La realtà capitalistica è instabile e senza regole per sua stessa natura, e i lavoratori si troveranno sempre ad affrontare licenziamenti e disoccupazione: questo stato di cose deve essere sempre presente alla classe operaia. La chiusura, il fallimento di migliaia, decine di migliaia, di aziende, non è cosa nuova: milioni sono i proletari licenziati e a decine di milioni si contano i disoccupati di tutte le età, di tutti i settori produttivi e dei servizi. La profonda crisi economica si sta scatenando ovunque e spinge i proletari immigrati, per primi, alla lotta dura. Che il capitalista come rappresentante del profitto sia travolto dai suoi stessi investimenti di capitale, che il banchiere come rappresentante del capitale finanziario e del credito affondi con la sua stessa banca e i suoi interessi, che il rentier si senta minacciato nei suoi affari, a noi non importa e non deve importare nulla, come non c'importa nulla il carico di debiti dello Stato. Possiamo solo dar loro la botta finale mandandoli in bancarotta. A noi importano solo e unicamente gli interessi sia immediati che storici della nostra classe. Essa viene attaccata sempre, sia quando è in corso una crisi profonda come questa, sia in epoca di sviluppo “normale” del capitale.  

I licenziamenti e la disoccupazione non sono eventi eccezionali per la classe operaia, una specie di tempesta che presto o tardi si quieta. Essi sono processi dettati dalla spinta al profitto del capitale: chi non licenzia, chi non ristruttura, chi non modifica la propria attività produttiva, è fuori gioco ad opera dei concorrenti. Niente piagnistei, nostalgie, ripensamenti, instillati da cacadubbi: serve ritrovare la capacità di organizzare e centralizzare le proprie forze per resistere all’attacco già in atto da parte della borghesia. Il carattere della lotta di classe deve essere e divenire aggressivo, come si è verificato nei grandi momenti della storia del movimento proletario. La vita lavorativa della classe, lo si ricordi, è sempre stata precaria, flessibile, funzionale ai bisogni del capitale. Non si tratta di processi temporanei o locali: l’esercito industriale di riserva, ovvero la massa di lavoratori di riserva (disoccupati o sotto-occupati), esiste e funziona come un invaso che si svuota e si riempie ciclicamente. E di questa massa il capitale fa buon uso come forza concorrenziale agli operai occupati.

Per questo, innanzitutto, l’unità dell’intera classe va messa al primo posto, respingendo il crumiraggio organizzato dalle organizzazioni sindacali corporative, dai partiti riformisti e reazionari e da quelle componenti di aristocrazia operaia presenti in ogni campo produttivo e dei servizi. Questo proletariato di riserva si compone di lavoratori immigrati (parte oggi crescente), di forza-lavoro in cerca di prima occupazione e di forza-lavoro femminile. A questo settore della classe va dato decisamente sostegno, in modo di attrarlo dalla nostra parte: senza il suo apporto, il fronte di classe risulterà sempre debole. Allo stesso modo, il fronte del proletariato disoccupato, fuori produzione, va verso la sconfitta senza il proletariato attivo. Tutto questo non è una novità e ogni lavoratore sa che, un giorno o l’altro, dopo di lui toccherà al compagno di lavoro uscire di scena e finire in miseria. Solo l’unità della classe, il coordinamento, la compattezza, l’organizzazione centralizzata decidono nella lotta di classe. Le rivendicazioni non possono essere legate solo alla propria attività lavorativa, ma devono riguardare tutta la classe: devono essere generali e riferite tanto agli occupati che ai disoccupati, ai licenziati, ai precari, agli immigrati, ai pensionati. La classe è una sola e non divisibile contrattualmente e socialmente. 

Questa realtà è conosciutissima dalle organizzazioni sindacali. La loro funzione è quella di rabbonire, impedire che esploda la rabbia operaia: e così, tra passeggiate e schitarrate, tavoli con le Autorità e con la Controparte, promesse e inviti alla calma (con relativo intervento di preti e pacificatori d'ogni tipo), si consuma l'energia di lotta, si svuota ogni tensione, si spegne ogni tentativo di risposta della classe operaia. Tutte queste associazioni sindacali, cooperative e corporative, organismi trasversali di servizi venduti al nemico di classe, impediscono ogni lotta, dividono il fronte separandolo per categorie, per nazionalità, regione, provincia, comune, settore produttivo. Essi fanno di tutto per mostrare l’impossibilità delle richieste, degli obiettivi della classe: la mancanza di fondi, la difficoltà attraversata al momento, l'affanno dello Stato... Inganni su inganni, tradimenti su tradimenti. La classe tuttavia non può battersi per un altro modo di produzione con un atto di pura spontaneità. Non può vincere chiudendosi nelle fabbriche, occupandole o istituendo il cosiddetto “controllo operaio” – illusioni anarcoidi che isolano i lavoratori gli uni dagli altri, consentendo l’attacco centralizzato del nemico di classe. La lotta è nelle piazze, la lotta è nelle strade, la lotta è nei luoghi simbolo del potere della borghesia. Non si possono vincere le tante battaglie immediate senza lotta e senza organizzazione (si tratti di sindacati di classe o di organismi territoriali di lotta costituiti da avanguardie di lotta), senza obiettivi immediati e senza una finalità di classe, cancellata dalla sua memoria. Non si può vincere senza la direzione e organizzazione del Partito di classe, del partito comunista internazionale.

La lotta di resistenza, la lotta per la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro, la lotta tramite scioperi ad oltranza senza limiti di tempo e di spazio, senza preavviso (di inizio e conclusione dello stesso), non può trasformarsi in attacco senza che si sia sostanziata di esperienza, di vittorie sul campo, di conquiste parziali, senza il raggiungimento di punti di forza, di un terreno agevole per battersi. Le rivendicazioni devono basarsi non solo sulla lotta contro i licenziamenti, cui la resistenza operaia di massa, generalizzata e nazionale, deve dare il proprio apporto decisivo. Esse devono basarsi soprattutto sulla difesa del salario, che deve essere integrale per tutti i licenziati, qualunque sia la causa del licenziamento, e a carico delle associazioni padronali e dello Stato borghese. Dunque, No alla Cassa integrazione a tempo determinato e a salario ridotto, ma salario integrale fino a che non venga ripristinato il rapporto di lavoro. Anche nel caso di riduzioni dell’orario di lavoro (passaggio al part-time o a forme precarie di lavoro ridotto o flessibile), mantenimento dello stesso salario.

Per quanto riguarda il rifiuto dei licenziamenti, va da sé che esso non assume un carattere morale e tanto meno di sostegno alla cosiddetta “cultura del lavoro”. La questione è di somma importanza, perché è in questa cosiddetta “cultura” che sguazza l’operaismo in tutte le sue versioni: la fabbrica viene considerata il corpo organico della classe nei suoi aspetti organizzativo e politico; non il partito di classe sarebbe dunque l’organo della classe, ma le forme in cui il proletariato viene a essere strutturato, organizzato, coeso, all’interno della fabbrica a fini di profitto; in tale metafisica, il licenziamento appare allora come la perdita di uno dei suoi arti, di uno dei suoi organi. Si scambia insomma l’organizzazione interna di fabbrica (numero, divisione del lavoro alla catena di montaggio, tempi di produzione) come una potenziale arma di lotta, mentre si tratta di una struttura di comando e di asservimento del proletariato, che lo vincola come una catena al suo essere classe per il capitale.

Nella concezione rivoluzionaria, il rifiuto del licenziamento è la parola d’ordine che innesca il processo di lotta (inevitabile nella realtà capitalistica) contro il potere disciplinante della funzione di produzione, per divenire funzionale alla disciplina di classe (unione, coesione, finalità dello scontro di classe). Nella concezione operaista, invece, i disoccupati non sono che i licenziati di ieri che aspirano a rientrare nel corpo organico di un tempo: si configura così l’eternità dello sfruttamento, l’eternità della sofferenza di Sisifo. La lotta di classe al contrario è l’unione di tutta la classe contro il regime di fabbrica e la macchina dello Stato borghese. 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2013)

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