A Bursa, città industriale di 3 milioni e mezzo di persone sulle coste occidentali della penisola anatolica è sera inoltrata, fra il 15 e il 16 maggio. Nella fabbrica della Renault, ci si prepara ad assemblare i 400 veicoli previsti dalla tabelle produttive. I cancelli si aprono, ma vi è solo il flusso in uscita degli operai dai grandi capannoni: nessun operaio entra. In 1500, che dovrebbero vendere carne e mente ancora una notte come le altre notti, incrociano le braccia e avviano lo stato di agitazione: sarà il più imponente sciopero in terra turca da molti anni a questa parte (alla fine di questa prima fiammata, saranno oltre 10.000 i veicoli non prodotti).

Come abbiamo avuto modo di sottolineare non più di un anno fa su queste stesse pagine 1, la Turchia si sta sviluppando economicamente lungo un cammino fortemente contraddittorio. Mentre negli ultimi 20 anni la produzione industriale e il PIL sono cresciuti (con ritmi inimmaginabili per i vicini europei), portando il paese al 10° posto nella classifica della produzione industriale, nemmeno una briciola di questa ricchezza prodotta è andata alla classe operaia. Al contrario, i lavoratori hanno subito, nello stesso lasso di tempo, l'erosione dei propri salari, a causa della forte inflazione della lira turca; al contempo, hanno subito un vero e proprio attacco alle condizioni di lavoro, con un'aumentata produttività e il rapido e violento peggioramento della sicurezza sul posto di lavoro, imposti da una borghesia sempre più avida e parassitaria.

A dicembre 2014, nel distretto di Bursa, un'altra multinazionale, la Bosch, ha concesso, dopo una trattativa con il Türk Metal, il solo sindacato metalmeccanico riconosciuto dalle aziende, un significativo aumento salariale. Nei mesi successivi, fino ad arrivare a maggio, gli operai Renault hanno continuamente tallonato il sindacato perché imponesse alla dirigenza gli stessi miglioramenti salariali ottenuti dai lavoratori della Bosch. Il Türk Metal, dal canto suo, ha continuato per settimane e settimane ad attuare manovre dilazionatorie per convincere gli operai che non vi era nessuno spazio di trattativa, dimostrandosi in questo modo completamente sottomesso alle direttive aziendali.

A metà maggio 2015, gli operai, messi di fronte all'incontestabile diserzione sindacale, decidono di passare dalle generiche richieste orali a una specifica azione materiale. Afferma un operaio intervistato dai giornali nei primissimi giorni dello sciopero: "Abbiamo continuato a chiedere miglioramenti all'azienda, ma il sindacato non è riuscito a imporlo alla Renault... Tutto ciò che vogliamo è avere le stesse condizioni dei lavoratori delle aziende che hanno concordato aumenti salariali [la Bosch – NdR], ma la dirigenza del sindacato non ha prestato a noi alcun orecchio". E così, preso atto che nessun dirigente aziendale ha voluto recepire le loro richieste, hanno deciso di scendere in sciopero per costringere i padroni a trattare.

Fin dal primo giorno, le rivendicazioni sono chiare. Afferma un rappresentante degli operai: "Abbiamo tre richieste. Noi vogliamo un accordo complessivo contrattuale uguale a quello concordato in Bosch nel dicembre del 2014. Noi non vogliamo vedere nessuno dei nostri compagni perdere il lavoro a causa dello sciopero, noi non vogliamo essere più rappresentati a nessun livello dal Türk Metal". In particolare, ad aprile, la richiesta operaia trasmessa a Renault e Turk Metal è stata chiarissima: aumento del salario del 60% per i prossimi tre anni.

Alla prime luci della mattina di venerdì 15 maggio, gli operai in sciopero crescono a 5.000, i piazzali della Renault vengono occupati dai lavoratori e dalle loro famiglie. Le necessità materiali, prima fra tutte la spinta economica unita alla forza derivante dall'esempio dei lavoratori Renault, determinano la crescita delle maestranze in lotta nelle successive 48 ore, fino al ragguardevole numero di più di 16.000 operai nel solo distretto industriale di Bursa.

Renault, Ford, Fiat e i loro soci turchi, fra cui spicca con il 49% il fondo pensione dell'esercito turco (parte integrante della struttura borghese turca e in questo senso massa improduttiva, l'esercito si garantisce l’"agognata pensione", succhiando direttamente plusvalore alla fonte), Çoskunöz Tenere, BeltanTrelleborg Vibracoustic (TBVC), Delphi, SKT, Ototrim Automotive, Rollmech e Mako, Valeo e decine di altre fabbriche, soprattutto a Bursa ma non solo, sono le aziende nelle quali gli operai scendono in sciopero. Nei giorni successivi, lo stato di agitazione si propaga ad aziende petrolchimiche e al comparto edile, arrivando perfino a coinvolgere i medici di base: nel giro di due settimane, la Turchia è spazzata da un’ondata di lotta che letteralmente prende a ceffoni lo Stato.

Ciò che è accaduto in Turchia è un episodio di autentica lotta di classe. Lo dimostrano la forza messa in campo dai lavoratori (16.000 sono i soli operai scesi in sciopero a Bursa, ma si superano i 20.000 se si contano gli episodi al di fuori del distretto principale), il tempo (per ben due settimane, gli operai lottano compattamente e senza indietreggiare di un solo passo dai loro intenti), la piattaforma avanzata (che, senza giri di parole democratoidi, mette sul piatto della bilancia aumenti salariali netti, contrattazione diretta con l'azienda, l'estromissione dalla stessa del sindacato ufficiale che non ha più credito presso i lavoratori, e infine l'avvertenza a non forzare la mano con licenziamenti e/o atti repressivi), i metodi di lotta (che, uniti alla forza, letteralmente abbattono la produzione e l'esportazione, danneggiando pesantemente la borghesia patriottarda e quella straniera imperialista). La statistica ufficiale spara grandi numeri, probabilmente gonfiati ad hoc per coprire contrazioni più congiunturali: ciononostante, i danni per mancata produzione hanno fatto un gran male alla borghesia mondiale.

Che si sia trattato di un episodio di vera lotta di classe è dimostrato anche dalla reazione della borghesia. In un primo momento, le dirigenze dell’industria automobilistica di mezza Europa reagiscono con un piglio di snobistica sufficienza, rispedendo sdegnati al mittente le richieste e minacciando gli operai di ritorsioni legali (e non solo). Quando però le linee vuote e silenziose della produzione si sommano alla rumorosa massa dei lavoratori e delle classe intera che si riversa nelle fabbriche occupandole, gli stessi vertici reagiscono scompostamente e decidono una repentina serrata. Due settimane più tardi, compiendo una virata di 180°, essi scendono a più miti consigli e firmano i primi accordi con i lavoratori, che s’avvicinano di molto all’iniziale piattaforma imposta e difesa dalla lotta operaia.

Lo Stato, ovvero l'arma repressiva della borghesia, si mostra sorpreso e preoccupato. Il governo del sultanissimo Erdogan né provoca né attacca frontalmente gli operai, come solo meno di due anni fa provocava e attaccava in forze i giovani di Gezi Park: una cosa è scontrarsi con un movimento piccolo borghese, che, anche al massimo della sua potenziale radicalità, non può uscire dall'ambito ideologico capitalistico e democratico; tutt’altra cosa è attaccare frontalmente un'imponente lotta operaia. 16.000-20.000 lavoratori rappresentano un potenziale ma concreto pericolo per l'ordine costituito. In una situazione di crisi generale come quella odierna, si potrebbe innescare una spirale di reciproca violenza, che in un futuro, ancora difficile da collocare temporalmente, potrebbe gettare le basi oggettive di un’aperta guerra civile.

La piccola borghesia turca, che all’epoca di Gezi Park aveva fatto – si fa per dire! – fuoco e fiamme, si mostra essa pure preoccupata e, peggio, diffidente. In questi anni, essa ha raccolto qualche briciola e ora, preoccupata di perdere i propri miseri privilegi, non interviene in alcun modo a favore della lotta proletaria: nessuna significativa manifestazione di solidarietà a Instabul o altrove – solo dimostrazioni di altri operai. La piccola borghesia, come la sua sorella maggiore, sa bene che giocare con la rabbia operaia potrebbe portarla sui territori inesplorati della lotta di classe proletaria.

Dunque, un episodio di genuina lotta di classe. Ma certo non si va oltre: ci vuole ben altro. Le linee di rottura del sistema borghese democratico sono difficilmente prevedibili. D’altra parte, episodi di genuina lotta di classe, anche se ancora sul solo piano della difesa delle condizioni di vita e lavoro, sono non solo auspicabili, ma rappresentano l'unica forza motrice della rivoluzione futura. Il nostro Partito saluta con gioia e speranza ogni lotta condotta su un piano coerente di classe: una lotta in sé, se non ancora per sé. Malgrado ciò, siamo consapevoli che, in assenza di un Partito rivoluzionario disciplinato, potente e mondialmente ramificato, la distanza che ci separa dall'assalto al cielo rimane sostanzialmente identica, nonostante qualsiasi generoso sacrificio la classe operaia sia capace di compiere nel tempo. È un dramma che il Partito non sia ancora in simbiosi con la classe: ma è un dramma ancora peggiore che la classe si ritrovi ancora senza il suo Partito.

Siamo comunque certi che dovremo ancora parlare del proletariato turco.

1 Cfr. “Turchia oggi”, Il programma comunista, nn.1 e 3-4/2014.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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