Quando, fallito il 20 agosto scorso a Mosca il buffonesco golpe "conservatore", i "riformisti" ripresero il controllo dell'immenso impero sovietico, i politologi dell'intero mondo borghese gridarono in coro: L'Urss ha celebrato, o sta celebrando, la sua Seconda Rivoluzione! Con magnanimo gesto, essi infatti concedono che la prima, quella d'Ottobre, sia stata autenticamente proletaria e socialista, ma sostengono – e qui sta la menzogna – che essa sia sfociata senza soluzione di continuità, esattamente come pretendeva Stalin, nella "costruzione del socialismo". La seconda rivoluzione – pacificamente democratica – segue per loro al fallimento della prima considerata come un unico blocco dal '17 al '91 (la perestrojka del 1985-90 non sarebbe stata che un confuso intervallo, una zona neutra, fra socialismo morente ed economia di mercato nascitura): grazie ad essa – questa la conclusione di tutto comodo – il "comunismo" è morto, anzi si è autoliquefatto, in Urss e nel mondo, oggi e per sempre.

Agli antipodi di questa versione mistificatoria di oltre sessant'anni turbinosi è la nostra, di noi comunisti di estrema sinistra, oggi gli unici a proclamarci con orgoglio – e a giusto titolo –  comunisti. Dalla rivoluzione gloriosamente proletaria e comunista dell'Ottobre 1917 agli inizi, nel '26-'27, della costruzione di un falso socialismo, c'è stata – noi diciamo – una violenta e sanguinosa frattura: celebrò allora i suoi primi saturnali una controrivoluzione borghese avente per contenuto il passaggio a marce forzate da un paese ad economia arretrata e in qualche settore (come osservava Lenin nell'opuscolo Sull'imposta in natura) addirittura patriarcale (1), a grande nazione capitalistica. Esaurito il suo compito con metodi necessariamente statalistici e totalitari, questa controrivoluzione cerca adesso – in quello che potremmo chiamare il suo “atto secondo” (un atto d'altronde che, come quello precedente, tutti i paesi capitalistici hanno recitato) e dopo tutti i tentennamenti di cinque anni di "introduzione alle riforme" – di scrollarsi di dosso la pesante armatura totalitaria dell'oltre mezzo secolo passato, per correre l'avventura "inebriante" della libertà di intrapresa in economia e della democrazia in politica. Fra queste due fasi storiche del giovane capitalismo sovietico – di cui la seconda, come sempre nella storia del capitalismo, di nulla più si compiace che di svergognare la prima come una somma di tutti gli orrori – c'è stretta e rigorosa continuità nonostante l'apparenza di chiassose rotture. Le rivoluzioni segnano il violento trapasso da una classe all'altra; qui è una sola classe che esce dal limbo di un'esistenza intrauterina per accedere ai fasti di una prepotente giovinezza.

Non dunque due rivoluzioni, ma una rivoluzione socialista dal ciclo malauguratamente breve ed una controrivoluzione capitalista dal ciclo sciaguratamente lungo, e non ancora giunta, nel gioco dei suoi trasformismi, al suo finale traguardo. Protagonisti della prima, un proletariato urbano egemone, che si trascina dietro la massa priva di iniziativa autonoma dei contadini, e un partito autenticamente comunista che ne assume la guida; protagonisti della seconda, per oltre cinquant'anni, un partito non più comunista postosi al servizio di un frenetico processo di capitalistizzazione dell'Urss, e – a lungo sfuggita ad ogni rilevazione statistica, ma oggi gagliardamente uscita allo scoperto – una borghesia cresciuta sulla base di un simile processo.

Ma ci si obietta: e allora, "il socialismo reale"? Da mezzo secolo la Sinistra Comunista risponde: Non v'è socialismo, neppure in embrione, dove si producono merci, dove i prodotti del lavoro umano si scambiano come merci tramite "l'equivalente generale" della moneta e secondo la legge del valore, dove la stessa forza di lavoro è merce e si vende e si acquista contro salario, dove la produzione avviene per aziende chiamate a spremere plusvalore dalle nude braccia del lavoro e ad accumularlo come profitto, ecc. Che tutto ciò avvenga sotto l'egida dello Stato o di una consorteria di padroni delle ferriere non fa differenza: è capitalismo. Non insegna, d'altronde, Il Capitale, che protagonista degli albori dell'accumulazione originaria con i suoi "metodi tutto fuorché idilliaci" è sempre e dovunque lo Stato? Il "socialismo reale" era – lo diciamo da decenni e decenni – una menzogna spudorata.

La forza e vitalità del marxismo, del comunismo, del leninismo, sta nell'aver saputo e ammonito in anticipo che le sorti della rivoluzione politica russa erano indissolubilmente legate al trionfo della rivoluzione comunista almeno nei Paesi capitalisticamente avanzati dell'Occidente; che al conseguimento di questa meta andavano rivolte e tese al massimo le forze migliori del partito e della classe nella Russia dei Soviet e nel mondo, senza alcuna riserva e senza alcun cedimento alla tentazione di chiudersi ciascuno nel proprio guscio nazionale o di prendere l'illusoria scorciatoia di soluzione democratiche; e che, in mancanza di queste condizioni basilari, il ciclo storico iniziatosi vittoriosamente nell'Ottobre 1917 si sarebbe capovolto nel suo opposto, l'introduzione in Russia di un capitalismo pieno, magari contrabbandato – come fu – per "edificazione del socialismo in un solo paese", per di più arretrato. Così sarebbe necessariamente avvenuto, e così avvenne previe la liquidazione di ogni prospettiva rivoluzionaria su scala mondiale, l'uccisione del partito comunista rivoluzionario in Russia, la sua trasformazione in partito blandamente democratico fuori dei suoi confini. Morto, dunque, il marxismo? No: ridotto dall'infuriare della controrivoluzione in veste totalitaria o democratica ad arma solo in apparenza impotente della critica, fra gli schiamazzi e i dileggi della classe internazionalmente dominante e dei suoi reggicoda opportunisti, esso non potrà non tornare a essere l'arma di lotta e di vittoria del proletariato mondiale. Il corso di oltre cinquant'anni di storia non è la sua smentita né, tanto meno, la sua condanna a morte: è la sua conferma. Ripercorriamolo in rapida sintesi (2).

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Capovolta la prospettiva leninista di una industrializzazione forzatamente gestita dal partito "in attesa di nuove esplosioni rivoluzionarie che maturano in Occidente con lentezza tormentosa", e posta al servizio delle finalità ultime del comunismo in Russia e fuori dal medesimo partito rimasto indefettibilmente se stesso, lo stalinismo procedette a mettere il partito bolscevico, il suo patrimonio teorico, la sua organizzazione, i suoi militanti, al servizio di una capitalistizzazione accelerata del Paese fatta passare per edificazione del socialismo. La via che si sarebbe percorsa, e alla cui tragedia abbiamo assistito, era così inesorabilmente tracciata.

Il Partito poteva, come fece ripetutamente nelle sue punte avanzate fra il '26 e il '33, resistere, impennarsi, ribellarsi: bisognava infangarne, disperderne, esautorarne, infine massacrarne l'avanguardia, modificare radicalmente le basi programmatiche del partito di Lenin, ridurlo ad una massa informe di esecutori di ordini quali che fossero emananti dal Centro o, meglio, dall'infallibile Capo.

All'esigenza dell'indisturbata esecuzione dei piani di edificazione del... socialismo occorreva sacrificare il movimento comunista internazionale, degradandone i partiti da baluardi dell'abbattimento rivoluzionario dell'ordine costituito in baluardi della sua conservazione, tramite i fronti popolari, nazionali, di guerra, di pace, di opposizione parlamentare e di governo, poi attraverso le mille varianti demopopolaresche e infine democratiche senza più nessun velo della seconda metà del secolo. Bisognava distruggerlo come forza eversiva, e sancirne formalmente l'uccisione sciogliendo un'ormai sorpassata e ingombrante III Internazionale. Bisognava codificare la bastarda teoria del socialismo edificato in vaso chiuso e, più tardi, quella altrettanto oscena della compatibilità del socialismo con la produzione e lo scambio di merci, il lavoro salariato, la moneta, la persistenza della legge del valore, ecc., presentandole come "geniali innovazioni del marxismo" ad opera di un becchino elevato a dignità di Padre dei popoli e di Himalaya del pensiero.

Il processo di accumulazione originaria e, via via, allargata si svolgeva, non poteva non svolgersi, in Urss in condizioni di secolare ritardo rispetto ai maggiori e più vecchi capitalismi. Bisognava colmare il distacco procedendo a passi da gigante e non arretrando di fronte a nessun ostacolo. Occorreva saccheggiare le campagne in quella che si fece passare per dekulakizzazione prima e collettivizzazione poi dell'agricoltura, per mettere uomini e risorse "liberati" al servizio dei nuovi centri industriali urbani. Bisognava procedere alla formulazione di piani vasti e pretenziosi che privilegiassero la produzione di mezzi di produzione a scapito della produzione di mezzi di consumo, e per la realizzazione dei quali nei tempi e nelle quantità voluti le nuove generazioni proletarie fossero chiamate a sopportare possibilmente con letizia, in nome di un falso socialismo da mettere rapidamente in piedi, orari e ritmi di lavoro massacranti per salari di fame.

Alla solidarietà fra lavoratori bisognava sostituire la concorrenza reciproca, l'emulazione cosiddetta socialista, la gara a chi arrivasse primo al traguardo di un sia pur misero premio di produzione o di una delle tante medaglie di eroe del lavoro, del socialismo, della patria, distribuite – gli incentivi "morali" non costano nulla, e l'oro e l'argento laggiù si sprecano! – a piene mani. Bisognava fare in fretta, sempre più in fretta, qualunque fosse il prezzo da far pagare ai lavoratori in termini di condizioni di lavoro, di nutrimento, di alloggio, di riposo e, come dovuto in teoria, di svago: insomma, in condizioni generali di vita.

Nelle galere aziendali come nella società vigeva il terrorismo di Stato; "l'emulazione socialista" generava, dandole nuova dignità, l'odiosa figura del negriero e della spia; il desco quotidiano era spoglio; la casa poco più di una tana. Ma i bollettini con le cifre dei successi ottenuti nel raggiungere e perfino superare gli obiettivi fissati nei piani quinquennali – mentre nei paesi di vecchio capitalismi i tassi di crescita della produzione tendevano, come di norma del resto, a decrescere – conferivano un parvenza di verità alla pretesa d'essere davvero sul punto di battere nella corsa ad ostacoli il modo di produzione capitalistico e la sua odiata società. Nel contesto dell'industrializzazione a tappe ravvicinate, c'era lavoro per tutti, mentre nei paesi occidentali infuriava la disoccupazione – argomento di più per dar fiato agli scagnozzi interni e ai panegiristi esteri del regime nel proclamare che, dunque, il socialismo si andava proprio costruendo.

I crimini, i processi farsa, i gulag, il culto della personalità, la trasformazione di Lenin defunto (come egli aveva temuto) in "icona inoffensiva", la repressione dei moti di Berlino nel '53, l'invasione dell'Ungheria prima e della Cecoslovacchia poi, la corsa a bardarsi di armi sempre più sofisticate, gli orrori della gara ad emulare l'Occidente, e via elencando, non furono che i sottoprodotti della battaglia per l'edificazione e il consolidamento di un grande capitalismo nazionale. "Tantae molis erat – per dirla con Marx – portare a compimento il processo di separazione dei lavoratori dalle loro condizioni di lavoro, trasformare i mezzi di produzione e di sussistenza sociali in capitale ad un polo, e al polo opposto la massa della popolazione in lavoratori salariati, quest'opera d'arte della storia moderna".

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Sebbene dominanti, le imprese capitalistiche di Stato (nelle quali del resto, passato il periodo delle sbornie pianificatorie, i tassi d'incremento della produzione cominciarono regolarmente a scendere anche per il dilagare dell'assenteismo, della stanchezza, della delusione, del rancore nelle file di una manodopera orribilmente sfruttata) non esaurivano tuttavia il quadro dell'apparato produttivo e del suo funzionamento nelle città e nelle campagne. Il panorama sociale non conteneva dunque soltanto  due figure – la potente massa di capitale concentrata nell'industria e in una parte dell'agricoltura di Stato e l'enorme e crescente massa di proletari puri.

Già le prime, timide riforme introdotte dai successori di Stalin, e tendenti a concedere alle direzioni aziendali margini via via sempre più estesi di autonomia nella gestione e destinazione degli utili (guai a parlare di... profitti!) avevano favorito la nascita e lo sviluppo, quasi in appendice alle stesse imprese statali, di una fascia di economia sommersa a lavoro cosiddetto individuale (insomma, privato) che non poteva non estendersi gradualmente fuori da ogni controllo centrale e in regime legale o paralegale di mercato. Quel che conta assai più, risaliva già agli anni dell'immediato secondo dopoguerra la nascita di una fungaia di imprese di progettazione ed esecuzione in appalto di lavori pubblici o cosiddetti tali, del cui peso nell'insieme dell'economia sovietica abbiamo dato ampi ragguagli in nostri testi basilari (3), le cui dimensioni di imprese private volanti corrispondevano al volume in ogni caso ingente degli impegni assunti, e dal cui seno la storia del capitalismo insegna che sono sempre sgorgati e sgorgano fiumi di leciti e "illeciti" profitti (4).

È noto d'altra parte che, specie nelle grandi città, i lavori di riparazione nel senso più largo del termine non avevano mai cessato di essere espletati in Urss da aziende individuali o familiari, alle quali una legge del novembre 1986 diede poi figura giuridica disciplinando nel contempo le attività precarie correntemente esercitate nelle ore "vuote" della giornata, e così "facendo emergere il sommerso – commentavamo allora (5) – e trasformando "l''operatore economico' semiclandestino in membro legittimo e molto stimabile della comunità produttiva".

Ma c'era soprattutto il settore sterminato della produzione agricola. Qui, accanto alle grandi aziende di Stato (i sovkoz), fiorivano e più che mai fioriscono oggi le aziende cosiddette collettive (i kolchoz); e queste non sono altro che aziende cooperative detentrici in proprio dei mezzi di produzione essenziali (Chrusciov rivendette loro niente meno che le stazioni statali dei trattori), tenute bensì a cedere allo Stato una quota annua più o meno rilevante del prodotto, ma autorizzate ad esitare il resto sul libero mercato, coprendo in tal modo una percentuale elevatissima del fabbisogno alimentare delle città, e a spartire fra i soci gli utili d'impresa derivanti dalle loro attività combinate. La terra su cui esse lavorano era detenuta in usufrutto perpetuo già in forza della costituzione del 1936; sono proprietà individuale o familiare privata e trasmissibile le case e gli orti annessi i cui prodotti emigrano in parte verso le città per esservi messi in vendita a prezzi prendi o lascia. La massa monetaria enorme di cui si legge che giace inoperosa, ma pronta a trasformarsi in capitale produttivo, nelle casse di risparmio specialmente rurali, ha qui la sua inesauribile sorgente. E se noi attribuiamo a questo settore una parte di così forte rilievo nell'insieme dell'economia russa, come ulteriore serra calda di borghesia imprenditoriale presente e futura, è ancor di più per il fatto che la microproduzione contadina, individuale od organizzata in cooperative, sullo sfondo dell'enorme superficie agraria dell'Urss, non appare soltanto come sede di potenziali accumuli di capitale produttivo. Esso è anche terreno di coltura dei riflessi individualistici, localistici, autonomistici, delle chiusure mentali e politiche, degli oscurantismi religiosi, delle riottosità regionali, degli scoppi ricorrenti di xenofobia (6), che costituiscono, non meno della corsa alla privatizzazione e alla libertà d'intrapresa in tutti i campi, uno dei marchi tipici e più repellenti di quest'ultima fase della controrivoluzione borghese in Urss, e della parallela anche se non sempre omologa putrefazione della Repubblica federale jugoslava, per non dire della crisi, in generale, dell'Est europeo (ma l'Ovest non comincia forse a mostrare di esserne largamente affetto?)

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Il capitale è una potenza sociale, e noi non abbiamo avuto bisogno di aver sotto gli occhi una classe statisticamente identificabile di borghesi (meno che mai la... burocrazia) e, al suo interno, un nucleo registrato nelle anagrafi russe di "operatori economici", per decretare capitalista la struttura economica e sociale dell'Urss in corsa sotto la frusta staliniana.

Oggi, comunque, questa classe e questo nucleo nati e nascenti dai "pori" – come avrebbe detto Marx – del modo di produzione capitalistico e relativa società borghese ci stanno dinnanzi in piena luce. Per conoscerne il volto e assicurarci che esistano non solo come categorie economiche, ma come figure sociali gagliardamente sanguigne, non abbiamo bisogno, quand'anche ne avessimo il permesso, di affacciarci ad una delle "vecchie dacie dell'apparato" nelle quali si riuniscono in picnic serotini i membri pieni di idee nuove della città kazakha di Aktjubinsk o "la sala piccola e disadorna dell'ex albergo Slovenski" a Mosca in cui, il 31 luglio scorso, il presidente USA Bush si è degnato di erudire sulle meraviglie del management un gruppo di "pionieri sovietici". Ci bastano le banche d'affari e le cooperative che "nascono come funghi" in terra sovietica; le Borse di merci che vi "si moltiplicano"; le imprese miste "che hanno superato quota 3 mila"; le società per azioni che "stanno decollando, sia pure con una certa lentezza" (7); le conferenze e le tavole rotonde tenute in mezzo mondo dai nuovi economisti di formazione accademica statunitense per anticipare ai loro partner occidentali le potenzialità produttive del loro Paese felicemente liberatosi dal fardello del controllo statale; un documento, che potrebbe essere stato scritto da Adam Smith o Davide Ricardo, come il Piano Shatalin (di cui daremo prossimamente alcuni stralci); la legge del primo luglio scorso concernente l'abbandono della gestione e la messa in vendita – all'asta o attraverso società per azioni, pezzo per pezzo – del patrimonio industriale dello Stato; la corsa alle ristrutturazioni; l'impegno del governo di portare rapidamente a termine (e senza più imporle lacci e laccioli) la restituzione della terra ai contadini – il che, al giorno d'oggi, cioè al grado raggiunto dal processo di concentrazione del capitale e dalla "tecnica produttiva", significa la sua cessione, diretta o indiretta, immediata o futura, alla grande imprenditoria privata – , e così via. È insomma, questa che ci sta di fronte, una società di rampanti, come individui e come collettività al modo proprio delle giovani e non giovani società borghesi.

Ci assicurano della sua esistenza la proliferazione degli istituti democratici; il colpo di scopa all'orami sclerotico e inutilmente dispendioso apparato del Pcus; il diffondersi ormai incontenibile di autonomie personali, aziendali, regionali, repubblicane; il corso alterno – tipico della storia delle borghesia d'assalto in tutto il mondo – fra spinte centrifughe ricalcanti in progressione geometrica le aureole di libertà e guarentigie di cui ogni rivoluzione borghese ha circondato e suole circondare la fronte dell'individuo e che, prima o poi, scateneranno lotte furibonde per sbranarsi l'un l'altro nella celebre palestra della concorrenza, e spinte centripete invocanti l'intervento centrale dello Stato – unitario o federale – per disciplinare le tanto invocate e infine concesse libertà, e circondare di barriere normative il tanto osannato e infine aperto mercato libero.

Fanno parte di questa storia i personaggi "carismatici" alternantisi sul proscenio del teatrino politico nazionale non meno delle grigie figure dei loro grand-commis; i difensori del centralismo politico non meno di quelli del decentramento; i pope ai cui piedi si prosternano i rei di peccati inevitabilmente connessi all'esercizio delle libertà borghesi, al doppio scopo di sgravarsene la coscienza e di sentirsi autorizzati a peccare di nuovo, e i preti laici, gli intellettuali, gli accademici che promettono il paradiso ai cavalieri della libera intrapresa; i candidati alla miriade di corpi rappresentativi di cui l'atlante politico e sociale dell'Urss e delle sue repubbliche si va rapidamente adornando; gli spacciatori di oppio ideologico e di materialissima droga; i padrini di ogni tipo di commercio; il grande banchiere e il piccolo usuraio; i cantori di una libertà necessaria e quelli di una non meno necessaria costrizione poliziesca; i piccoli imprenditori che oggi dominano la scena e i grandi che si preparano a divorarli domani per poi riconcedere loro spazio nelle pittoresche sfere dell'indotto e del sommerso e, una volta raggiunto il grado ottimale di cottura, nuovamente divorarli; gli investitori interni ed esteri guardinghi, e quelli ardimentosi...

È irreversibile, il processo di moltiplicazione a rotta di collo delle libertà, delle autonomie, dei diritti personali, aziendali, regionali in Urss? La storia del capitalismo è fatta di contraddizioni continue, di affermazioni e negazioni alterne, di sfrenate deregulations e di severe nuove regulations. Oggi la spinta è verso le prime; ed è una spinta travolgente. Domani verrà, con o senza cambio della guardia, la spinta verso le seconde e vedremo fino a che punto sarà impetuosa. La caduta del saggio di profitto, cui oggi si tenta di porre argine anche in Urss con grandinate di liberalizzazioni ristrutturatrici, è tendenziale: altrettanto lo sono i rimedi via via adottati nel suo tormentoso corso di attuazione. Sono borghesi tanto il liberalismo spinto agli estremi quanto il bonapartismo; il federalismo quanto il centralismo e la loro periodica miscela o, viceversa, alternanza. È irreversibile, questo è certo – salvo (e ben venga) il colpo d'arresto della rivoluzione proletaria – il corso grande borghese dell'Urss.

* * *

Quale la posizione della classe operaia? Essa esce dalla galera stalinista, i cui orrori hanno finito per renderle odioso perfino il nome di comunismo. Entrata non per sua scelta nel girone della libertà economica e politica, ne ha ricevuto come primo assaggio la perdita di quelle garanzie sia pur limitate che avevano il nome di un posto di lavoro massacrante ma sicuro, e di un salario misero ma certo. Ha provato sulla propria pelle il gusto delle ristrutturazioni in senso liberista: tagli già notevoli, ma destinati ad aumentare, negli organici (come si dice per non parlare di licenziamenti); blocco dei salari dopo brevi scorrerie nei pascoli di demagogici aumenti; ascesa del costo della vita e difficoltà di approvvigionamento se non a prezzi strozzineschi; divieti di sciopero – il tutto in ambiente di sfascio di ogni organizzazione di difesa, e di tramonto di ogni certezza politica.

L'orgia delle liberalizzazioni economiche promette non di migliorare questa situazione, ma di peggiorarla. La classe operaia guarda con diffidenza più che giustificata alla democrazia politica ed economica: l'esperienza diretta di essa potrà persino farle rimpiangere momentaneamente almeno qualche aspetto del passato stalinista; la collera e la delusione seminarne il cammino di fisime localiste e regionaliste. Ma il peso delle determinazioni economiche non potrà alla lunga non far risorgere nelle sue file l'esigenza di organizzazioni di difesa, di forme di lotta autonome, di obiettivi di classe. "Non v'è grande male storico – scriveva Engels al russo Daniel'son il 17 ottobre 1893 –  che non sia compensato da un progresso storico". La controrivoluzione staliniana è stata, per il movimento operaio russo e internazionale, una rovina senza pari, nella storia di quasi due secoli di lotte sociali; oggettivamente, come "impianto del modo di produzione capitalistico in forma e con tecnica modernissima in paesi ad economia arretrata, rurale, feudale ed asiatico-orientale" (8), ha però scagliato nel vortice dei conflitti sociali (siano pur oggi contrastati da influenze ideologiche paralizzanti, democratiche, localistiche, libertarie, chiesastiche ed altre) un'area immensa del pianeta, e la comparsa di nuclei di classe operaia numericamente poderosi e non più isolati in due o tre città-madri, ma concentrati in aree fittamente popolate. Malgrado e contro se stessa, ha gettato le basi oggettive di un rientro in campo, con ben altro peso fisico che agli inizi del secolo, delle classi lavoratrici.

Queste oggi appaiono sulla scena come pure e semplici spettatrici di un processo troppo repentino per non averle colte di sorpresa.

Ma questo stesso processo non offre loro, all'interno, nessuna speranza di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, mentre i presunti paradisi occidentali offrono loro proprio adesso lo spettacolo di una disoccupazione in aumento negli Usa come in Gran Bretagna, in Francia come in Italia, per non parlare dei paesi "liberati" dell'Est non-sovietico; di una recessione appena appena nascosta da rumorosi quanto vacui annunci di ripresina (9); di bilanci pubblici in paurosi deficit; di un costo della vita regolarmente in crescita; di episodi clamorosi di frodi bancarie non solo negli Usa ma in Giappone, Italia, Svizzera ecc. Il processo di ricostituzione del programma rivoluzionario e della sua traduzione in organi politici (oltre che immediati) di lotta sarà lungo e straordinariamente difficile, ma il doppio "compenso storico" fornito dalla controrivoluzione in forma stalinista ieri, democratica oggi, sia pure in senso soltanto negativo, verrà in aiuto alla ripresa rivoluzionaria e comunista come l'esperienza storica insegna che sempre accade sull'onda di grandi rivolgimenti storici.

Spetta all'Occidente proletario dare a questa ripresa il contributo decisivo che, nei primi anni '20, non ebbe la forza di correre a fornirle. Sua, e pesante, è stata la responsabilità nella catastrofe stalinista: sua sarà, in gran parte, la responsabilità della rinascita della tradizione di Ottobre contro ogni seduzione democratica. Come concludeva Engels; Que les grandes destinées s'accomplissent! Che i grandi destini si compiano!

Note

1. Cfr. l'opuscolo Sull'imposta in natura, in Lenin, Opere, Vol. XXXII, pp. 310-11.

2. Cfr., Noi e la questione russa, “Il programma comunista”, n.5/1991.

3. Cfr. in particolare i paragrafi 67-69 della Parte Terza di Struttura economica e sociale della Russia d'oggi.

4. Si parla e riparla di mafia moscovita od altra; ma su quale terreno prospera, la mafia, se non particolarmente sugli appalti? Vedasi la "nostra" Italia.

5. Cfr. Il significato della nuova legge sovietica sul "lavoro individuale", in "Il programma comunista", nr. 1/1987.

6. Cfr. la già citata Struttura ecc., nei paragrafi 21-40 della Parte Terza e 101-110 del Collegamento. Per un confronto, soprattutto sui punti qui ricordati, fra la costituzione del 1936 e quella del 1977, e fra entrambe e quella del 1918, cfr. La nuova Costituzione sovietica, un passo avanti nella confessione della natura capitalistica dell'Urss,in "Il programma comunista", nr. 14/1977.

7. Le citazioni provengo da "Il Sole 24 ore" del 26/VII, 1/VIII, 3/VIII, 1991.

8. Cfr. la prima delle “Otto tesine sulla Russia”.

9. Particolarmente scoraggiante il fine agosto. Il Pil americano è sceso nel secondo trimestre al tasso annualizzato dello 0,1 contro la stima iniziale dello 0,4: sono calate soprattutto le spese per i consumi (-5 miliardi di dollari). Per l'Italia, "La Repubblica" del 30/8 annuncia: Ripresina addio... La recessione è in agguato. Unica a dare segni positivi, nonostante la crisi nell'ex DDR, è la Germania: ma fino a quando?

                                                                                                              (Il programma comunista, n.5/1991)

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