Stragi in Bangladesh

La strage di lavoratrici e lavoratori tessili a Dacca, in Bangladesh, il 24 aprile, con i suoi ormai più di milleduecento morti e migliaia di feriti, nel crollo di un palazzo che ospitava diverse fabbriche e che si è disgregato sotto i loro piedi mentre erano costretti a lavorarci nonostante gli evidenti segni di cedimento, e quella successiva di altri otto, due settimane più tardi e sempre a Dacca, a seguito di un incendio in un edificio-fabbrica di undici piani (ma come dimenticare i 117 morti nel rogo della fabbrica Tazreen Fashion, ancora a Dacca, nel novembre 2012?), a che numeri porta l’olocausto operaio? Quanti sono i milioni di operai assassinati in nome del profitto, anno dopo anno, dai carnefici addetti alla catena, dai guardiani dei campi di concentramento chiamati aziende, dai boia del Progresso capitalistico chiamati imprenditori, dai datori di morte ipocritamente detti “datori di lavoro”?

Che non si parli di Terzo Mondo! Nella fabbriche di Dacca (come in quella di scarpe a Kong Pisey, provincia di Kampong Speu, a circa 40 chilometri ad ovest dalla capitale Phnom Penh, in Cambogia, crollata a metà maggio sotto il peso dei macchinari: 100 operai, almeno sei morti e decine di dispersi), si produce per un mercato capitalistico globale: le ditte coinvolte appartengono tutte al Gotha dei marchi di abbigliamento e calzature. Questi sono omicidi, non dell'arretratezza, ma del capitalismo nella sua fase imperialista, che drena forza-lavoro da ogni parte del globo!

Altre morti in miniera (e altrove)

Se questo non è un bollettino di guerra... Ventun morti nell'esplosione della miniera Machang, di proprietà della Gemudi Water and Mining Group, a Guiyang, nella provincia del Guizhou (Cina sud-occidentale), il 12 marzo; ottantatré minatori rimasti intrappolati in una miniera del gruppo minerario China National Gold, nella contea di Maizhokunggar, vicino a Lhasa (Tibet), a fine marzo; sedici lavoratori clandestini morti nel crollo di una miniera d'oro vicino alla città di Kyekyewere (Ghana), a metà aprile; più di cento morti nel crollo di una miniera d'oro nei pressi del villaggio di el-Sireaf, nel Darfur (Sudan Occidentale) ai primi di maggio; dodici morti nella miniera di carbone di Dashan, nella contea di Pingba, provincia di Guizho (Cina sud-occidentale), il 10 maggio; ventotto minatori morti in un incidente nella miniera dell'impresa statunitense Freeport-McMoRan Copper&Gold, nella Nuova Guinea indonesiana, il 14 maggio...

Non basta. Ai primi di giugno, un incendio si è sviluppato nella struttura prefabbricata della Jilin Baoyuan Poultry Company, un'azienda di allevamento e macellazione di polli a Mishazi, nella città di Dehui. nella provincia nord orientale di Jilin (Cina). Al lavoro erano circa 300 persone: forse una perdita di ammoniaca, fiamme improvvise e rapidissime nell'espandersi, cancello d'ingresso chiuso. Non si sa ancora in quanti siano rimasti intrappolati: di certo, almeno 112 operai e operaie sono bruciati vivi.

Non passa giorno che altre notizie arrivano, da tutto il mondo: altre morti, altro sangue proletario, numeri da guerra guerreggiata.

Perché, sì, è un bollettino di guerra – della guerra del capitale contro il proletariato.


 

Lager di morte annunciata

Nel capitolo V del Libro III del Capitale, dal titolo “Economie nell'impiego del capitale costante”, Marx affronta i mille modi in cui si manifesta lo sfruttamento della nostra classe, sacrificata sull’altare dell'“economia del capitale costante”, nelle miniere, nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, riportando i dati del tempo sugli infortuni, sugli “omicidi sul lavoro”, sulle condizioni igieniche, sulle condizioni di vita miserabili, sulle malattie professionali. E’ lo spaccato di un mondo che, allora come oggi, viene tenuto al riparo da occhi indiscreti e rimosso purtroppo dagli stessi compagni di lavoro, timorosi di esporsi, tenuti alla catena non solo dai padroni, ma anche da coloro (le organizzazioni sindacali, i partiti riformisti) che, dicendo d’esserne i portavoce, ne reclamano il guinzaglio e la proprietà.

Si trattava e si tratta di galere del lavoro, che soprattutto oggi, nel mezzo della crisi economica, si trasformano in autentici lager di morte annunciata – luoghi che vengono visti come “riparo dalla miseria”, mentre di fatto sono causa della miseria umana e proletaria. Le decine di operai che si sono tolti la vita in questi ultimi due anni si sono guardati intorno prima dell’atto finale: hanno visto il vuoto attorno a loro, la solitudine, l’assenza di solidarietà, l’impossibilità di difendersi e di lottare; hanno partecipato agli scioperi rituali dell’ora prevista; hanno pianto la morte dei compagni; ma non hanno avuto il coraggio e la forza, nell'isolamento e nell'abbandono in cui sono tenuti, di trasformare la pena e la rabbia in lotta – e troppo spesso sono tornati in silenzio in fabbrica ad aspettare… il proprio turno.

Le statistiche, i bollettini della guerra del capitale sono inghiottiti dal gran calderone dei media, dove questi numeri, ripuliti dal dolore immenso, perdono di senso, diventano roba che invecchia rapidamente: sacrificio in nome di un... presunto progresso.

Scrive Marx: “Come da un lato spinge allo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, così dall’altro il modo di produzione capitalistico spinge all’economia nell’impiego del capitale costante. La questione tuttavia non si esaurisce nel rapporto di alienazione e indifferenza fra l’operaio, depositario del lavoro, qui, e l’impiego economico, cioè razionale e parsimonioso, delle sue condizioni di lavoro, là. Conformemente alla sua natura contraddittoria e antagonista, il modo di produzione capitalistico giunge fino ad annoverare LO SPERPERO IN VITA e SALUTE DELL'OPERAIO, lo stesso peggioramento delle sue condizioni di esistenza, fra le economie nell’impiego di capitale costante, quindi fra i mezzi per elevare il saggio di profitto” (Il capitale, Libro III, UTET, p.122, corsivi nostri).

E aggiunge che, dove l’operaio spende la maggior parte della sua vita (il luogo di lavoro), lì si trovano le condizioni del suo processo attivo di vita, lì si manifestano le sue condizioni di esistenza; e che l’economia di queste condizioni, accompagnato da quell'eccesso di lavoro che trasforma l'operaio in BESTIA DA FATICA, è un metodo per elevare il saggio di profitto, per accelerare l’autovalorizzazione del capitale, la produzione di plusvalore. “Questa economia si spinge fino a stipare operai in ambienti stretti e malsani, cosa che in linguaggio capitalistico si chiama risparmiare in fabbricati; a riunire macchine pericolose negli stessi locali e trascurare i mezzi di protezione dal pericolo; a non prendere nessuna misura precauzionale in processi di produzione che sono tuttavia per natura nocivi alla salute o, come nelle miniere, inseparabili da rischi di infortunio, ecc. Non parliamo poi dell’assenza di ogni installazione destinata a umanizzare, cioè a rendere gradevole o anche solo tollerabile per l’operaio il processo di produzione, cosa che, dal punto di vista capitalistico, equivarrebbe a uno spreco inutile e insensato” (idem).

Ma per la borghesia e per tutta la razza dei padroni questi luoghi sono… prove dell’inventiva umana! E ci sono quelli che li vorrebbero portare ad esempio: luoghi-simbolo di dedizione, di formazione, di espressione di dignità umana!

 

E' ora di dire “Basta!”

In quello stesso capitolo del Capitale, basandosi sui rapporti agghiaccianti dell'ispettore di fabbrica Leonard Horner, Marx ricorda che i fabbricanti inglesi avevano creato la National Association for the Amendment of the Factory Laws, che subito si attivò per dimostrare che “SE AVVIENE PER AMOR DEL PROFITTO, KILLING IS NO MURDER, UCCIDERE NON E' ASSASSINIO”. Già, “uccidere non è assassinio”: è solo un effetto collaterale della guerra condotta contro l’umanità proletaria. Se questa è LA LORO FILOSOFIA, LA LORO DETERMINAZIONE, LA LORO ARROGANZA, LA LORO VIOLENZA, dimostrata in tanti secoli, allora che L'ORDINE SIA ROVESCIATO: KILLING IS NO MURDER – FACCIAMOLA FINITA CON QUESTO MODO DI PRODUZIONE DISTRUTTIVO E SANGUINARIO.

Che il proletariato torni a organizzarsi, a prepararsi per far la guerra al capitale, per fermare questo maledetto bagno di sangue: non sarà mai troppo presto! Che la vita dei milioni e milioni di proletari che sudano sangue nei lager capitalistici trovi la strada della violenza riparatrice, del rovesciamento di quest'ordine sanguinario! La lotta dei lavoratori internazionali non deve chiedere a nessun Governo borghese, a nessun Diritto, a nessuna Giustizia la delega per la riparazione di una condizione di schiavi: deve mettere in campo la propria determinazione, la propria organizzazione, la propria forza, nella lotta di classe che dovrà scatenarsi per le strade e le piazze, contro la classe dominante di ogni paese. Il grido della nuova Internazionale dei proletari sia ancora quella di un tempo: Proletari di tutto il mondo, unitevi!

 

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°04 - 2013) 

 

 

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