo della vita borghese e che quindi determinava una maggiore coscienza e volontà di potere da parte del proletariato, e questa si esplicava e si manifestava nella quasi spontanea costituzione di organismi che immediatamente intervenivano con tutto il peso della loro orga­nizzazione politica per porre in esecuzione il loro programma.

«Così in Germania ed in Russia essi sono sorti in un periodo di rivoluzione che non era comunista, ma era un periodo in cui i poteri dello Stato, del regime dominante, erano fortemente scossi, ed allora sono sorti, ed hanno ingaggiato la loro battaglia, e l'hanno vinta in alcuni casi e sono sopravvissuti al sacrificio; in altri no, o purtroppo vanno adattandosi, come vi dicevo in Austria, a riconoscere il principio della coesistenza dei consigli operai con la democrazia borghese, facendo sì che in questa coesistenza non vi sia più il concetto di una lotta a morte tra due organismi, ma si ammetta dagli uni e dagli altri che vi possa essere una distribuzione di funzioni, possa concepirsi la loro convivenza indefinita in una for­ma di società che conserverebbe una rappresentanza a tipo parlamentare e con­temporaneamente darebbe al proletariato una sua rappresentanza politica, che in questa condizione finisce col non avere alcun valore.

«Quindi, la costituzione dei soviety prima della rivoluzione tutti l'ammettia­mo, ma in una costituzione dei soviety a freddo io non convengo, e penso che il Partito debba lavorare non per costituirli su un progetto schematico, ma per crea­re le condizioni di coscienza politica che permettano domani, quando sarà il mo­mento, di farli sorgere».

 

Alla costituzione dei soviet in Italia manca la condizione essenzia­le, cioè la chiarezza - perfino nel partito - sul significato reale non soltanto dei nuovi organismi presi in sé, ma dell’intero percorso stori­co dal regime borghese e dall’economia capitalistica alla dittatura prole­taria e all’opera di trasformazione economica da essa dittatorialmente avviata. Senza questa chiarezza è inevitabile che si cada o nelle fumo­sità e nelle approssimazioni del progetto ufficiale massimalista o nella visione «perfettamente riformista» di Tasca, tipica del resto di ogni «massimalismo realizzatore», secondo cui l'azione politica dovrebbe essere coordinata minuto per minuto e punto per punto con l'azione economica, dimenticando che per il marxismo il rapporto fra l'una e l'altra non è «continuo come quello che esiste tra molecola e mole­cola, tra cellula e cellula», ma è un rapporto molto più generale e dia­lettico, il quale esclude la formazione degli organi della nuova econo­mia nel seno della vecchia, mentre afferma che il passaggio alla prima è soltanto possibile attraverso un salto di natura esclusivamente politi­ca, e grazie agli interventi «dispotici» necessari per darle vita, che hanno come primo requisito una centralizzazione della produzione in base ad esigenze razionali e collettive implicanti il superamento del meschino orizzonte e dell’azienda e della categoria:

 

«La nuova economia è la conseguenza dell’economia borghese, ma costituisce la sua negazione, ne differisce per i principi fondamentali, è separata da essa da una barriera storica, ed è impossibile creare degli organismi nostri nelle file dell’organizzazione capitalista  in cui viviamo. La differenza tra l'economia capitalista, l'economia privata ed individuale, in cui viviamo oggi, e quella comunista di domani, è molto più profonda di quello che sembri a prima vista. Sono due i coefficienti fondamentali della trasformazione economica: non si tratta solo di limi­tare il profitto capitalistico con l'opera svolta per ottenere l'aumento di salario per gli operai (ed oggi il proletariato si accorge che quest'opera è insufficiente, perché non gli permette di fronteggiare il carovita col possedere un controllo sulla produzione, con la conquista di piccoli diritti che gli permettano di dire: sono un po' anch'io il padrone dell’azienda non mia); non basta la soppressione del profitto, occorre la sostituzione dell’intraprenditore collettivo all’intraprenditore privato, la centralizzazione dell’economia, che non è più cosa privata ma pubblica, non è più costretta nella cerchia delle ferree leggi che l'hanno dominata finora [] e il pro­letariato deve mettere le mani su questi congegni dell’economia per farli funzionare in una condizione diversa, che assicuri la produzione in base al principio comple­tamente nuovo della collettivizzazione del fatto economico in opposizione al fatto economico individuale e all’anarchismo della produzione.

«E per realizzare questo occorre un passaggio brusco. Giorni addietro legge­vo nel "Comunismo" un articolo che criticava la socializzazione dei socialdemocra­tici perché ha in sé l'errore di voler centralizzare l'economia senza la volontà di espropriare e sopprimere il profitto del capitalista, e quella del sindacalismo in tutte le sue forme perché vuol sopprimere il profitto del capitalista senza la centraliz­zazione della produzione, senza sostituire all’economia individuale la grande economia organica, armonica e collettiva del comunismo. E' vero: entrambe queste concezioni sono incomplete, sia la concezione socialdemocratica che vuole affidare Ia produzione agli organismi dello Stato, sia la concezione sindacalista che, senza preoc­cuparsi di costituire il nuovo organo centrale che deve prendere la direzione della ricostruzione economica, vorrebbe, fabbrica per fabbrica, azienda per azienda, man­dare via i proprietari e dire: i proprietari di questa fabbrica, i proprietari di questi azienda sono gli operai, sono i contadini. Questo secondo concetto è insufficiente quanto il primo, perché il socialismo vuole che l'espropriazione dell’azienda sia fatta non solo per gli operai di quell’azienda, ma in nome di tutto d proletariato collet­tivamente organizzato, e che, ove gli interessi particolari di quel gruppo contrastino con quelli generali, siano quelli generali che debbono prevalere.

«Ora noi non disconosciamo con questo l'esistenza di particolari interessi eco­nomici; non disconosciamo l'esistenza di organismi che li rappresentino: finora gli interessi delle categorie sono stati rappresentati dai sindacati; oggi questi vanno trasformandosi in nuovi organismi sul tipo dei consigli di fabbrica, una formazione spontanea a cui l'economia borghese ci conduce. Ma quale deve esserne il nostro giudizio?».

 

Il discorso è così giunto al tema, reso scottante dallo sciopero di Torino, dei consigli di fabbrica, così spesso confusi allora (ed oggi) con i soviet. Qual è dunque il giudizio che se ne può dare, alla luce della teoria marxista? La risposta è:

 

«Essi non possono costituire, come i sindacalisti ritengono, le cellule della nuova società, e noi non dobbiamo ritenere che questa nuova forma di organismo possa avere tale valore. Io ritengo che il sorgere dei consigli di fabbrica debba avere da noi questa interpretazione: finché il proletariato non ha la sensazione che il regime attuale debba essere cambiato, lotta attraverso le forme sindacali per mi­gliorare le proprie condizioni di lavoro, poi lotta nelle singole aziende, ha la sensazione che queste stiano per essere tolte all’imprenditore privato per passare a lui, e allora, pur non avendo una concezione precisa, si organizza in modo che quel tale gruppo di lavoratori sia garantito durante questo processo di trasforma­zione, e forma degli organismi nuovi, che, quando non intervengano altri coefficienti (che sono quelli politici) sono organismi che danno oggi dell’imbarazzo agli impren­ditori privati, ma possono anche diventare domani, di fronte all’imprenditore col­lettivo, al proletariato comunista emancipato, un danno economico a causa degli interessi particolari di quel gruppo.

«E anche qui l'esperienza ci dà ragione. E' avvenuta in Russia, dopo il primo periodo anarchico e sindacalista, non socialista secondo me, l'espropriazione delle singole aziende da parte degli operai e non dello Stato; è avvenuto in Ungheria che i consigli di fabbrica, mentre l'esercito comunista si batteva al fronte, hanno detto al governo: non si fanno più munizioni se la razione di carne non viene aumentata di tanti grammi. (3)

«Giacché queste forme di organismi, benché abbiano un respiro più vasto dei vecchi sindacati, ne mantengono tutti gli egoismi, - quindi la necessità che il loro arbitrio nelle officine non sostituisca l'arbitrio dell’antico imprenditore privato; al­trimenti, potremmo immaginare un'economia senza capitalisti né a profitto capitalista, un economia come la concepiscono i mazziniani e gli anarchici, un'economia in cui ogni singola azienda sia gestita come una cooperativa dai suoi operai, ma che poi smerci il suo prodotto sul mercato generale, nel sistema della libera concor­renza; e quest'economia liberista sarebbe sempre un'economia borghese, non avreb­be nulla in comune col comunismo, perché il maggior benessere che il comunismo vuol raggiungere non deriva tanto dalla soppressione del profitto capitalistico quanto dal sostituire al sistema vigente un sistema di buon rendimento, un sistema razio­nale, che permetta alla classe produttrice di esplicare tutte le sue energie nel senso dei suoi obiettivi finali, del suo programma massimo».

 

Eccoci quindi ricondotti al problema del potere politico, dello Stato come strumento centrale della trasformazione economica, come dittatu­ra della classe vittoriosa sulle classi vinte, e della necessità di agire sulla linea che alla sua soluzione conduce (ed è notevole come, in questo discorso, la negazione della democrazia e l'affermazione della dittatura come potere centralizzato e centralizzatore vengano poggiate sul fatto economico materiale che l'economia comunista spezza ogni limite azien­dale e locale, sopprimendo la stessa unità-azienda, con il suo bilancio di entrata e di uscita):

 

«Ed allora, altra è la via che ci deve condurre alla soluzione del problema, ed è quella su cui la Terza Internazionale ci richiama, quella della conquista del potere, e quando il proletariato va verso questa soluzione il Partito socialista ha il dovere [...] di andarci direttamente [...] senza compiere gli errori compiuti nel passato. Ricordatevi: all’indomani dei moti per il caroviveri si diceva: è un fatto rivoluzionario., in quanto era un sintomo dell’insofferenza proletaria; ma esso dimostrava anche che il proletariato non aveva la sensazione, e nessuno gliela aveva data, di dove doveva colpire. Il proletariato allora agiva in un modo puramente em­brionale: metteva le mani sui prodotti, se li distribuiva, ma senza preoccuparsi dove questi prodotti venissero fabbricati, chi ne avrebbe garantito il rifornimento. E noi diciamo: vi è l'atto rivoluzionario, vi è lo spirito che forse accompagnerà tutte le rivoluzioni, ma non vi è il concetto rivoluzionario, perché non bisogna dire ai pro­letari: impadronitevi dei beni, strappateli al capitalista, mentre è allo strumento della produzione che bisogna badare, alla fabbrica, al campo! E il proletariato oggi l'ha compreso, ed invece di saccheggiare i negozi, i magazzini, tende a impadronirsi delle fabbriche, ma in modo caotico, e i comunisti, che sanno di dover andare più avanti, non devono illudersi, - giacché sarebbe una soluzione piccolo borghe­se - che, perché una bandiera rossa sventola su di un'officina, si sia strappato un pezzo di vittoria.

«Il Partito comunista ha il compito di illuminare il proletariato, di fargli ve­dere e mettere in risalto nelle condizioni particolari del luogo gli interessi comuni di tutti i proletari di qualunque paese, e di fargli capire che non basta nemmeno che metta direttamente le mani sugli strumenti di produzione, ma che bisogna creare le condizioni storiche della nascita del sistema comunista, il quale non può cominciare a nascere e non nasce oggi, perché, quando lo Stato borghese accentra nelle sue mani una parte dei mezzi di produzione, in quanto tutto il rapporto eco­nomico attraverso cui queste aziende collettive, nel senso ristretto delta parola, - siano esse lo Stato o gruppi di produttori - si procurano le materie prime, resta rinserrato nel quadro dell’economia capitalista, la soluzione comunista non può avere inizio.

«E' necessario quindi ricorrere a un altro coefficiente, il coefficiente politico, che in questo senso si connette col fatto economico. Perché, come dimostra la dialettica del marxismo, non è necessario l'intervento della guardia regia o della mitra­glia borghese a uccidere i proletari che hanno elevato la bandiera rossa su una fabbrica; per far crollare l'esperimento basterà lasciare quegli operai in quell’azienda, perché, finché non saranno creati i nuovi organismi e gli antichi rimarranno nelle mani della borghesia, nel momento stesso in cui la piccola comunità proletaria pren­derà possesso dell’azienda quell’esperimento è destinato a fallire, in quanto man­cheranno le materie prime, e i prodotti non si potranno smaltire (4). E, prima di espropriare le fabbriche, bisogna aver preparato il sistema dei nuovi organismi eco­nomici, i nuovi sistemi di scambio e di distribuzione, perché delle aziende si po­trebbe prendere possesso anche subito, ma se non si sa inserirle nell’embrione del nuovo sistema comunista sarebbe opera sterile ed inutile, e significherebbe esporsi a un esperimento che potrebbe fallire e ridondare a favore dell’economia borghese».

 

Al proletariato, quindi, bisogna indicare la necessità inderogabile di:

 

«collettivizzare le lotte, unificarle; ecco il compito del Partito comunista, non nel senso che si chieda la tutela di tutti i piccoli egoismi, di tutti i piccoli appetiti, nell’il­lusione che dall’unione di questi piccoli interessi possa derivare il grande interesse e quindi il grande sforzo collettivo proletario, ma nel senso che si sappia fino dal primo momento che l'unità deve essere di qualità e non di quantità, che l'interesse generale deve andare avanti tutto, anche contro gli interessi particolari dei gruppi, ed è solo sul terreno politico che si può riassumere la coscienza storica attraverso la quale il proletariato subordina la sua lotta per gli interessi di gruppo o di cate­goria ad una superiore visione, la visione che il Partito trae dalle viscere del proletariato, senza passare per i consigli di fabbrica e i sindacati, senza divenire un aggregato di organizzazioni aderenti a questi piccoli interessi (5).

«[...] Si deve [perciò] far sì che ogni proletario, come individuo di una clas­se, faccia causa comune con tutti i proletari, si disponga a lottare anche se nella lotta dev'essere sacrificato l'interesse del suo gruppo o della sua azienda, perché poi l'instaurazione del nuovo sistema di produzione e di distribuzione eliminerà questa possibilità.

«Quindi il partito di classe è squisitamente politico, in quanto è il depo­sitario di una coscienza storica e di un principio di unificazione degli sforzi del proletariato, che vuoI dire collegare gli sforzi di quei proletari non più a un fatto individuale; e, se vi sono dei gruppi o degli organismi proletari che sono al di sotto di questo, il Partito comunista deve procedere egualmente senza aver la pretesa di inquadrarli senz'altro. Se no, si fa dell’operaismo riformista.

«A questo segue la conquista del potere da parte del proletariato, la conqui­sta del potere politico, perché l'attuazione del nuovo sistema economico non di­pende dalla soppressione del profitto del capitalista; la creazione del nuovo siste­ma economico può essere impostata solamente sul nuovo sistema di direzione poli­tica della società, solamente sull’organizzazione politica del proletariato in classe dominante, e a questo i soviety sono chiamati a rispondere; questo è il loro compito; non perché abbiano questo strano nome, non perché rappresentino una forma nuova che Marx non abbia previsto, ma perché è il risultato pratico di ciò che egli di­ceva, cioè che il proletariato deve prendere possesso del potere, e ne deve prendere possesso con una forma storica di rappresentanza che sarà diversissima dalla forma di rappresentanza attuale, non accontentandosi di aver la maggioranza dei deputati e degli uomini di governo in un'assemblea in cui tutte le classi sono rappresentate, ma realizzando la sua, in cui cioè saranno esclusi dal diritto all’elettorato gli uomini della classe borghese. Sono cose vecchie, le abbiamo dette tante volte, ma il partito non le ha superate nella sua pratica (6).

«[...] Non so se attraverso lo sciopero di Torino sia venuto il momento di mettersi o no su questa via, ma, quando il momento sarà venuto, bisognerà pur dire che la via è quella, cioè sostituire il sistema dei soviety a quello della demo­crazia borghese, cioè realizzare un nuovo tipo di rappresentanza; ed ecco come il problema della costituzione dei soviety è problema di coscienza storica e politica, e il Partito deve maggiormente diffonderne il concetto non permettendo che possa essere alterato da quelli che nel Partito stesso sono alla riva opposta. E' il sistema di rappresentanza che bisogna affermare; bisogna proclamare che solo attraverso lo sfasciamento delle istituzioni parlamentari il Partito comunista può avere nelle sue mani il potere, e lo può perché rappresenta la parte più cosciente del proletariato, mentre nel movimento vive ancora e si lascia ancora affermare che il Partito socia­lista non è maturo per prendere il potere. Si dice questo e, qualora dovesse sfortuna­tamente realizzarsi in Italia - cosa che non sarà possibile, perché in quel momen­to il contrasto tra questi due metodi, che finora è stato soffocato, forse per respon­sabilità dell’attuale direzione del Partito, scoppierebbe irrimediabilmente -, qualora dovesse realizzarsi l'avvento di un Governo socialista con una maggioranza socialde­mocratica, sarebbe un disastro se il proletariato si illudesse di aver fatto così un passo sulla via delle sue rivendicazioni [...]; sarebbe un disastro se il proletariato non comprendesse che questa non è che l'ultima forma della difensiva del capi­talismo [...]».

 

Ne segue per il partito un'alternativa ben precisa;

 

«Vi sono dei paesi, come la Georgia e il Caucaso, in cui tutti i deputati meno due erano socialisti, due soli borghesi: ebbene, questa forma politica di po­tere nulla ha fatto per il proletariato, non ha compiuto nessun passo nel senso della socializzazione, della limitazione come che sia dei privilegi e dei diritti del capita­lismo; è servito solo a far da complice alla borghesia dell’Intesa per strozzare la Russia dei soviety, cioè il paese in cui veramente il proletariato aveva il potere nella sua forma specifica, cioè con la sua dittatura, con la negazione di ogni rappresen­tanza borghese.

«Sono cose notissime, ma la tesi contraria vive ancora nel nostro paese, non l'abbiamo condannata apertamente, forse solo teoricamente; e così non ne evitiamo le conseguenze. Perché a questo concetto piccolo-borghese di sminuzzarsi, di fram­mentare l'azione del Partito facendolo il gerente responsabile di qualunque movi­mento proletario, deve sostituirsi l'altro della costituzione dei soviety, e quando il Partito sarà in grado di costituirli, quando la situazione presenterà questa situa­zione storica, allora sì che si potranno costituire efficacemente i soviety; che se invece si costituissero adesso, danneggerebbero soltanto il nostro movimento e la nostra propaganda».

 

Conquistato il potere e costituiti i soviet,

 

«noi allora potremo anche aspettare dieci o venti anni a raggiungere la risoluzione integrale del problema economico,  perché quello che diceva Graziadei, che il marxismo è riformista nel campo economico, e quello che diceva Tasca a proposito della concezione gradualista, noi l'abbiamo già detto e ripetuto tante volte e, come sopravvivono nel regime politico capitalistico, dopo quasi un centinaio di anni, in certi angoli d'Europa, ancora dei resti di economia feudale, così sopravvivranno resti di economia capitalistica sotto la dittatura del proleta­riato, ma intanto verrà iniziandosi quel processo di trasformazione, che sarà gra­duale, e non come lo vogliono gli anarchici, i quali, concependo la rivoluzione sotto la forma di una radicale e totale trasformazione economica immediata, non hanno un concetto rivoluzionario, ma sono dei sognatori, degli illusi, e quindi la peggior specie di avversari del proletariato.

«E qui è la contraddizione del Partito socialista, che, mentre ha aderito alla Terza Internazionale, segue una sua pratica quotidiana di cui possiamo vedere gli effetti attraverso il movimento sindacale e l'azione parlamentare e elettorale, contrad­dizione che io credo disastrosa per la causa della rivoluzione; ma la responsabilità di ciò cade sulla maggioranza massimalista del Partito che, non avendo un'azione completamente a sé, si trova esposta a questo gravissimo sfacelo, e io non mi sorprendevo quando sentivo dire che la colpa è della Direzione che non ha saputo approfittare dell’occasione. Perché io non credo alla teoria dell’occasione, a questo cliché piccolo-borghese che dimostra appunto quanto sia piccoloborghese l'ideologia degli estremisti dell’altro campo; cliché che si riproduce ogni volta che ci sono degli scioperi, che ci sono degli eccidi, e si ripete la stessa storia dell’occasione rivoluzionaria che la Direzione e la Confederazione del lavoro strozzano non dando la parola d'ordine dello sciopero generale. No, noi della frazione più estrema del Partito non ci mettiamo su questo terreno; noi vediamo in un altro campo la responsabilità della Direzione; in un campo in cui la responsabilità è dello stesso Partito e di tutti voi, compagni. Essi non potevano agir diversamente, perché quando la storia scriverà in una delle sue pagine questa occasione, non si potrà far a meno di perderla finché mancherà la condizione prima del successo, che è la formazione di un substrato di coscienza storica e teoretica nel Partito, scopo verso il quale il Partito non ha concentrato la sua azione, perché invece la sua azione è frammentaria, si occupa di cose di cui non si dovrebbe occupare, di cui si dovrà invece occupare un nuovo partito, un partito socialdemocratico; e se ne occupa sperperando così quella forza che invece dovrebbe contribuire a condurre il proletariato italiano sulla via sulla quale soltanto può preparare i suoi destini. Ora siamo lontani assai da questo, ed è perciò che non posso accettare la parte generale della proposta della Direzione».

 

L'oratore passa quindi a esaminare la tesi svolta da Tasca, il qua­le da un lato propugna la fusione degli organi politici e sindacali nei Soviet e l'adesione di questi alla Terza Internazionale, dall’altro - ma questa non è che l'altra faccia della stessa medaglia - scambia la forma-soviet per il contenuto della lotta rivoluzionaria di classe.

 

«E' un'utopia piccolo-borghese credere che il problema della rivoluzione sia un problema di forma: non è il sindacato né il consiglio di fabbrica, è il rapporto delle forze che ad un determinato momento si urtano nel campo sociale; e la rivo­luzione si realizzerà quando la forza politica sarà nelle mani del proletariato».

 

E' esente da questa utopia il progetto della direzione? (7) No, e lo dimostra l'esame dei suoi diversi accapi:

 

«Illuminare, organizzare le grandi masse. Ma non è il Soviet che lo deve fare; è il partito. Se il Soviet è nelle mani dei controrivoluzionari, illuminerà le masse a modo loro. E siamo noi che dobbiamo assumerci questo compito di illuminazione delle masse; non si può cederlo a questi organismi. Entro questi orga­nismi il partito illuminerà il proletariato; attraverso essi troverà nuove superfici di contatto col proletariato per dargli il suo programma; ma non sarà ad essi che potremo affidare questa funzione. Anche in Austria è stata proposta l'unione dei sindacati al partito politico, ma questa interferenza non può avere che un effetto controrivoluzionario.

«Il secondo accapo dice: studiare e proporre i mezzi e gli organi per la rea­lizzazione del comunismo. Anche questo è compito del partito e non del soviet.

«Terzo accapo: formare il nuovo Stato proletario, accelerando così il cozzo con lo Stato borghese. Ma non vi è il cozzo tra due Stati, bensì fra lo Stato e la classe dominata. Lo Stato proletario sorgerà il giorno in cui la classe dominante sarà sopraffatta dalla insurrezione proletaria; allora sarà possibile costituirlo; facendolo oggi, faremmo una caricatura e non un organismo vitale. Questo che dobbia­mo costituire oggi è un organismo di negazione (8), quindi l'istituzione vera è il Partito di classe, negatore e rivoluzionario, del proletariato libero da ogni impaccio, che gli impedisca di marciare verso la sua emancipazione.

«Quarto accapo:  ostacolare, paralizzare l'esperimento socialdemocratico. An­che questo non è compito dei Soviety: non l'avete ostacolato nel Partito; come po­trete paralizzarlo attraverso i soviety?

«Le questioni non bisogna aggirarle, bisogna affrontarle nella pratica rivo­luzionaria e marxista. I compagni di Torino dicono che per uccidere i sindacati hanno trovato il veleno: i consigli di fabbrica, le nuove forme di organizzazione. Voi credete che la costituzione dei soviety politici impedirà ai riformisti socialdemo­cratici di confondere la coscienza politica del proletariato, che invece può essere solo difesa ed affermata da un Partito veramente comunista che prepari il proletariato a combattere gli uomini e i partiti che questo esperimento tenteranno di realizza­re domani.

Quindi a me pare che la Direzione del Partito si illuda di rimediare con la costituzione dei soviety a quelli che sono tutti gli errori non suoi, ma della situazione nostra e della maggioranza [...]. Ecco perché noi non siamo per il progetto della Direzione del Partito: ammettiamo il principio che i consigli operai pos­sano sorgere prima della conquista del potere, come organismi entro i quali me­glio possa essere portata quella che è lotta di anni ed anni del partito politico di classe contro il regime della borghesia; neghiamo l'opportunità che il Partito socialista li costituisca in questo momento».

 

Quali i presupposti di un'azione tesa verso quella preparazione rivoluzionaria della quale la costituzione dei soviet può essere soltanto un aspetto?

 

«Un compito enorme ci attende. L'abbiamo accennato, non mi dilungo; è un compito grandissimo che non è stato qui nemmeno in minima parte affrontato. Appunto perché è un compito di preparazione dell’ideologia proletaria e della tat­tica proletaria [...], esso non può essere assolto se il Partito non si libera prima del bagaglio delle sue responsabilità tradizionali, che sono non comuniste, che non corrispondono all’attuale sostanza del periodo storico ma a quella del periodo nor­male; e solo quando il Partito si sarà liberato di questo bagaglio di attività tradi­zionali, che è agli antipodi della Terza Internazionale nel campo dell’organizzazione sindacale e dell’azione parlamentare; quando il Partito si sarò sfrondato di tutto questo insieme pletorico di organismi e attività, un compito sarà dinanzi ad esso, un compito di pensiero, di studio, di critica, e questo compito è colossale.

«Si sono accusati tante volte gli estremisti di essere dei teorici, ma suffi­cienti esperienze hanno dimostrato come la teoria abbia condotto alle migliori rea­lizzazioni pratiche; ed anche l'accademia socialista è necessaria ed anche a questa attività deve essere indirizzato il proletariato, malgrado sia costituito da gente che non ha potuto studiare, affinché possa essere permeato dal movimento comunista che, contro un pensiero che è un pensiero decadente, contro una filosofia che è una filosofia in sfacelo, dovrà condurre alla costituzione di una società nuova.

«Anche in questo campo il compito è colossale: ormai la borghesia è inca­pace di intendere l'enorme elaborazione che si svolge nelle file dell’internazionale politica, ed anche noi siamo indietro ai nostri compagni e dovremo fare un lavoro enorme per raggiungerli. Noi siamo vissuti nella democrazia borghese: non abbia­mo una stanza per nascondere un compagno, non abbiamo un timbro per falsificare i passaporti, non abbiamo cose che servono a questo lavoro rivoluzionario. Noi consideriamo ancora il problema secondo la vecchia mentalità: le armi il proleta­riato potrà trovarle, ma il Partito manca di mezzi tattici per l'azione che si chiama illegale; ne manca completamente perché si lascia attrarre dalle insidie della demo­crazia borghese, che lo sovraccarica di compiti minimi e riesce così a spezzare la sua azione. Il più efficace avversario della lotta del proletariato è un regime di avanzata democrazia, questo lo dimostra anche la critica marxista; e noi sappiamo come minori difficoltà abbia trovato la dittatura del proletariato nel regime zarista russo che non nell’Occidente. La borghesia ci metterà di fronte tutte le sue forze brute per schiacciarci: oggi ci mette di fronte un organismo anche più insidioso e terribile, perché non colpisce al petto ma è il veleno che fa cadere le nostre brac­cia armate per realizzare la nostra battaglia e il nostro scopo; un veleno che è in noi, di cui il proletariato si è imbevuto attraverso l'esercizio di attività democra­tiche, ed ecco perché sostenemmo a Bologna la tesi astensionistica [...]»-

 

Accennato alla necessità di stretti rapporti con l'Internazionale, l'oratore ribadisce l'urgenza di infrangere un'unità falsa e bugiarda, a costo di dolorose amputazioni, per procedere infine compatti, anche se pochi, su una via unica e diritta:

 

«Siccome vi è qui una specie di assemblea costituente del Partito, e non ab­biamo il coraggio di convocare un altro congresso dopo l'esito di quello di Bologna, io mi limito a dire che il nostro atteggiamento di negazione di fronte all’esa­gerato valore attribuito a certe attività - a quella parlamentare come a quella sin­dacale e a quella da svolgersi domani nei consigli di fabbrica -, non è nullismo, ma negativismo, in quanto noi diciamo che il Partito comunista esiste solo per ne­gare finché non abbia cambiato il sistema rappresentativo attuale.

«Domani ci vorranno dei tecnici; ma sarebbe un errore formare i nostri tecnici oggi, nel seno dell’economia capitalista. Ogni proletario è per la sua piccola parte un tecnico, ha delle qualità tecniche e direttive che oggi rimangono nelle mani della borghesia, ma la forza politica del proletariato, attraverso la sua ditta­tura, superera questo ostacolo, e, come in Russia i proletari hanno dovuto per tanto tempo lavorare per il profitto del capitale, i tecnici lavoreranno per forza sotto il pugno di ferro del proletariato per il profitto della nuova società comu­nista (9). Se dovessimo fabbricarli oggi, non potremmo farlo che entro gli organi economici della borghesia ed attraverso la nostra forza migliorarli; invece dobbiamo prenderli nel momento della scomparsa della borghesia. Ed ecco perché questo non è nullismo, ma tattica di negazione, perché nel nostro concetto rivoluzionario il Partito è sempre vivo e vitale, ma negativo.

«Ecco quale è il compito su cui si dovrebbe concentrare la sua azione. Noi accettiamo dunque la preparazione del Partito e del proletariato alla costituzione di nuovi organismi, la preparazione del Partito e del proletariato a tutti gli aspetti del moto rivoluzionario; ma purtroppo vediamo che questa preparazione non sarà possibile finché non saranno fatte altre amputazioni nel campo del programma, della tattica e nei quadri del nostro Partito.

«Questa la verità che avevo il dovere di dire. Non presento delle conclusio­ni, che non so nemmeno se potrei presentarvi; in ogni modo, a solo scopo di in­formazione, vi presento sul tema della costituzione dei soviety le proposte del Comitato centrale della Frazione astensionista, che faccio a meno di leggervi, e che nell’ultima parte si dilungano anche sul compito del Partito politico.

«Chiudo: credo che le attuali deficienze del Partito rappresentino una aperta infrazione dell’atto di adesione all’Internazionale di Mosca. L'Internazionale di Mosca può non essere d'accordo con noi sulla questione del parlamentarismo, ma in molte delle sue manifestazioni ha fatto intendere che il Partito socialista non è sulla via che gli permetterà di essere un vero Partito comunista. E' questione non di nome, ma di metodo, e anche nei recenti comunicati di Amsterdam (10) si dice che l'equivoco dell’unità deve essere superato.

«Concludo, e mi riferisco alla vostra posizione di fronte al problema dell’unità. Voi siete rimasti unitari. E' questo che ci divide da voi: non tanto la que­stione della tattica elettorale, che abbiamo discusso a Bologna e che discuteremo sempre, ma questo nocciolo fondamentale; ed ancora una volta io, attraverso la mo­destissima mia voce, metto agli atti del Partito la nostra opposizione alla soluzione di essa, e ancora una volta dichiaro che i pochi compagni che sono sul terre­no della nostra Frazione vedono in questo una questione capitale; vedono la ne­cessità che il proletariato, staccandosi dalle consuetudini del vecchio partito, abban­doni una parte dei suoi quadri per creare una compattezza maggiore, formando un partito di qualità e non di quantità, per mettersi nella condizione schematica che io matematico paragono a quella di tante forze che agiscono in senso parallelo, men­tre adesso abbiamo moltissime forze fra loro divergenti la cui risultante è chiara­mente minore di quella di un sistema che abbia forze molto minori, più limitate, ma tutte dirette nello stesso senso. Questo è il problema fondamentale, e di qui discende l'incertezza di un Partito socialista che si basava pochi mesi fa su formule inficiate di anarchismo come quella dello sciopero espropriatore, e che da queste formule è disceso alla pratica del riformismo parlamentare [...]. Domani forse per­deremo il Piemonte per tutto l'insieme di errori fatti dalla maggioranza massimalista, perderemo altre regioni a brevissima scadenza e questo perché non avete una pratica unica, netta, precisa, delimitata, chiusa da barriere su tutti quanti i fronti, verso tutti gli errori […].

«Termino con un augurio, - perché il successo noi non lo vediamo che as­sai lontano, e dobbiamo quindi limitarci ad un augurio: l'augurio che presto, per le ferree necessità della storia, si delinei il momento in cui il proletariato, il comu­nismo, riescano a fare il passo decisivo e mettersi così nella vera condizione di vi­vere e di ottenere vittoria. Questo noi auguriamo, e questo compito ancora una volta mettiamo dinanzi agli occhi dei compagni della maggioranza del Partito: im­mensa è la responsabilità che avete di fronte alla storia; questa è la situazione di cui dovete occuparvi, lasciando da parte le piccole questioni di lotte economiche, lasciando da parte le questioni che possono venire agitate comunque in un parla­mento borghese».

 

Avendo il lungo discorso provocato occasionali rilievi da parte sia della maggioranza che della minoranza, il rappresentante della Fra­zione comunista astensionista dovette successivamente riprendere la parola per tracciare una netta linea di demarcazione fra la concezione nostra e quella di tutto il partito. A Gennari, che gli aveva obiettato di aver sostenuto a Bologna la necessità della costituzione dei soviet e di negare ora che ne esistano i presupposti, egli risponde che la posi­zione assunta a Bologna era esplicitamente condizionata all’abbandono della partecipazione e preparazione elettorale per concentrarsi nella preparazione rivoluzionaria: venuta a mancare tale premessa, si è rotto l'anello destinato a collegare la «crisi di sfacelo» della classe avversa all’attacco concentrato della classe proletaria. Ironizzando, l'oratore ri­prende un tema caratteristico di una delle costanti nella posizione della Sinistra. Se ci si accusa di «inattività», noi rispondiamo che la carat­teristica dell’opportunismo è appunto «l'iperattività»:

 

«Non so se è periodo rivoluzionario quando volete fare le ele­zioni; non so se è periodo rivoluzionario quando volete fare i Soviety. Volete sempre fare, e si potrebbe concepire che sentiate il bisogno di creare i Soviety appunto perché il risultato dell’azione parlamentare, che voi avete voluto, ha avuto l'effetto di deprimere il tono rivoluzio­nario dell’azione proletaria e voi volete ora assegnare valore rivoluzio­nario all’azione del partito che segue la vostra tendenza, per nasconder­ne la mancanza di ogni continuità».

 

Ribadito che tutto il dibattito rivela l'assoluta impreparazione del partito ad affrontare il grave problema, c che tale impreparazione ri­flette l'immaturità del proletariato nel suo insieme, il relatore conclude questa sua prima parte riaffermando che solo quando il partito abbia realizzato la condizione primaria della dichiarazione di incompatibilità nel partito e nella III Internazionale di tutti coloro che ammettono an­cora la via socialdemocratica della conquista del potere, solo allora esso sarà maturo ad affrontare la situazione storica destinata imman­cabilmente a presentarsi e nella quale soltanto potrà procedere alla co­stituzione di nuovi organismi proletari per condurre la lotta definitiva contro lo stato borghese.

A Modigliani, che aveva abilmente cercato di tirare l'acqua delle nostre argomentazioni al mulino del... gradualismo, Amadeo Bordiga risponde:

 

«Per noi il sistema sovietista non ha un valore formale ma sostanzialmente storico, dialettico, marxista, in quanto per noi questa è la definizione della dittatura del proletariato: che essa rappresenta il proletariato organizzato in classe dominante; non è la rappresentanza di tutte le classi come nella democrazia borghese, ma è la rappresentanza di una sola classe. Qualunque organismo, il quale ci dia la rap­presentanza di classe del proletariato avente nelle sue mani il potere, cioè la forza, è senza equivoco l'organo sovietista per quanto possano essere diverse e com­plicate le formule di disciplinamento e di regolamentazione, mentre non può esservi alcuna confusione con quelle forme generiche e indistinte di rappresentanza del la­voro, alle quali Modigliani accennava senza metterle in inconciliabile antitesi con le forme della rappresentanza borghese, il parlamentarismo e il sistema della demo­crazia, della rappresentanza comune delle diverse classi, che secondo noi è la con­dizione storica della dittatura sociale e politica della classe borghese e del capitalismo.

«Quindi noi rivendichiamo integralmente il principio sovietista comunista, il principio della dittatura proletaria, e crediamo assolutamente impossibile confondere quella che è la nostra opposizione di oggi, nella situazione italiana e soprattutto nella situazione di un partito che vuole prendere questa iniziativa, ad un progetto che crediamo infecondo e inopportuno, con l'opposizione che allo stesso progetto, come portavoce dei socialdemocratici, ha qui svolto il compagno Modigliani, opposi­zione la quale, contrariamente alla nostra che riafferma i principi del comunismo, è un'opposizione che del marxismo nega i cardini fondamentali».

 

Inutile dire che il discorso cadde pressoché nel vuoto: l'ordine del giorno della direzione, di pieno appoggio alla mozione Gennari-Regent-­Baldesi, passò con 94.936 voti (ma con 20.950 contrari), mentre un emendamento Polano-Toscani per la generalizzazione su scala nazio­nale dell’esperimento dei soviet degli operai, contadini e soldati, ne ottenne 8.930. Va anche detto che l'esperimento morì prima ancora d'es­sere tentato: rimase pacificamente sulla carta delle mozioni ufficiali...

Non ci soffermiamo sulla parte conclusiva del Consiglio, tutta de­dicata alla questione dell’intervento del partito alle elezioni ammini­strative e, naturalmente, assorbita da un dibattito assai più animato di quello intorno ai commi precedenti. L'ordine del giorno ufficiale ven­ne approvato, si direbbe, all’unanimità. Può essere malinconico aggiun­gere che, predisponendosi alla battaglia per la conquista delle ammini­strazioni comunali concepita come episodio «di lotta rivoluzionaria pro­letaria», nonché come esempio di «concretazione comunista» e di «opposizione antiborghese» (attraverso, fra l'altro, la conquista dell’...autonomia municipale!), il partito raccomanda agli enti locali, là do­ve siano istituiti anche i soviet, di rimettersi «al loro parere per ciò che riguarda i problemi locali, riconoscendo così i nuovi organi proletari e preparandosi ad affidare ad essi pienamente il potere comunale e provinciale»!  Superfluo aggiungere che nessuna voce discorde su questo punto si levò dal gruppo dell’«Ordine Nuovo»    non a caso, perché la concezione ufficiale del partito di «appropriarsi anche degli organi attuali del potere per poterli all’uopo adoperare, prima agevo­lando con tutti i mezzi materiali e morali l'atto rivoluzionario, poi sostituendoli con quelli comunistici», coincideva con la visione di gra­duale conquista dei «centri naturali» della vita proletaria nell’ambito dello stesso regime capitalista, propria di quella corrente.

Il Consiglio nazionale decise infine di tenere subito dopo la chiu­sura dei lavori una riunione a carattere internazionale, in conformità all’auspicio che si allacciassero «più intimi e continui rapporti con le varie sezioni dell’Internazionale comunista» e che si facessero opportuni passi per la costituzione di un unico ufficio della III Internazio­nale per l'Europa occidentale. L'incontro avvenne a porte chiuse, ma ne è rimasta la testimonianza di Alfred Rosmer, secondo il quale vi parteciparono Serrati, due deputati italiani, alcuni ungheresi, alcuni au­striaci, un russo, un rumeno, un bulgaro e il leader degli zimmerwal­diani francesi, Fernand Loriot:

 

«Ciascuno dei partecipanti sapeva grosso modo quello che avveniva in Europa e nel mondo, ma era impaziente di informazioni principalmente su quel che succe­deva nelle nazioni balcaniche e dell’Europa centrale, che erano state più delle altre sconvolte dalla guerra e dai rivolgimenti postbellici. Si era ansiosi di conoscere lo sviluppo di questa Europa wilsoniana, frutto dell’utopia di un intellettuale liberale americano, di un professore presbiteriano. Da parte loro, i nostri compagni balca­nici anelavano di conoscere il movimento operaio delle grandi nazioni occidentali. Tuttavia, poiché ci trovavamo a Milano e poiché la situazione italiana poteva esse­re a giusto titolo considerata come prerivoluzionaria, l'attenzione si concentrò su questo paese. Invitato a farci un'esposizione, Serrati se ne astenne e ne incaricò il deputato Sacerdote: questi ci fece una specie di rapporto amministrativo facendo l'elenco dei deputati socialisti, dei comuni, delle regioni intere, città e campagne, conquistate al socialismo: ci parlò del continuo accrescimento dei sindacati e degli scioperi generali attraverso i quali la classe operaia interveniva su ogni problema importante della vita politica. Era interessante, impressionante e incoraggiante, ma noi ci aspettavamo dell’altro».

 

Rosmer ricorda le parole che, accortosi della delusione degli inter­venuti, Serrati pronunciò a chiusura dell’incontro, e che si possono con­siderare autentiche perché riprendono concetti che abbiamo visto il di­rettore dell’«Avanti!» costantemente ripetere e che tingeranno di retorico trionfalismo il suo rapporto sull’Italia all’IC:

 

«Abbiamo con noi la città e la campagna: gli operai ci seguono, i contadini non sono meno entusiasti. In parecchi comuni rurali i sindaci hanno sostituito il ri­tratto del re con quello di Lenin. Noi possediamo la forza, una forza che nessuno, amico o avversario, si sognerebbe di contestare. Il solo problema che si pone è quello dell’utilizzazione di questa forza» (11).

 

E scusate se è poco! Il giorno prima, già chiusa la discussione sui soviet, e con parole nelle quali non è difficile sentire l'eco di una gioia maligna, lo stesso Serrati aveva annunziato la conclusione dello sciope­ro delle lancette, e ne aveva tratto un ennesimo spunto per scagliarsi contro gli atti di indisciplina alla periferia del partito: forte dell’appog­gio di operai e contadini, il PSI non sapeva che farne al vertice e la­sciava che si sprecasse alla base! Vogliamo, dopo ciò, prendere sul se­rio la comunicazione del prefetto di Milano al ministro degli Interni che un gruppo di partecipanti al Consiglio nazionale inviperiti per il con­tegno equivoco della direzione e diffidenti dei riformisti, si sarebbe riunito in segreto per elaborare il piano di costituzione di una «guardia rossa» composta di iscritti al partito e militari congedati (12)? Ben altro vento tirava, entro e fuori l'aula del consesso!

Eppure, tale era la leggerezza dei massimalisti nel vantare i suc­cessi ottenuti in Italia soprattutto nel campo della... preparazione rivo­luzionaria, che il giovane comunista svizzero Humbert-Droz, scrivendo il 12 maggio, di ritorno dalla riunione di Milano, al compagno G. Wyss, poteva annunziare che, secondo quanto aveva appreso nel corso della riunione stessa, «il proletariato italiano è bene armato e può al mo­mento voluto cominciare il movimento rivoluzionario e, senza difficoltà, 1) impadronirsi del potere civile e militare, 2) organizzare la produzione comunista industriale e agraria»; che la lotta rivoluzionaria in Italia è più difficile che altrove, «ma i camerati italiani hanno superato queste difficoltà e attualmente il proletariato italiano è sicuro della sua vittoria che sarà vicinissima»; e che, infine, «l'esercito rosso non esiste [...], ma il proletariato italiano lo formerà al momento necessario senza dif­ficoltà»! (13).

Riportiamo il commento dedicato da «Il Soviet» del 2 maggio, sotto il titolo Il convegno di Milano, alla squallida assemblea:

 

«Assolutamente la riunione del Consiglio nazionale del Partito testé tenuta a Milano non merita lunghi commenti.

«La discussione sui vari argomenti dibattuti nella prolissa riunione (cinque giornate con varie sedute notturne) fu quanto mai vuota e slegata, fu un altro in­dizio della crisi intima e profonda che travaglia il partito.

«Logico, serrato, audace fu il gioco della destra. Essa non dissimulò la sua aperta avversione alle direttive della Terza Internazionale, e la sua opposizione irri­ducibile a qualunque azione rivoluzionaria del proletariato italiano.

«Essa affermò senz'altro il suo metodo socialdemocratico di conquista legale dei poteri borghesi, e il suo proposito di giungere fino al governo di coalizione coi partiti "avanzati" della borghesia.

«La Direzione del partito e la pletorica frazione che la sostiene non seppero opporre che la ripetizione del loro pessimo metodo: riaffermare il massimalismo nei discorsi, e lasciar correre tutte le cose come sono andate finora, coi lusinghieri ri­sultati che è facile constatare.

«Non un provvedimento che colpisse il riformismo annidato nel gruppo par­lamentare e nella Confederazione del Lavoro, non un proposito di epurazione e di rinnovamento: solo la preoccupazione di strappare - alla parlamentaristica manie­ra - il voto di "fiducia ", anche con mezzucci poco simpatici, nel momento della votazione.

«Alla discussione la destra frammischiò abilmente la polemica sullo sciopero torinese, cercando di stringere il massimalismo imbelle nel cerchio fatale del suo fallimento.

«Di confortante non vi fu che un saluto programmatico della Internazionale Comunista, che suonava monito e rampogna e che l’«Avanti!» non ha, natural­mente, riportato - e l'affermazione, seppure imprecisa per alcuni, di una corrente di sinistra nella maggioranza massimalista, desiderosa di più sicura azione e convin­ta della necessità di selezionare dai riformisti il partito.

«Questa corrente - su di un ordine del giorno presentato dal compagno Misiano, e da lui mantenuto nonostante le sollecitazioni all’ormai tradizionale rim­pasto coll’altro ordine del giorno - raccolse 26 mila voti, mentre 10 mila votaro­no, coi torinesi, la sfiducia completa nella Direzione del Partito.

«Nella discussione sui soviet - a cui partecipò il compagno Bordiga per la nostra frazione, svolgendo nel suo discorso quei concetti che sarebbe superfluo illu­strare nuovamente su queste colonne - il misero progetto della Direzione fu bat­tuto in breccia da tutte le parti. Fu votato, è vero, ma senza convinzione, senza sin­cerità, colla restrizione mentale che non si trattava - udite! - della costituzione dei soviet in Italia, ma dell’esperimento da farsi in una sola città, tanto da lasciar passare alcuni mesi... per poter fare le elezioni amministrative. Tanto vero che la proposta di costituire effettivamente i consigli operai in tutta Italia fu entusiastica­mente bocciata alla quasi unanimità.

«Non ci occupiamo poi della discussione sulle elezioni amministrative, in cui tutti, dal più destro al più sinistro, discussero nel maggior affiatamento. E' nota la risoluzione votata; essa giustifica la partecipazione al nuovo torneo schedaiolo con argomenti che non solo fanno a calci col massimalismo, ma anche col senso comu­ne. Poco mancò che non si ammettessero le candidature di estranei al Partito - a questo partito che pure ha si gran braccia! Intervenne a tempo... Modigliani!

«Una sola è la conclusione possibile: Rinnovare! Trovate al più presto, ma al più presto, la via per separare quanto in questo Partito vi è di vivo e di sano dalla cancrena che ogni giorno più si estende nel suo organismo.

«Ed è questo il compito - tutt'altro che lieve - che la Frazione astensio­nista deve senza indugio addossarsi».

 

(1)  Al Consiglio nazionale fu letto, ma l'«Avanti!» non ne parlò (e fu solo «Il Soviet» a riprodurlo) un saluto del rappresentante dell’Internazionale comunista. Esso è molto critico nei confronti della politica del Partito socialista, ma non accenna neppure a un'eventuale scissione almeno dalla destra. E' interessante tuttavia come il giudizio di «Niccolini» sulla politica del partito e sul progetto di costitu­zione dei soviet coincida sostanzialmente con quello della nostra frazione. Egli osserva che i moti spontanei per il possesso delle fabbriche e dei campi, coi quali le masse operaie «tentano di risolvere le questioni da sé», celano tuttavia un serio pericolo, dando «la sensazione ai nostri nemici di un'assenza di disciplina, di collegamento, di direzione, nel nostro movimento». Sintomi di una situazione sociale molto tesa, quelle azioni isolate, alle quali il Partito non dà alcuna direttiva centralizzatrice, sperperano inutilmente «il sacro spirito e fuoco rivoluzionario della massa [l creando un'atmosfera di stanchezza naturale, di malcontento scettico, di svalutazione pericolosissima del nostro metodo». D'altra parte, il progetto di costi­tuzione dei soviet proposto dalla direzione ha «tutti i difetti che possono solo portare ad una sconfitta» e getterà nel «più profondo discredito» l'idea dei Soviet nel caso di un «esperimento non riuscito». Esso infatti presuppone che la rivolu­zione proletaria si faccia per tappe successive («la prima colonna avanza, la seconda colonna avanza sulla carta senza tener conto dei piani del nemico») ricadendo in una concezione del tutto utopistica sul travaglio di parto della società nuova. Infine, la lettera osserva che i consigli di fabbrica non devono essere scambiati coi soviet, né portano di per sé al famoso «controllo operaio», il che non è tuttavia una ragione per sottovalutarne l'importanza come strumenti di organizzazione e «disci­plinamento» delle masse lavoratrici. Indicativa - ahinoi - delle illusioni che la III Internazionale ancora si faceva sul Partito italiano, è la chiusa del saluto «Spero che il buon senso comunista ed il sentimento classista mostreranno al PSI la via da seguire verso il trionfo, verso la Repubblica mondiale dei Sovieti»!

(2)  All’argomento della nascita e della morte dei e consigli» come strumenti rivoluzionari in Germania e in Austria «Il Soviet» aveva dedicato gran parte del numero doppio del 28 marzo riportando articoli di compagni di quei paesi. E' notevole che appunto sulle esperienze austro-tedesche le Tesi sulle condizioni di Costituzione dei Soviet redatte dall’Internazionale poggino la critica degli esperimenti «soviettisti» a freddo.

(3) Si noti il parallelismo di questi argomenti con quelli svolti da Trotsky in Terrorismo e comunismo un mese dopo.

(4)  Proprio questo avverrà, nel settembre successivo, durante l'«esperimento» dell’occupazione delle fabbriche; e saranno i borghesi, Giolitti in testa, ad averne fin dall’inizio coscienza.

(5)   Si confrontino le Tesi sul ruolo del Partito comunista nella rivoluzione proletaria, adottate pochi mesi dopo al II Congresso dell’Internazionale, che insistono appunto su queste ragioni determinanti del compito primario dell’organo politico su ogni altra forma di organizzazione della classe.

(6)  Né le aveva assimilate nella teoria.

(7)  S'intende che non lo era, a maggior ragione, l'interpretazione degli ordinovisti in Italia, dei «consiglisti» del KAPD o di altra affiliazione politica e ideologica in Germania.

(8)   Nel senso già svolto nell’articolo Realizzare? ricordato a pag. 162.

(9)                «Costruire la società socialista con mani borghesi», scriverà Lenin. durante la NEP!

(10) Cfr. più oltre, pag. 507.

(11)  Alfred Rosmer, A Mosca al tempo di Lenin, La Nuova Italia, Firenze, 1953, pagg. 14-15. La mozione del tutto generica votata al termine di questa riunione con l'impegno a dare «maggior risalto alle differenze [...] dai Partiti aderenti alla II Internazionale o che si trovano ancora incerti, obbligandoli a romperla definitivamente col riformismo e l'opportunismo» e a «delegare presso i principali Partiti comunisti dei rappresentanti di tutti gli altri Partiti comunisti, costituendo così delle ambasciate [!!!] comuniste presso i principali paesi dell’Europa occiden­tale» ecc., si legge nel nr. 14 di «Comunismo». Quanto alla convocazione di un congresso internazionale di tutti i partiti e gruppi aderenti alla III Internazionale, e alla costituzione di un solo Ufficio centrale composto di compagni di tutti i paesi d'Europa eletti dal preventivato congresso internazionale, è superfluo notare che le due iniziative non si concretarono mai.

(12)  Cit. in 11. König, Lenin und der italienische Sozialismus 1915-21, Tübingen, 1967, p. 76.

(13)  La lettera è pubblicata in appendice a: Piero Conti, Le divergenze tra gli uffici europei del Comintern (1919-1920) in «Movimento operaio e socialista», aprile-giugno 1972, pagg. 190-191.

 

6. - LA CONFERENZA NAZIONALE E LE TESI DELLA FRAZIONE COMUNISTA ASTENSIONISTA

 

Della Conferenza nazionale della Frazione (8-9 maggio a Firenze) non esiste purtroppo che il sommario resoconto ne «Il Soviet» del 16.V; ma le mozioni votate e soprattutto le tesi successivamente redatte e ap­parse nei numeri 6 e 27 giugno del periodico sono sufficienti a stabilire che si tratta in realtà della prima riunione costitutiva del futuro Partito comunista; per così dire, una Livorno in anticipo. (1)

Il problema qui, non è di varare piani di azione per il rinnova­mento del partito, né di scoprire vie intermedie atte a raccogliere in­torno a un nuovo organismo il maggior numero di aderenti alla vecchia organizzazione; ma di gettare le basi teoriche, programmatiche e tatti­che di quello che deve non solo avere i nome, ma possedere l'intero bagaglio dottrinario di un partito comunista. Se dunque il Partito comu­nista d'Italia non nasce ancora, è per ragioni       da noi ritenute deter­minanti che vanno ben al di là dell’ambito nazionale: nel maggio 1920 come in tutti i mesi precedenti, l'atto formale della costituzione in partito è rigorosamente condizionato a decisioni di carattere interna­zionale. E, come abbiamo più volte sottolineato, la posizione di Mosca nei confronti della situazione italiana continuava ad essere quella di un tentativo di recupero del Partito socialista, ufficialmente aderente al Comintern, con l'esclusione dell’ala destra o almeno dei suoi più tipici esponenti; non l'astensionismo, ma il disaccordo nella valutazione delle forze suscettibili di schierarsi senza riserve sul fronte della III Interna­zionale vieta ancora alla Frazione di compiere nella forma il passo che compie già nella sostanza. E' anche per questo che nelle sue stesse file sussistono perplessità individuali circa l'opportunità tattica di divi­dersi immediatamente dal vecchio partito, anche a prescindere dalle pressioni che in tal senso esercitano i gruppi di militanti singoli, estra­nei alla Frazione ma in vario modo e grado critici del massimalismo ufficiale, che nei mesi successivi si cristallizzeranno intorno al nucleo già organizzativamente solido e dotato di un corpo globale di tesi teo­riche, programmatiche e tattiche - degli astensionisti.

Non sono tuttavia né quelle perplessità né queste pressioni che stanno alla base dei deliberati della Conferenza, tutti ispirati alla ferma coscienza che il Partito comunista d'Italia è sorto e attende solo il crisma ufficiale della sua costituzione dal II Congresso del Comin­tern. Il crisma tarderà a venire. In un messaggio di saluto, il rappre­sentante della III  Internazionale nell’Europa occidentale, dopo aver tracciato un quadro più ottimistico di quello che della situazione era­vamo soliti dare noi nel senso di un rapido maturare dello scontro rivo­luzionario fra le classi, riaffermava:

 

«Nelle prossime lotte decisive in Italia, al Partito comunista [o socialista; anche la questione del nome sembra divenir subordinata e condizionale] incombe un enorme e pesante compito: prepararsi alla presa del potere. E per arrivare a questa nostra mèta è necessaria una disciplina del pensiero e dell’organizzazione del prole­tariato. Un partito comunista forte, lungimirante, coraggioso, è una garanzia per il trionfo della rivoluzione con le minori perdite per il proletariato. Alla vostra Fra­zione, cari compagni, rimane il compito, a mio modesto avviso, di restare in seno al Partito socialista come forza di opposizione, di critica, di controllo, finché gli av­venimenti prossimi dissiperanno le nostre piccole divergenze, come l'astensionismo e riuniranno tutte le forze sane, rigidamente comuniste e rivoluzionarie, del prole­tariato italiano nel Partito comunista, il quale è e sarà l'unico che guiderà il proletariato alla conquista del potere e all’instaurazione della Repubblica italiana dei soviety, come parte della Repubblica sovietica mondiale».

 

Il messaggio esprime con sufficiente chiarezza il giudizio dell’Inter­nazionale sulla «questione italiana»:  il PSI è ancora ritenuto una forza suscettibile in grande maggioranza di collocarsi sulla via tracciata dal I congresso di Mosca e dai fondamentali testi usciti dopo di allora dalla penna di Lenin, Trotsky, Zinoviev; e in tale prospettiva la Frazione è considerata un lievito la cui presenza permetterà di guada­gnare alla causa del comunismo gli elementi sani ma ancora esitanti che ne fanno parte; «piccole divergenze» la separano dalla III Inter­nazionale, e l'augurio di questa è che i fatti stessi valgano a superarle.

E' chiaro che una posizione di questa natura tollera sia l'atteggia­mento del segretario del PSI Gennari, intervenuto come osservatore, secondo il quale esistono bensì nel partito «elementi deleteri», ma ciò non giustifica né una «recisa eliminazione di tutta la destra», né la secessione dell’estrema sinistra; sia quello di Misiano, in rappre­sentanza della corrente che al Consiglio nazionale si era affermata sul suo ordine del giorno, il quale riconosce, è vero, «che nel partito vivono due anime ed esso deve separarsi al più presto dai riformisti, ma crede che gli astensionisti debbano restare nel Partito per unirsi agli altri comunisti in quest'opera di epurazione» e, mentre si dichiara contro l'affrettata costituzione dei soviet, «propone l'intervento nelle elezioni amministrative per non fare il gioco dei trasformisti del socia­lismo». D'altra parte quando Gramsci, prendendo la parola a nome dell’«Ordine Nuovo», nega che possa «costituirsi un partito politico sulla ristretta base dell’astensionismo» (e qui vuole dire: del program­ma comunista in genere) e ne vede per contro il presupposto in «un largo contatto con le masse, che può raggiungersi solo attraverso nuove forme di organizzazione economica» (2), è chiaro che se una lunga strada separa i due primi (come sempre, usiamo la persona come puro simbolo di una tendenza oggettiva) da Mosca da un lato, da quello che sarà Livorno dall’altro, la strada che ne divide l'«Ordine Nuovo» non è solo più lunga, ma difforme: il metro per saggiare l'esistenza del partito non è qui il suo programma  - di cui l'astensionismo è solo un aspetto e non quello discriminante - ma il fatto di poggiare su «nuove forme di organizzazione economica», su organismi immediati, extrapartitici perché necessariamente aprogrammatici.

Oltre a rispondere, come è facile immaginare che fu risposto, a questi rappresentanti di correnti estranee, solo avvicinate a noi dalla generica attrazione per il grande faro della rivoluzione di ottobre, ap­pare evidente dal rapido sommario de «Il Soviet» - ma soprattutto da una successiva polemica con Vittorio Ambrosini, personaggio molto equivoco delle cui posizioni solo gli storici dernier cri tipo Lepre-Le­vrero possono entusiasmarsi - che la conferenza della Frazione do­vette impartire vigorose strigliate ad elementi la cui adesione risaliva agli ultimissimi mesi e che avevano importato nelle sue file il tarlo a noi da sempre nemico di quella che Trotsky nel 1906 chiamò con molta efficacia «l'incapacità di aspettare», indicando in essa la «ca­ratteristica principale dell’opportunismo»: il tarlo di coloro che non possono concepire milizia rivoluzionaria senza un'azione immediata e che possibilmente abbia per obiettivo, oggi e adesso, le finalità massi­me, col risultato poi di scambiare per l'«impossibile» massimo un volgarissimo minimo, e cadere dritti dritti nel riformismo, «trasformando tutti i proletari in piccoli borghesi» e fissando loro obiettivi volgar­mente «popolari» e «democratici»; il tarlo di coloro i quali non si rassegnano al fatto che esistono situazioni, a volte non di giorni ma di anni, in cui, proprio nell’interesse di un'azione risolutiva ma non immediata, è necessario «saper aspettare» nell’apparente inattivismo in cui, in realtà, maturano le condizioni anche soggettive della vittoriosa azione di domani.

La polemica contro la malattia dell’attività ad ogni costo è vec­chia quanto il marxismo, e varrebbe la pena di parlarne più a lungo di quanto non sia consentito in queste pagine. E' caratteristico - a riprova della invarianza dell’opportunismo - che i portatori di que­sto bacillo, per cui non sono «le condizioni generali obiettive e le clas­si in esse coinvolte» a generare le situazioni rivoluzionarie, ma è la volontà degli individui, mentre la preparazione «soggettiva» ad esse - il duro lavoro preliminare di restaurazione teorica come premessa dell’esistenza organizzata del partito, e quindi di un'azione efficiente sulla base di quelle condizioni - viene guardata con fastidio come eserci­tazione puramente cerebrale, come inazione ed anti-azione; che i portatori di questo bacillo siano assai spesso i reduci di lotte «popolari» e par­tigianesche, quelli che in Italia erano nel '20 gli arditi e nel '21-22 gli «arditi del popolo», quelli che nel 1850 a Londra erano gli ex Partisanen-Chefs delle battaglie di retroguardia della «rivoluzione» te­desca così ferocemente dileggiati da Marx ed Engels. Sarebbe ingiusto avvicinare Willich e Schapper, come... arditi avant la lettre, a tipi co­me V. Ambrosini: ma c'é un fondo comune, in questi e in quegli impazienti di costituire un «partito di governo» e insofferenti di chi invece lavora per il «partito di opposizione dell’avvenire», così come c'é un filo comune tra coloro che «non sapevano aspettare» allora e, non potendone più, si aggrappavano alla democrazia piccolo-borghese facendosene i portavoce, e gli opportunisti russi del 1906. La staffi­lata di Marx nella seduta 15 settembre 1850 della centrale della Lega dei Comunisti è feroce:

 

«La minoranza sostituisce ad una visione critica una visione demagogica, alla visione materialistica una visione idealistica. Per essa, invece dei rapporti reali la ruota motrice della rivoluzione diventa la volontà. Mente noi diciamo agli operai: dovete passare attraverso quindici, venti, cinquant'anni di guerre civili e di lotte fra i popoli non solo per modificare i rapporti reali, ma per modificare voi stessi e abilitarvi al potere politico, voi dite, tutto al contrario: Dobbiamo arrivare subito al potere, oppure possiamo andarcene a dormire [...]. Come i democratici della parola popolo, così voi fate della parola proletariato qualcosa di sacro. Come i democratici, voi sostituite allo sviluppo rivoluzionario la frase rivoluzionaria».

 

Quanto a noi, l'accusa di passivismo per aver la forza di assu­mere di fronte agli operai la posizione impopolare di chi non li illude sulla efficacia di un'azione immediata per la quale manchi l'incontro fra la premessa soggettiva di quella «conoscenza dei rapporti reali» che può essere soltanto posseduta dal partito, e la premessa oggettiva dello sviluppo di quegli stessi rapporti, ci accompagna fin dal primo sorgere del nostro movimento come movimento organizzato. La questione per noi era da tempo chiara, né avevamo dissimulato il nostro modo di porla. Già in una nota ne «Il Soviet» del 16 maggio era stato scritto:

 

«Noi non abbiamo alcuna fretta né alcuna impazienza, giacché sappiamo che nessuna rivoluzione è stata fatta né sarà mai fatta dalla volontà di uomini o di gruppi e che, d'altra parte, quando il processo di disfacimento dell’antico ordine di cose sarà venuto a maturazione sotto l'azione storica delle sue intime forze disintegratrici, nessuna "prudenza” potrà ostacolare la rivoluzione. Ma se non abbiamo alcun desiderio di pre­cipitare gli eventi, vogliamo però che questi non trovino il partito impreparato, senza coesione ideologica, senza alcun preciso programma d'azione, infine senza reale volontà rivoluzionaria, com'è oggi».

 

In ciò appunto è la condizione sine qua non per uno snodamen­to del conflitto sociale in senso positivo e non in senso demoralizzatore e, peggio, distruttore delle energie più sane della classe operaia e delle sue stesse capacità di ripresa in caso di sconfitta. La «mancanza di im­pazienza» era serietà, impegno, fervore di preparazione. Per gli impa­zienti, per gli attivisti ad ogni costo, questo è «nullismo»; ma pochi mesi dopo, al II Congresso dell’Internazionale, sarà Lenin a porre il problema della «preparazione rivoluzionaria», contrapposta alla faci­loneria parolaia dei troppi amanti della frase, al centro del dibattito. Il  nodo  della  questione  era,  internazionalmente,  appunto  : Noi  sapevamo  che  dalla  situazione  drammatica  nella  quale  la classe  operaia  non  soltanto  italiana  era  stata  gettata  dall’ op­portunismo - si  fosse  esso  macchiato  del  crimine  della corresponsabilità nel massacro imperialista o se ne fosse tenuto lontano dietro il paravento del «non aderire né sabotare» - si sarebbe usciti solo attraverso un duro lavoro di riedificazione teorica e di sele­zione politica, il cui inevitabile presupposto era la condizione di per sé sgradevole, ma accettata dai rivoluzionari con la mancanza d'impa­zienza nella quale è la loro forza, di proporre alla classe operaia e per essa alla sua minoranza cosciente non l'agire comunque, ma il gettare i presupposti reali dell’agire, i soli che danno senso e finalità all’azione, cioè prima di tutto il partito, che è programma, che è teoria, che è tattica ad essi corrispondenti, che è infine organizzazione - o non è nulla.

Che cosa proponeva Ambrosini (e la sua voce non era certo l'uni­ca), in teoria? Ecco il suo ragionamento: La Frazione comunista asten­sionista ha ragione; è preventivamente necessario il partito. Ma «le masse vogliono oggi agire, l'azione s'impone oggi in maniera assoluta». E il partito non può nascere senza rispondere - e subito - a questa esigenza immediata, a questa spinta irresistibile. Costituiamo dunque «prontamente i consigli di fabbrica e i soviet», adoperiamoci per la «preparazione insurrezionistica», predisponiamo i mezzi per «la con­quista delle fabbriche e l'invasione dei campi che, compiuta in maniera simultanea e coordinata, costituisce un movimento politico da effet­tuare al momento della presa di possesso dei poteri da parte del pro­letariato»: il resto verrà da sé. «Non siamo più ai tempi delle di­scussioni teoriche [tempi che, per questi tipi di rivoluzionari, non ven­gono mai, ed essi comunque non vi si tuffano, se pur si accorgono che sono venuti] e nessuna frazione, nessun partito può essere oggi vivo e vitale, in mezzo al precipitare della crisi sociale, se si fonda su un'azione critica negativa, senza indicare una via diritta di azione po­sitiva. Escludiamo che questa azione possa essere quella legalitaria nell’orbita delle istituzioni: sia quindi quella rivoluzionaria da svolgersi attorno alle istituzioni soviettistiche».

Come abbiamo già documentato, uno degli aspetti che non si esa­gera a definire drammatici della situazione di allora (ma e quella di oggi?), specialmente in Italia, era proprio il pullulare di uno sciame di innamorati dell’azione per l'azione, pronti a far balenare agli ope­rai, in occasione di qualunque sciopero, la prospettiva di un «movi­mento» ispirato a finalità vaghe, confuse, contraddittorie, ma sempre catastrofiche - dal mito dello sciopero espropriatore fino a quello dei consigli operai funzionanti come organi del potere proletario nell’am­bito stesso della società capitalistica - e a disperderne le energie in una girandola di azioni male impostate e peggio condotte. Queste mosche cocchiere venivano dai quattro punti cardinali: dall’est massi­malista o dal sud anarchico, dall’ovest ordinovista o dal nord dannun­ziano. E la loro «demagogia», la loro «frase rivoluzionaria», per dirla con Marx, era una peste non meno del «realismo» e della presunta «antidemagogia» riformista. Possiamo desumere da una nota di com­mento a un articolo di Ambrosini, apparsa il 6 giugno ne «Il Soviet», la risposta che gli fu data alla riunione fiorentina:

 

«Nella Conferenza furono unanimemente accolti [...] i criteri sostenuti da Il Soviet secondo i quali, in riassunto, né i consigli di fabbrica né i soviet possono essere considerati organi per la lotta rivoluzionaria, e la loro costituzione non può rappresentare il contenuto dell’opera rivoluzionaria, che è opera politica di prepara­zione ideale e materiale la cui premessa è l'esistenza di un partito comunista [...].

«Quanto alla mozione Ambrosini (della cui mancata messa in discussione l'autore, inutile dirlo, era profondamente sdegnato) essa faceva una tale confusione tra sciopero generale, presa di possesso delle aziende, conquista rivoluzionaria del potere, che la rendeva inaccettabile [...].

«Il compagno Ambrosini domanda quale sia il programma di azione positiva della Frazione. A noi pare di averlo più volte chiarito e di avere molto insistito sui legami tra principi ed azione comunista, tra dottrina e pratica, confutando l'antitesi fra i due termini che vogliono stabilire coloro che appaiono i rivoluzionari ardenti.

«Tra questi pare sia il nostro Ambrosini, il quale sottolinea sempre le parole azione ed agire. Non dimostra ciò forse che nella sua mentalità l'azione finisce per divenire fine a sé stessa, e non più un mezzo atto a raggiungere un chiaro fine storico? Nella Conferenza cercammo di dimostrare al compagno Ambrosini come questo errore di valutazione si riconduca alla formula favorita dai riformisti: il fine è nulla, il mo­vimento è tutto.

«L'azione richiede tra i suoi coefficienti di successo la coscienza politica di una minoranza di avanguardia che deve costituire il partito rivoluzionario.

«Noi non diciamo che della preparazione materiale non bisogna occuparsi fin da ora: pensiamo anzi che si è perduto già troppo tempo. La vogliamo però abbinata con la preparazione politica.

«Le manifestazioni di molti compagni che, per esuberanza di temperamento, tengono l'atteggiamento di Ambrosini, vanno convincendoci che la seconda prepara­zione difetta almeno nella stessa misura della prima

 

Oggi gli storici che vanno in brodo di giuggiole per le obiezioni di un Ambrosini elevato contro di noi a interprete del «leninismo», non possono invocare neppure la scusante della «esuberanza di tem­peramento»: essi hanno abbandonato da molto tempo il fine, e per loro il movimento è tutto, un tutto che si identifica col più pantofolaio, col più codardo, col più rancido riformismo, anche se (o meglio, pro­prio se) ammantato dei colori di un arditismo versione Resistenza.

La Frazione, comunque, prosegue per il suo cammino ignara di impazienze quanto di esitazioni suggerite da eventualità di meschini com­promessi. E, al termine della prima fase del dibattito «sulla situazione politica italiana e l'indirizzo del PSI», la Conferenza:

 

«Udita la relazione del Comitato centrale e le comunicazioni dei rappresentanti della Direzione del Partito, delle Frazioni affini e della Federazione giovanile [...]:

«Dichiara che il Partito, per la sua attuale costituzione e funzione, non è assolu­tamente in grado di porsi alla testa della rivoluzione proletaria, e che le sue molte­plici deficienze dipendono dalla presenza in esso di una tendenza riformista che inevitabilmente, nella fase decisiva della lotta di classe, prenderà posizione controri­voluzionaria, e dalla conciliazione di un verbalismo programmatico comunista con la pratica opportunistica del socialismo tradizionale nell’azione politica ed economica;

«Afferma altresì che l'adesione del PSI alla III Internazionale non può essere ritenuta regolare appunto perché viene da esso tollerata la presenza di chi nega i principi dell’Internazionale comunista, apertamente diffamandoli o, peggio, speculando demagogicamente su di essi a scopo di conquiste elettorali».

 

Ne trae quindi le necessarie conseguenze:

 

«Ritenuto che il vero strumento della lotta rivoluzionaria del proletariato è il Partito comunista, il partito politico di classe, fondato sulla dottrina marxista e sulla esperienza storica del processo rivoluzionario comunista in atto nel mondo contempo­raneo e già vittorioso nella Russia dei Soviet;

«Delibera di consacrare tutte le proprie forze alla costituzione in Italia del Partito comunista, sezione della III Internazionale, affermando che in questo partito, come nel seno dell’Internazionale medesima, la Frazione sosterrà l'incompatibilità della partecipazione elettorale ad organismi rappresentativi borghesi con i principi e i me­todi comunisti, ed augurando che anche gli altri elementi del partito attuale che sono strettamente comunisti si porranno sul terreno del nuovo partito e si convinceranno inoltre che la selezione non potrà seriamente farsi se non attraverso l'abbandono di quei metodi di azione politica che li accomunano oggi praticamente ai socialdemocratici»,

 

In forza di tali affermazioni di principio:

 

«Dà mandato al Comitato centrale:

«1)          Di preparare - tenendo presente il programma presentato a Bologna dalla Frazione comunista e l'indirizzo sostenuto dall’organo della Frazione nella discussione sui più importanti problemi attuali di metodo e di tattica comunista - il programma del nuovo partito ed i suoi statuti;

«2)          Di intensificare i rapporti internazionali allo scopo di costituire la Frazione antielezionista nel seno dell’internazionale comunista, e di sostenere, nel prossimo Congresso internazionale, le direttive della Frazione, chiedendo inoltre che vengano presi provvedimenti per risolvere l'anormale situazione del Partito socialista italiano;

«3)          Di convocare immediatamente, dopo tale congresso internazionale, il Con­gresso costituente del Partito comunista, invitando ad aderirvi tutti i gruppi che sono sul terreno del programma comunista, dentro e fuori del PSI;

«4)          Di riassumere in efficaci e chiare tesi le posizioni di principio e di tattica della Frazione diffondendole ampiamente in Italia e all’estero».

 

La risoluzione non ha bisogno di lunghi commenti. Essa condan­na l'intero Partito socialista, nella equivoca destra come nel più che equivoco centro; afferma la necessità che il Partito comunista sorga su basi programmatiche rigorosamente aderenti ai principi fondamentali della dottrina marxista e alla loro conferma attraverso il bilancio delle rivoluzioni contemporanee, vittoriose o vinte (3); si assume il com­pito di definire e codificare il programma del nuovo partito, l'unico in grado di rappresentare l'Internazionale comunista ricostituita sui fon­damenti teorici del marxismo; subordina l'atto formale e definitivo della costituzione del partito alle decisioni che prenderà il II Congresso; rivendica il proprio astensionismo basato su considerazioni in nessun modo assimilabili all’astensionismo anarchico, immediatista, operaista, ecc., e si propone di difenderlo nelle assisi internazionali del comuni­smo senza farne una conditio sine qua non dell’appartenenza al Co­mintern: dà insomma per scontata quella scissione che solo un intrec­cio di circostanze di natura soprattutto internazionale ritarderà fino al gennaio successivo.

Resta da aggiungere  - ma vi ritorneremo nel capitolo seguente - che il tentativo di costituire una Frazione astensionista internazionale si scontrerà in insormontabili ostacoli di principio: invano cercheremo in Europa il filo di un astensionismo di origine non contrastante col marxismo. A Mosca, Bukharin, pur combattendoci - ma sulla base del comune patrimonio antidemocratico e antiparlamentare - ci darà atto che soli meritavamo di prendere la parola - e parola discorde - di fronte a marxisti!

La Conferenza approvò poi un ordine del giorno così concepito:

 

«La Conferenza nazionale comunista, per quanto riguarda la permanenza della Frazione nel Partito socialista durante il periodo delle elezioni amministrative, decide la seguente linea di condotta:

«Gli astensionisti non contribuiranno in nessun modo e in nessuna forma all’attività elettorale e, ovunque sia possibile non far presentare la lista del Partito, svolgeranno con ogni energia la campagna astensionista»,

 

e passò a risolvere questioni concernenti il miglior coordinamento del lavoro di propaganda e di preparazione rivoluzionaria.

Il vero significato di questa riunione si coglie tuttavia nel corpo di tesi reso noto nella sua veste definitiva poco più di un mese dopo.

L'importanza delle Tesi della Frazione comunista astensionista (4) pubblicate nei numeri 16 e 17 del 6 e 27 giugno de «Il Soviet», risie­de in primo luogo nel fatto, tipico di un orientamento al quale la Sinistra rimarrà sempre fedele, di rappresentare non la piattaforma di un partito nazionale, ma una sintesi delle posizioni teoriche, program­matiche e tattiche che necessariamente contraddistinguono il partito della rivoluzione mondiale comunista: non riguardano né l'area italia­na, che non è nominata in nessuno dei suoi paragrafi, né un partico­lare periodo storico, ma formulano i principi ai quali ogni partito comu­nista, in qualunque ambito territoriale e in qualunque fase del ciclo aperto dalla prima guerra mondiale e dalla rivoluzione russa, deve ispi­rarsi, e che lo delimitano da ogni altra organizzazione politica sedicen­temente operaia. Il punto ha un particolare rilievo in quanto, al II Congresso dell’Internazionale tenuto poco più di un mese dopo, una delle rivendicazioni centrali della Sinistra sarà appunto quella della formulazione di un programma unico per tutti i partiti comunisti, vin­colante per ciascuno senza eccezioni pretestuosamente invocate in forza di questa o quella «particolarità nazionale».

In secondo luogo, le tesi rispondono al criterio, che pure al II Congresso la nostra corrente avrebbe voluto veder adottato central­mente, della stesura in forma sia pur sintetica e perfino schematica di un programma in cui le questioni di teoria, di principio e di tattica fossero ben tenute distinte e partitamente sviluppate, ma alle direttive tattiche si pervenisse dopo aver nettamente definito le basi teoriche e programmatiche e le finalità ultime del movimento comunista mon­diale, e apparisse chiaro il nesso inscindibile fra quelle e queste. Lo schema che giustamente, al III Congresso dell’Internazionale, Lenin rimprovererà agli estremisti infantili, ai teorici dell’«offensiva» ad ogni costo, di aver dimenticato -  o di non aver mai appreso - e in cui trovano dialetticamente un posto ben preciso dottrina, principi, finalità, programma e tattica, senza che accada di farne un solo fascio e di confonderne i termini (5), è quindi perfettamente rispettato; ma è con altrettanto vigore ribadito il legame senza il quale si spezza quella unità fra teoria e prassi, fra «pensiero» e «azione», che è uno dei cardini della concezione marxista.

Le tesi si articolano perciò in tre parti, la prima delle quali rias­sume i cardini fondamentali della dottrina comunista e della sua visione della storia come storia di lotte di classe culminanti nella conquista del potere politico ad opera della classe nella cui esistenza si esprime l'antagonismo divenuto insanabile tra forze e rapporti di produzione, conquista che può avvenire soltanto (ed è sempre e soltanto avvenuta) attraverso una rivoluzione violenta il cui prolungamento necessario è l'esercizio dittatoriale del potere conquistato da parte della classe vit­toriosa. E' da rilevare che in questa parte, in cui, mentre si ribadisce la necessità di un'organizzazione militare centralizzata delle forze prole­tarie contro gli assalti della controrivoluzione, è pure disegnato il quadro delle trasformazioni economiche e sociali che la dittatura prole­taria sarà chiamata ad operare con i suoi «interventi dispotici» fino alla completa soppressione dei rapporti dell’economia capitalistica e all’abolizione delle classi, quindi anche dello stato come apparecchio po­litico di potere, «progressivamente sostituito dalla razionale ammi­nistrazione collettiva dell’attività economica e sociale», è posta in netto risalto la funzione primaria del partito: da un lato «è soltanto l'orga­nizzazione in partito politico che realizza la costituzione del proletariato in classe lottante per la sua emancipazione»; dall’altro, «la dittatura del proletariato sarà la dittatura del partito comunista», due formule che saranno ribadite con estremo vigore nelle tesi del II Congresso sul ruolo del Partito comunista nella rivoluzione proletaria ed elevate a discriminanti da tutte le correnti politiche cosiddette «affini» che, pur genericamente condividendo il principio della rivoluzione e quindi della violenza, ignorano o peggio ancora negano la necessità che tale vio­lenza sia guidata prima e dopo la conquista del potere da una co­scienza delle finalità generali e dei mezzi ad esse adeguati di cui solo il partito è il depositano, e si incarni in un'organizzazione centralizzata che ancora una volta può essere soltanto il partito. Nulla potrebbe meglio distinguere la nostra corrente, fin da allora, dalle innumerevoli varianti di operaismo, immediatismo e spontaneismo rappresentate in Italia o dall’«Ordine Nuovo» o dagli anarcosindacalisti o dagli stessi anarchici, e in Germania in particolare dal KAPD; nulla potrebbe mo­strare con maggior chiarezza la piena convergenza della nostra visione del processo rivoluzionario e dei suoi presupposti con quella dei bol­scevichi. Era, proprio allora, il tema delle grandi polemiche di Lenin e Trotsky non solo con gli estremisti-infantili ma con Kautsky, a riprova del fatto non occasionale che tutte le varianti dell’opportunismo con­vergono prima o poi nella negazione centrista delle basi stesse della rivo­luzione e della dittatura proletaria. Di queste polemiche non giungeva in Italia che un'eco remota, ma ciò non impediva alla Sinistra, come già in anni precedenti, di assumere di fronte agli stessi problemi l'iden­tica posizione di principio - in Russia, posizione nello stesso tempo terribilmente pratica e resa ancor più netta e categorica dall’epopea e soprattutto dal dramma della guerra civile - che i bolscevichi andava­no fieramente proclamando fra le urla di costernazione degli innumerevoli filistei prosperanti nelle file del proletariato occidentale. Anche sotto questo aspetto, le tesi hanno una chiara impronta internazionale che ne fa l'unico vero apporto alla grandiosa opera di restaurazione dei cardini della dottrina marxista intrapresa dalla III Internazionale, di cui l'Occidente possa vantare di essersi assunto l'onere seguendo la traccia luminosa dei protagonisti della rivoluzione di Ottobre, e mostrano come non solo non avessimo nulla da spartire con gli «estremisti infantili», ma fossimo rispetto a loro al polo opposto.

La seconda parte svolge una critica di tutte le ideologie delle quali il comunismo è (e si proclama apertamente) la negazione, dall’idealismo filosofico e da quella sua traduzione in termini politici che è la democrazia parlamentare fino al pacifismo piccolo-borghese e wilsoniano, dal socialismo utopistico fino a quelle sue propaggini estreme che poggiano le prospettive di emancipazione della classe operaia su una proiezione    non solo nella lotta di preparazione rivoluzionaria ma anche nella conquista del potere e nell’esercizio della dittatura  - degli stessi organismi immediati in cui, sotto il dominio del capitale, i prole­tari si raggruppano in base alla loro posizione e sulla falsariga dei loro interessi contingenti nel quadro del modo di produzione borghese (anarcosindacalismo, consiglismo, ordinovismo), dal riformismo applicato al processo di ascesa della classe proletaria dalla sua posizione di classe soggetta a quella di classe dominante fino al riformismo applicato al modo di esercizio di tale dominio, per finire con una critica delle con­cezioni anarchiche considerate come diretta filiazione dell’idealismo bor­ghese e quindi della forma di produzione e distribuzione capitalistica.

La terza parte deduce dai principi teorici e programmatici del comu­nismo l'intero arco delle attività che il partito è chiamato a svolgere in funzione dei fini da esso perseguiti in quanto rappresentante degli inte­ressi generali e permanenti della classe: lavoro teorico, propaganda, pro­selitismo, partecipazione attiva alla vita delle organizzazioni sindacali e in genere economiche, propaganda antimilitarista nelle file dell’esercito, preparazione rivoluzionaria sul piano legale ed illegale, fino all’assalto rivoluzionario al potere. Una volta di più, la partecipazione alle elezioni e alla stessa attività parlamentare è respinta non per ragioni di principio, come tali valide per tutti i tempi, ma in base ad argomenti poggianti sulla visione marxista del periodo storico in cui la questione della conquista rivoluzionaria del potere è posta in tutta la sua urgenza come sola alter­nativa possibile al dominio incontrastato della classe dominante, e in particolare sul riconoscimento dell’enorme ostacolo alla preparazione rivo­luzionaria che, nei paesi di avanzato capitalismo, costituisce il persistere non solo degli istituti democratici in quanto tali, ma delle illusioni ali­mentate dalla classe sfruttatrice nella classe sfruttata sulla possibilità di pervenire per il loro tramite alla propria emancipazione.

Va pure sottolineato il rifiuto di principio di «accordi od alleanze con altri movimenti che abbiano in comune [col partito comunista] un determinato obiettivo contingente [o perfino «l'azione insurrezionale contro la borghesia»], ma ne divergano nel programma di azione posteriore» (chiara anticipazione del rifiuto del futuro «fronte unico po­litico»), e la netta precisazione contenuta al punto 13 e del tutto colli­mante con le tesi del II Congresso, che i soviet non sono di per sé organi di lotta rivoluzionaria, ma lo divengono in quanto il partito ne conquisti la maggioranza e, come possono rappresentare un prezioso stru­mento della lotta rivoluzionaria in periodo di crisi acuta, così possono costituire un serio pericolo di conciliazione e combinazione con gli istituti della democrazia borghese, qualora il potete della borghesia si rinsaldi. Notevole, anche in vista di polemiche future, è il punto 3, che non fa del «consenso della maggioranza» e del bruto coefficiente numerico una condizione pregiudiziale dell’azione del movimento comunista.

Le tesi si concludono con due formule che è bene riprodurre a scorno degli storici che, a seconda del vento che momentaneamente tira, ci accusano o di essere stati degli impazienti, o di essere stati dei passivisti; e che esprimono la chiara posizione marxista del rifiuto del blan­quismo come teoria del colpo di mano di minoranze audaci, dell’atto di volontà non basato sulla valutazione dei reali rapporti di forza nell’intera società, ma della sua rivendicazione come la sostanza stessa del marxismo come teoria dell’insurrezione armata, della dittatura e della guerra civile:

 

1)          «Ciò che distingue i comunisti non è di proporre in ogni situazione e in ogni episodio della lotta di classe l'immediata scesa in campo di tutte le forze prole­tarie per la sollevazione generale, bensì di sostenere che la fase insurrezionale è lo sbocco inevitabile della lotta e di preparare il proletariato ad affrontarla in condizioni favorevoli per il successo e per l'ulteriore sviluppo della rivoluzione» (formula lapi­daria in cui si riassume il nostro fondamentale concetto che il partito è rivoluzionario non solo e, staremmo per dire, non tanto, nei momenti nei quali la rivoluzione batte alle porte, ma anche e soprattutto nel periodo a volte lungo, tormentoso e contraddit­torio in cui essa sembra allontanarsi o comunque lavora nel sottosuolo con la sicurezza ma anche con la sfibrante lentezza della «vecchia talpa»).

2)          «E' compito specifico del partito combattere tanto coloro che, col preci­pitare ad ogni costo l'azione rivoluzionaria potrebbero spingere il proletariato al disastro, quanto gli opportunisti che sfruttano le circostanze che sconsigliano l'azione a fondo per creare arresti definitivi nel moto rivoluzionario, disperdendo verso altri obiettivi l'azione delle masse, che invece il partito comunista deve sempre più condurre sul terreno dell’efficace preparazione alla immancabile, finale lotta armata contro le difese del principio borghese».

 

A parte la formula dell’astensionismo elettorale, importantissima per noi agli effetti della selezione dei partiti in Occidente ma non elevabile a questione assoluta di principio, non c'è punto delle tesi che i bolscevichi non avrebbero, allora, potuto sottoscrivere.

Passeranno poco meno di sei anni, e al III Congresso del PCd'I a Lione e al VI Esecutivo allargato a Mosca la Sinistra dovrà ricorda­re alla vecchia guardia leninista tragicamente in lotta nella morsa della controrivoluzione montante nelle stesse file del partito, da un lato che il marxismo è una visione globale unica del mondo e della storia, dall’altro che la manovra tattica ha e deve avere un limite nei suoi necessari riflessi su quella continuità di principi e programmi pubblicamente proclamati e tradotti in una pratica ad essi coerente, e di serrata organizzazione, in cui è tanta parte dell’influenza del partito sulla classe.

Una piccola nota aggiuntiva sul movimento giovanile e la Frazione comunista astensionista. Erano passati oltre sei mesi dal VII Congresso nazionale giovanile di cui abbiamo fatto breve cenno nel III capitolo, e la situazione all’interno della Federazione era in parte mutata. La mag­gioranza restava fedele al massimalismo elettorale, auspice lo stesso se­gretario Luigi Polano, e aveva percorso tutto il periplo dal mito dei consigli di fabbrica a quello dei «soviet rivoluzionari» per poi seppel­lire anche questi nella formula della loro costituzione a titolo... sperimen­tale; l'influenza dei comunisti astensionisti andava invece rapidamente cre­scendo e si rifletteva pure in un atteggiamento più critico dell’ala maggio­ritaria nei confronti del partito «adulto».

Già al Convegno comunista della gioventù dei paesi occidentali, il 21-22 maggio a Milano, discutendosi della legittimità o meno dell’ade­sione della Federazione francese che, per nulla diversa dalla SFIO, pre­tendeva una autonomia di azione in conformità alle condizioni partico­lari della Francia, la libertà di mantenere verso il Partito socialista i vigenti rapporti di sudditanza completa, il riconoscimento della possibi­lità per più organizzazioni nazionali di aderire all’Internazionale giova­nile ecc., e verso la quale la maggioranza aveva assunto un atteggiamen­to possibilista ma, nella sostanza e con qualche piccola riserva, favore­vole, Secondino Tranquilli (per chi non lo sapesse, l'attuale Ignazio Silone - e lo diciamo unicamente a conferma della nostra classica tesi che non è facile invecchiare nel marxismo rivoluzionario) aveva preso la pa­rola respingendo con energia ogni forma di tolleranza verso organizza­zioni sostanzialmente socialdemocratiche e deplorando che l'Internazio­nale giovanile rischiasse di sorgere su basi federative sulla falsariga della defunta - e ben defunta - II Internazionale. Nel suo intervento, ap­parso nel nr. del 13.VI de «L’Avanguardia», si leggono frasi che allora avremmo potuto e oggi potremmo sottoscrivere con tutt'e due le mani:

«Non si può far distinzione fra i socialdemocratici che sono al potere e quelli che ancora non hanno avuto la "possibilità" di arrivarci [...]. In linea di principio il più innocuo dei nostri riformisti è eguale al più esecrabile dei socialdemocratici tedeschi: Turati è Scheidemann, MacDonald è Noske, Longuet è Ebert». E ancora: «Si può discutere fra comuni­sti sul programma, non contro il programma. Ad esempio in Italia, ab­biamo discusso come esplicare il nostro antiparlamentarismo; alcuni han­no detto dentro il parlamento, altri fuori, e seguiteremo a discutere e stare assieme; ma se qualcuno domani ci dicesse: Io non sono antipar­lamentarista, sono un democratico, gli diremmo: Fra i nostri principi e i tuoi non c'è compatibilità; e lo manderemmo via».

Lo stesso oratore aveva quindi rivendicato una direzione unica, internazionale e rivoluzionaria, del movimento giovanile e, per le fede­razioni nazionali in particolare, un'azione energicamente antimilitarista che non si confondesse in nessun modo col pacifismo piccolo-borghese stile parigino, e un'attività di preparazione ideologica e di milizia pratica che non si potesse in nessun modo confondere con «un'opera culturale e educativa» come quella svolta per antica tradizione dai francesi.

Pochi giorni dopo, al Consiglio nazionale della gioventù socialista italiana (Genzano, 30-31 maggio e 1 giugno), la pressione della Sinistra indusse la maggioranza ad assumere nei confronti della direzione massi­malista del PSI un atteggiamento assai più energico di quello tenuto dal gruppo Misiano al Consiglio nazionale milanese, sebbene altrettanto con­fuso soprattutto nella questione dei consigli operai (la mozione Moschelli, votata a maggioranza, scriveva che i soviet «non potranno aver vita e possibilità di sviluppo se non saranno creati da un proletariato il qua­le abbia acquistato sui luoghi stessi di lavoro la capacità di governarsi da sé mediante l'istituzione dei consigli di fabbrica e dei commissari di reparto, e il quale mediante queste stesse istituzioni abbia rinnovato la compagine dei sindacati di mestiere facendo di essi puri organi della con­quista del potere»: un miscuglio di ordinovismo e di sindacalismo ri­voluzionario!); e addirittura ameno, come osserverà «Il Soviet» del 27 giugno, nella conclusione che si dovesse «declinare la propria responsa­bilità» qualora (!!) il partito si muovesse «in direzione contraria allo sviluppo della rivoluzione comunista», e se (!!) «in esso avessero a pre­valere» elementi moderati! La mozione presentata da Santacroce e Man­gano a nome dei comunisti astensionisti, che ottenne 5 voti contro i 7 alla mozione ufficiale, riprese invece punto per punto il nocciolo dei deliberati della Conferenza fiorentina, come si deduce dal testo riprodotto ne «L’Avanguardia» del 13.VI.1920:

 

«Il Consiglio nazionale, constatando attraverso i caratteristici episodi della guerra civile che, nelle città come nelle campagne, esiste nelle folle una psicologia rivoluzionaria riflettente l'attuale irreparabile fatale sfasciarsi del regime borghese, ritiene necessario dare alla propaganda un carattere prettamente rivoluzionario.

«Constatando che il PSI, che dovrebbe essere il partito politico della classe proletaria rivoluzionaria, per la sua attuale costituzione non è assolutamente in grado di porsi alla testa della rivoluzione proletaria, e ciò per l'esistenza in esso partito di una tendenza riformista e centrista, che nella fase decisiva della lotta di classe prenderà posizione controrivoluzionaria, ritiene che l'adesione del PSI, al quale la Federazione giovanile socialista italiana aderisce, alla III Internazionale non può essere regolare, perché esso partito tollera la presenza di chi nega i principi della III Internazionale stessa.

«Si impegna ad iniziare un'agitazione tendente alla scissione dei socialdemocra­tici del PSI e della FGSI, riservandosi di ritirare la propria adesione al PSI finché questo tolleri la permanenza in esso di quelle scorie riformiste che ne inceppano la funzione storica rivoluzionaria.

«Delibera infine di informare l'azione della Federazione in completa armonia a tale indirizzo, e dà mandato al CC di mantenersi più a contatto coi consiglieri nazio­nali allo scopo di stabilire un preciso e corrispondente programma d'azione, invitando la gioventù socialista a disinteressarsi completamente delle prossime elezioni ammi­nistrative non contribuendo in nessun modo e in nessuna forma all’attività elettorale».

 

Dai comunisti astensionisti e da alcuni massimalisti elezionisti fu inoltre presentato il seguente ordine del giorno:

 

«Il Consiglio nazionale, discutendo sulla situazione nazionale, presa visione del sabotaggio della CGL allo sciopero dei compagni torinesi e del vergognoso appoggio dato dalla direzione del PSI alla losca manovra dei controrivoluzionari daragoniani, muove un'alta riprovazione agli organi economici e politici del proletariato rivolu­zionario stigmatizzando il loro contegno niente affatto socialista».

 

Cinque delegati votarono a favore e 5 contro, mentre uno, il mas-simalista Moschelli, si astenne perché, pur condividendone la sostanza, non accettava «la forma violenta in cui era stato redatto»: il massima­lismo non si smentisce mai! E' anche vero che l'ingenuità della quale avevano dato prova i giovani astensionisti al congresso della fine di ot­tobre 1919 perdurava ancora e, nell’articolo citato (di Giuseppe Berti: diciamolo tanto per dare un collega a Ignazio Silone), «Il Soviet» de­plorerà che, contro il fermo atteggiamento tenuto nei confronti del PSI, sulle direttive dei segretari del movimento internazionale giovanile - «direttive che non solo un comunista astensionista, ma anche un co­munista elezionista molto largo di maniche non potrebbe approvare» (ve­di il capitolo successivo), - forse per non averne avuto conoscenza esatta i compagni Mangano e Santacroce avessero invece presentato un ordine del giorno di generica approvazione.

Dell’attività dei giovani in seno alla Frazione astensionista parlere­mo ancora. Basti qui ricordare che, al successivo Consiglio nazionale del 5-6 dicembre, la Federazione votò l'adesione incondizionata alla Frazione comunista e che, a Livorno, il suo apporto alla costituzione del PCd'I fu imponente.

 

(1)  La riunione si tenne nella sezione fiorentina della Federazione metallurgica - a riprova di come allora movimento economico e movimento politico fossero strettamente legati (oggi sarebbe cosa insolita, assurda, perfino scandalosa) - e vi parteciparono, oltre alle sezioni aderenti alla Frazione, il segretario del partito Gen­nari, Capitta per la federazione giovanile, Francesco Misiano per il suo gruppo, Gramsci per coloro che, al Consiglio nazionale, avevano votato contro la fiducia nella direzione: l’ «astensionismo» cominciava a fungere da catalizzatore delle forze che, per quanto lontane dalle chiare posizioni nostre, avvertivano la crescente incom­patibilità fra l'orientamento generale del PSI e l'appartenenza all’Internazionale. Il resoconto dedica un po' più spazio ai portavoce di queste tendenze «affini» che agli oratori della stessa Frazione: questi infatti non potevano aver detto nulla di diverso da quanto «Il Soviet» andava dicendo e ripetendo da un anno e mezzo.

(2) Il  3  luglio,  Gramsci  scriverà, ricordiamolo  ancora:  «Abbiamo  sempre ritenuto che dovere dei nuclei comunisti esistenti nel Partito sia quello di non cadere nelle allucinazioni particolaristiche (problema dell’astensionismo, problema della costituzione di un partito veramente comunista), ma di lavorare a creare le condizioni di massa in cui sia possibile risolvere tutti i problemi particolari come problemi dello sviluppo organico della rivoluzione comunista». Il problema del partito (e lo si scrive pochi giorni prima del II Congresso mondiale!) sarebbe dunque un'«allucinazione  particolaristica»,  un problema  «particolare»  che si risolverebbe in forza di misteriose «condizioni di massa» create da noi! Gli storici identificanti gramscismo e leninismo potrebbero, e perché no?, identificare domani... tomistica e marxismo, se dalla stanza dei bottoni venisse l'ordine, in omaggio al «dialogo con i cattolici», di scoprire in San Tommaso un precursore di San Karl Marx o di San Vladimiro Ilijc.

(3)  Che «non ci sia proprio più nulla da fare» in seno al PSI è detto pure nell’arti­colo La commedia parlamentare che riproduciamo in appendice, pag. 393.

(4)       Cfr. l'appendice a questo capitolo, pagg. 394-402.

(5)  Cfr. il cap. successivo, pagg. 426-438.

 

7. - MENTRE SI PREPARA LA PARTECIPAZIONE AL II CONGRESSO DELL’INTERNAZIONALE COMUNISTA

 

La fine quasi contemporanea dello sciopero torinese e del Consiglio nazionale socialista apriva intanto una nuova fase di avanzata della destra riformista sui due fronti parlamentare e sindacale col tacito avallo di un massimalismo sempre più incline a gettare la spugna.

L'11 maggio Nitti cade per l'ennesima volta sotto la pressione dello sciopero postelegrafonico. L'iniziativa - tutt'altro che sgradita ai partiti borghesi, specie ai popolari - è presa questa volta dal gruppo parla­mentare socialista, purtuttavia nel mezzo anno precedente più volte di­mostratosi filonittiano; e nell’occasione scoppia un nuovo scandalo Tu­rati. Ignaro della decisione presa, e sdegnato di essa, il vecchio leader decide, isolato nel suo stesso entourage, di non partecipare al voto:

 

«Si votava - scrive alla Kuliscioff - insieme e a favore della destra salan­drina, dei popolari, dei pirati dell’arrembaggio alla nave ministeriale, contro la politica estera nostra [!!!], contro la libertà, contro la coscienza [...], si votava per lo sfacelo dello Stato e di ogni disciplina morale. Si votava per il buio, per l'equivoco, e - indubbiamente - per la reazione. Tutto ciò è follia criminale, e non uno, non uno, che resista. Salvo quindi l'anima mia».

 

Al nostro settimanale le vicende tragicomiche della caduta e succes­siva ricomposizione del ministero Nitti suggerirono d'altra parte un breve articolo che riproduciamo in appendice (1), e che vale a documentare sulla scorta dei fatti un'ulteriore tappa degenerativa del massimalismo in for­za di una logica superiore a qualunque proposito o intenzione di sin­goli o gruppi. I sostenitori dell’andata al parlamento per «demolire il parlamento», osserva l'articolo La commedia parlamentare, finiscono co­me è logico per rivendicare l'intangibile sovranità dell’istituto parlamen­tare di fronte al pericolo, non sia mai, di una limitazione del suo fin­azionamento. La sovranità del parlamento equivale a sovranità della guar­dia regia nelle piazze d'Italia, condizione dell’esercizio indisturbato del potere e del tanto deprecato arbitrio dell’apparato statale capitalistico. I massimalisti del 1920 non superavano nel loro «rivoluzionarismo» il livello dello statuto albertino: i loro nipoti e pronipoti di oggi sono ca­duti molto più in basso....

Ricostituitosi il 21 maggio, il governo Nitti cade nuovamente il 9 giugno a causa della proposta di aumento del prezzo del pane pur fret­tolosamente ritirata; dopo lunga gestazione, e non senza cauti ma non riusciti sondaggi per una partecipazione di Turati alla nuova compagine ministeriale, sale alla direzione della «cosa pubblica» Giovanni Giolit­ti. La democrazia italiana ha bisogno di recuperare il prestigio perduto in lunghi mesi nei quali la piena sudditanza del cosiddetto potere legi­slativo all’esecutivo era apparsa in luce troppo cruda (2).

Il salvatore per antonomasia della democrazia italiana ha in tasca tutto un programma di riforme che va dal ritorno, alla rigorosa osservan­za dello statuto, fino alla completa imparzialità nei confronti delle asso­ciazioni operaie, dalla riduzione del costo della vita fino a quella del disa­vanzo finanziario, dall’introduzione della nominatività dei titoli fino all’aumento delle tasse di successione e all’avocazione allo Stato dei so­vrapprofitti di guerra, dall’inchiesta parlamentare sulle spese belliche fino alla soluzione della questione adriatica. Ma Turati ne ha un altro, molto più radicale, che illustra due giorni dopo nel celebre discorso Rifare l'Italia al quale, come abbiamo ricordato, 25 anni dopo si rifarà come a fonte di ispirazione Palmiro Togliatti. Il succo del discorso è in ef­fetti un preannuncio di quella piena adesione alla causa degli interessi nazionali e di quella rivendicazione al partito della classe operaia del privilegio di rappresentarli al governo, che diventeranno il sogno, ahinoi per troppo breve tempo realizzato, dei nuovissimi «innovatori» nazional­comunisti. Citiamone solo un brano affinché il lettore possa riconoscere in Filippo Turati 1920 il legittimo padre degli odierni Bottegai Oscuri:

 

«Se la borghesia è abdicataria, se il proletariato non è pronto, se il mondo e la civiltà debbono pur vivere, bisognerà pure che qualcuno o qualcosa assuma la gestione sociale; qualcuno che non può più essere la borghesia quale fu, che non può ancora essere il proletariato quale sarà, che dev'essere qualcosa di mezzo fra proletariato e borghesia, che dev'essere un potere, una forza che anticipi in qualche modo l'avvento del proletariato, che prolunghi in qualche modo il potere della borghesia, fino al punto di saldatura che sarà anche il punto della scissione. Ora io penso che questa forza sarà il Partito socialista, reso dalla necessità delle cose più plastico, e forzato ad allearsi non dirò con partiti borghesi [ahi, padre Turati, non sei ancora giunto ai fastigi della sapienza togliattiana], ma a forze borghesi, ad elementi borghesi; a tecnici, esperti [mancano solo i cattolici di sinistra] disposti a servire con lealtà il proleta­riato e il socialismo». Insomma «occorre un programma della nazione, non un programma semplicemente di governo [...], bisogna che lo Stato italiano diventi di politico economico» e per essere tale esso dovrà «aumentare la produzione migliorando al tempo stesso la ripartizione il che è anche un modo di aumentare la produzione, perché solo chi ha la certezza di concorrere ad una lauta ripartizione diventa solerte produttore».

 

C'è qui in nuce tutta la filosofia delle «riforme di struttura» nella vasta gamma che da Togliatti sale fino a Galbraith e consorti. Il discorso è di un free-lancer, isolato perfino nella sua corrente: la direzione massi­malista, comunque, lascia correre; il commento dell’ «Avanti!» il giorno dopo, che critica il collaborazionismo turatiano in una situazione in cui si dovrebbe «tendere ad accelerare la debolezza dello Stato borghe­se per affrettarne la fine», suona vuoto e formalistico, e al II Congresso dell’Internazionale Serrati difenderà il troppo celebre discorso come abile arringa alla borghesia perché, consapevole della propria impotenza a governare, si faccia finalmente da parte!

Sul piano sindacale, intanto, la dirigenza riformista della CGL si affretta a trarre il positivo bilancio delle discussioni sullo «sciopero delle lancette». Di quest'ultimo non si parla nel Consiglio direttivo del 13 maggio (3), nel corso del quale invece i grossi calibri esprimono comple­to disaccordo con quel progetto di costituzione sperimentale dei consigli operai e contadini, elaborato dalla direzione del partito, che tuttavia reca la firma di Baldesi a nome della Confederazione. La decisione è unani­me: si rinvii l'esperimento al ritorno della delegazione che dovrà... ve­dere sul posto, cioè in Russia, come funzionano praticamente i consigli; in attesa, le organizzazioni sindacali «non rendano difficile la soluzione di tale problema con decisioni affrettate e isolate». Anche in questo caso la direzione tace: il siluro è arrivato a buon punto per affondare una nave ingombrante per gli stessi suoi armatori.

Il 20-22, nella riunione della FIOM a Genova, i cannoni sono in­fine puntati, nella certezza che un mese trascorso ha abbondantemente medicato le ferite, contro lo sciopero torinese, il suo federalismo, il suo localismo, il suo «egoismo di fabbrica»: al solito, i bonzi si servono di argomenti formalmente giusti per sanzionare una politica di aperto crumiraggio. La mozione vittoriosa (84.819 voti contro 26.296 a quella della sezione metallurgica di Savona, che deplora l'assenteismo degli organi direttivi confederali durante lo sciopero) fissa i seguenti punti fon­damentali: opportunità «di evitare per l'avvenire che l'istituzione dei commissari di reparto possa rinnovare l'errore di impreparate procla­mazioni di azioni locali avulse dall’azione e dal movimento generale della Federazione [il sillogismo si può così formulare: i moti locali vanno subordinati agli interessi del moto generale; il moto generale è sconsiglia­bile perché la reazione è in agguato: dunque, né moti generali,, a maggior ragione, moti locali]; rinvio al congresso della CGL di ogni de­cisione definitiva circa l'istituzione dei consigli di azienda e la determina­zione delle funzioni da svolgere nella fabbrica finché permane il regime industriale; diritto della Federazione di intervenire tempestivamente a difendere l'organizzazione e a dirigere le agitazioni e i movimenti che sorgono in conseguenza dei conflitti con gli industriali fuori e dentro la fabbrica»; infine, rigoroso mantenimento della disciplina nei confronti degli organi centrali. Così, dopo i consigli operai, vengono mandati in soffitta i consigli di azienda e i commissari di reparto, e si instaura quel­la tal disciplina che tre mesi dopo permette alla CGL e in specie alla FIOM di liquidare il moto dell’occupazione delle fabbriche con piena soddisfazione di Giolitti, abilmente eclissatosi in quel di Vichy nella tranquilla sicurezza di avere nei capi confederali dei tutori dell’ordine assai più efficaci e soprattutto persuasivi della Guardia Regia.

Accanto alla netta avanzata della destra, si svolge un processo di graduale riassorbimento dei «ribelli» massimalisti, cui fa riscontro la grave crisi dell’ordinovismo seguita allo sciopero delle lancette; due epi­sodi che si seguono abbastanza bene attraverso la discussione dello stesso maggio nella sezione socialista milanese e la lunga polemica Ta­sca-Gramsci.

La prima, che ha luogo il 13, 17 e 21 maggio (l'«Avanti!» ne ri­ferisce nei numeri del 14, 23, 28) e verte sulla questione dei consigli di fabbrica, ci presenta da una parte i riformisti schierati in difesa della funzione puramente tecnico-educativa di tali organismi, dall’altra i mas­simalisti che, avendo «scoperto» un ennesimo mito di cui inebriarsi, cucinano l'orrendo «minestrone» (come osserverà «Il Soviet» del 6 giugno) del progetto Schiavello, redatto a nome della Camera del Lavo­ro, in cui si propugna addirittura la costituzione di consigli non solo di azienda, ma di casa, di campo, di caserma, ecc. (4), agenti come «spro­ne nella marcia ascensionale dell’azione espropriativa [!!] dei lavoratori contro il capitale», e culminanti in un sindacato di... tipo nuovo quale «espressione autentica del pensiero della massa che lavora nella fabbri­ca», dove non solo si fa un'enorme confusione tra sindacati e organi di fabbrica, ma si nega ogni rappresentanza ai non organizzati (che invece l'avevano nelle vecchie commissioni interne) aggravando l'attrito già esi­stente in seno alle masse lavoratrici. Bella è poi la conclusione; l'assem­blea, «convinta che i consigli di fabbrica costituiscono il mezzo efficace di pratica attuazione del programma socialista in quanto tendono ad ad­destrare moralmente e tecnicamente [volevamo ben dirlo!] i produttori alla gestione diretta in senso comunista, approva il progetto della Came­ra del Lavoro, per seguire poi quelle ulteriori e più precise disposizioni che vorranno stabilire gli organismi centrali politici e sindacali». Così la fantasia dei massimalisti ha avuto il suo piccolo sfogo, la destra con­federale può dormire sul morbido guanciale dell’ossequienza maggiorita­ria alle sue «ulteriori disposizioni», e un ponte è gettato dai primi verso i nuovissimi ribelli (come vedremo subito) dell’ «Ordine Nuovo».

Questo ponte, grazie al quale, curiosamente dopo il gran rumore del Consiglio nazionale di Milano, una parte degli ex critici della dire­zione massimalista del PSI e, a sentire gli storici, padri putativi del Par­tito comunista d'Italia, si riavvicinò ad un massimalismo sedicentemen­te «riformato» o «rinnovato» (si tratta in quasi tutti i casi di ordi­novisti o filo-ordinovisti, da Tasca a Togliatti, da Terracini a Seassaro), è ben visibile nella già citata relazione di Tasca al Congresso camerale di Torino del 25-28 maggio (e da questo approvata contro la sola oppo­sizione di un gruppetto di anarchici o anarcosindacalisti) sotto il titolo: «I valori politici e sindacali del Consiglio di fabbrica». In pieno e dichiarato accordo col progetto Schiavello, qui i mitici consigli non sono più, come nell’ideologia ordinovista «delle origini», la «cellula del nuo­vo Stato», il punto dal quale parte e al quale ritorna la rivoluzione co­munista: sono soltanto la prima pietra di un edificio che esso, organo di «democratizzazione» e di «potere proletario sulla sede di lavoro»(e fin qui Tasca rimane entro l'orbita gramsciana), contribuisce soltanto ad erigere, provocando quella trasformazione dell’organizzazione sinda­cale per mestiere e categoria in organizzazione per industria, grazie alla quale il relatore, riecheggiando idee tipiche degli IWW e di Daniel De Leon, ma senza spiegare come e perché, si attende che le «organizzazio­ni sindacali prendano posizione per la rivoluzione comunista» e si prepa­rino a diventare, dopo la vittoria, elementi costitutivi del nuovo regi­me. Ne segue che consigli di fabbrica e sindacati non sono più due or­gani diversi, quelli inoltre primeggianti su questi, ma «un organismo unico, poiché il Consiglio non è che l'espressione dell’attività sindacale sulla sede di lavoro, e il Sindacato è l'organo d'insieme che raggruppa i Consigli per branca produttiva, coordinandone e disciplinandone l'azio­ne», e dunque il secondo gradino della scala organizzativa ascendente subordina a sé, pur senza annullarlo, il primo: «i Consigli di fabbrica diventeranno sezioni e sottosezioni del Sindacato in ogni località». Non avrà quindi torto Gramsci di esclamare che il relatore «in poche ore ha rovinato un'opera di educazione e di elevazione del livello di cultura operaia [passiamogli pure quest'orrenda formula] che all’ «Ordine Nuovo» e al gruppo dell’ «Ordine Nuovo», era costata un anno di lavoro e di sforzo». Tasca, anzi, non si fermerà qui e, sull’onda della polemi­ca - molto acre, fra l'altro, come tra nemici - arriverà a definire anar­chica e sindacalista la concezione gramsciana, a chiedere che si consideri il consiglio di fabbrica, «prima ancora che come la base dello Stato co­munista, come strumento di lotta per quella rivoluzione senza la quale lo Stato comunista [...] resterà ridotto alla base su cui nulla sarà edifi­cato», e a sconfessare la parola d'ordine del riconoscimento dei consigli come organi di controllo della produzione, che pure era stato lo slogan dello sciopero delle lancette, essendo «un errore tendere a conquiste fatte nella presunzione di strappare «lembi di potere» al capitalismo»(l'allusione al mito del consiglio = cellula di potere è fin troppo sco­perta).

La reazione di Gramsci è tanto immediata quanto solitaria, e apre una schermaglia destinata a prolungarsi sino alla vigilia dell’occupazione delle fabbriche. In essa, il padre dell’«Ordine Nuovo» rivendica, perfino esasperandole (e quindi arretrando sul cammino di un faticoso av­vicinamento al «leninismo», egregi storici dei nostri calzari!), le sue tesi di partenza: il consiglio di fabbrica (mal confuso col soviet) «inizio storico di un processo che necessariamente deve condurre alla fondazio­ne dello Stato operaio», «istituto assolutamente originale che non può essere confuso col Sindacato, che non può essere coordinato e subordina­to al Sindacato», organo dunque dal quale la rivoluzione parte e al quale la rivoluzione ritorna servendosi solo nella sua fase «distruttiva», in quanto contrapposta alla sua fase «costruttiva» (articolo Due rivo­luzioni del 3 luglio), del sindacato e del partito per «creare le condi­zioni esterne generali (politiche)» in cui lo splendido fiore del consiglio di fabbrica aprirà tutte le sue corolle divenendo «Stato operaio»; sin­dacato e partito (in Gramsci sempre messi sull’identico piano) «organi­smi di tipo volontario e contrattualista [...] nati nel campo della demo­crazia borghese, come affermazione e come sviluppo della libertà politica» (5), dunque incapaci di esprimere e contenere l'infinita ricchezza della rivoluzione, che invece è tutta racchiusa nel consiglio, istituto che l'operaio trova precostituito e in cui entra e opera per «necessità deter­minata», «cellula del nuovo Stato» (a sua volta «riflesso dei rapporti industriali nella fabbrica»); il sindacato, anzi, perituro in quanto «organo della legalità industriale» di cui il consiglio è invece la negazione, talché il secondo «tende, per la sua spontaneità rivoluzionaria, a scate­nare in ogni momento la guerra delle classi» laddove il primo, «per la sua forma burocratica [sentite o no l'eco di Gorter e Pannekoek?], tende a non lasciare che la guerra di classe venga mai scatenata»; il partito, infine, degradato a «partito delle masse che vogliono liberarsi coi propri mezzi, autonomamente, dalla schiavitù politica e industriale attraverso l'organizzazione dell’economia sociale», a «partito di fiducia democratica di tutte le classi oppresse [...] a contatto con tutti gli strati del popolo lavoratore», mai (sentite l'eco delle critiche di Kautsky ai bolscevichi?), mai «partito che si serva delle masse per tentare imitazio­ni eroiche dei giacobini francesi»! (Due rivoluzioni, 3 luglio). E tutta questa roba sarebbe «leninismo»? E in questa cucina anarcosindacalista, soreliana e... kautskiana si sarebbe preparata Livorno?

A noi basta constatare che, alla vigilia del II Congresso dell’Inter­nazionale, il massimalismo aveva in parte ricucito le sue toppe grazie al ritorno all’ovile «riformato» della maggioranza del gruppo ordinovista e di suoi simpatizzanti; che l'«Ordine Nuovo», lungi dall’avvicinarsi alla visione marxista del rapporto classe-partito, del processo rivoluziona­rio in genere e della dittatura del proletariato in specie, se ne allontana­va ancor più risalendo alle sue proprie matrici idealistiche; e che non a caso, in agosto, il precario accordo in base al quale ordinovisti e asten­sionisti dirigevano insieme la sezione di Torino si spezzò, ciascuno an­dando - come avrebbe dovuto andare fin dapprincipio - per la pro­pria strada. Ci si stupirà che la famosa idea di un congresso di cui la se­zione, secondo la mozione «Per un rinnovamento del PSI», avrebbe dovuto farsi promotrice per affasciare tutti gli elementi ansiosi di usci­re dall’equivoco centrista, sia morta il giorno stesso in cui venne for­mulata? O che siano occorsi altri ed altri mesi per avvicinare al polo magnetico della Frazione comunista i riluttanti «ribelli» della maggio­ranza socialista? E si era alla vigilia delle assisi di Mosca!

Come invece si sviluppasse su scala nazionale la rete della Frazione comunista astensionista si può seguire di numero in numero sulle colon­ne de «Il Soviet» (6). Il suo rappresentante era da poco partito per Mosca, seguendo a distanza la delegazione ufficiale del PSI, quando il Comitato provvisorio della Frazione giovanile lanciò alla gioventù socia­lista italiana l'appello e il programma che riproduciamo in appendice a questo capitolo (7), come una ventata di ossigeno nell’asfissiante clima or ora rievocato. La critica del riformismo è qui portata al centro non meno che alla destra del PSI, le funzioni specifiche del movimento giovanile sono definite senza alcun cedimento al culturalismo massimalista e ordinovista come senza alcuna rinunzia ai compiti di formazione teo­rica e politica dei militanti, l'azione antimilitarista è impostata su basi che escludono ogni umanitarismo e pacifismo così come quella anticleri­cale lo è su basi che non possono essere confuse col tradizionale illumi­nismo massonico, il rifiuto del riformismo in tutte le sue varietà si ac­compagna a quello del sindacalismo e del «rivoluzionarismo anarchiciz­zante», la condanna del parlamentarismo va di pari passo con quella della pretesa «atendenzialità» del movimento giovanile, nella corrente socialdemocratica è denunziata «la trincea ultima de! regime borghese» ed è quindi richiesta l'esclusione dall’Internazionale di chiunque appar­tenga a frazioni di centro e di destra del movimento operaio; infine, si ritira l'adesione al PSI e si dichiara di cambiare la denominazione di Federazione giovanile socialista in Federazione giovanile comunista.

Nel disordine di tutte le altre «tendenze» (se così meritano di essere chiamate), anche qui la Frazione costituiva l'unico punto fermo. Lenin e i bolscevichi potevano dissentire da noi su questioni tattiche: ma non è un caso che proprio a noi e soltanto a noi - fra i «dissidenti» del PSI - giungesse l'invito di intervenire al congresso di Mosca. E' ora che, dalla scena italiana, torniamo a quella delle rivoluzioni vittoriose o vinte in Europa.

 

(1)  Cfr. pag. 393,

(2)       Cfr. l'articolo Il prestigio parlamentare, riprodotto più oltre a pag. 403.

(3) Ne parla però l'organo della Confederazione, «Battaglie sindacali», del 15 mag­gio: «Se l'offensiva non è possibile [...] occorre prepararsi per la difensiva contro gli attacchi avversari [...]. Se certi eccessi non sempre spontanei fossero stati evitati, forse le conquiste operaie, il potere operaio, sarebbe molto maggiore oggi di quanto effetti­vamente non sia, e le velleità reazionarie non avrebbero preso le proporzioni che hanno avuto in questi ultimi tempi». Come sempre, la «reazione» c'est la faute aux ouvriers.

(4)       Qui siamo in piena anticipazione del maoismo dell’Unione «marxista-leninista»!

(5) Come prima Tasca ai «consiglisti» di Amburgo, così Gramsci si avvicina qui, nientemeno, ad Otto Rühle, per il quale partiti e capitalismo (quindi democrazia) fanno tutt'uno, nascono e muoiono insieme!

(6)       Un punto interessante, nelle polemiche di questo periodo, è la difesa del bolscevismo dalle diffamazioni anarchiche sull’atteggiamento dei bolscevichi nei con­fronti della «rivoluzione duplice»: cfr. per esempio Il bolscevismo diffamato dagli anarchici nel nr. 15 del 23.V.1920 de «Il Soviet».

(7)       Cfr. pagg. 404407.


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