Nella seconda parte di questo lavoro, apparsa nel n°1/2013 di questo giornale, abbiamo ripercorso le vicende della contrattazione nel secolo XX – un secolo di contrasti di classe tra i più cruenti nella storia del movimento operaio, attraversati da una grande effervescenza rivoluzionaria anche in termini di rivendicazioni economiche (soprattutto nella prima parte del secolo, finché resse la spinta all’“assalto al cielo”, non solo in Russia, ma nel mondo intero). Alla lotta di difesa sul piano economico e di attacco sul piano politico rispose in tutto il mondo la controrivoluzione borghese, in tutte le sue forme (liberismo, riformismo, massimalismo, fascismo, nazismo, stalinismo). La crisi del 1929 e la seconda guerra mondiale consolidarono la vittoria della borghesia, che impose quasi assoluti rapporti di dominio sulla nostra classe, ereditati dal fascismo. La seconda parte di questo lavoro fu dunque incentrata sulla lotta economica in Italia nel periodo rivoluzionario (il “biennio rosso”) e poi sul secondo dopoguerra, che vide la creazione dall’alto delle tre confederazioni sindacali, figlie del Comitato di Liberazione nazionale – il periodo critico della ricostruzione nazionale. In particolare, si sono esaminati il periodo della concertazione 1945-’48 e la questione della scala mobile. Con la fine della ricostruzione nazionale, è seguita, negli anni ‘60 e ’70, la ripresa delle lotte di difesa: un periodo effervescente (in particolare il biennio 1968-’69, che culmina nella crisi economica del 1974-’75). Si sono rievocate battaglie su molti fronti: sui contratti di lavoro, sulla scala mobile, sulle pensioni, sull’orario di lavoro; e la nascita di nuove forme organizzative sindacali, i consigli di fabbrica e i comitati di base, che, chiusi in una visione categoriale, finiranno presto per essere inglobati dalle grandi corporazioni o per sopravvivere come piccole corporazioni nella galassia del pubblico impiego. Si è quindi ricordato come l’offensiva borghese non tardasse ad arrivare: per tutti gli anni ’80 e ‘90 ci fu un susseguirsi di attacchi a ogni livello, ma soprattutto si ebbe la trasformazione dei contratti nazionali in contratti aziendali. La crisi del 1990-’92 ha orientato definitivamente i contratti di lavoro. Con lo sviluppo della flessibilità delle operazioni produttive in ogni settore (concludeva la seconda parte di questo lavoro), nascono le forme di contratti ad personam che riconosciamo oggi ampiamente come fatto dominante. Passiamo ora alla terza e ultima parte.


 

Dal Patto per l’Italia, alla Legge Biagi e al Patto per il Mezzogiorno

Nel 2002, si passa dalla “concertazione” (1993, governo Ciampi) al “dialogo sociale” del governo Berlusconi, e si ha il “patto per l’Italia” firmato da CISL e UIL, ma non dalla CGIL, vista la difficoltà di farlo accettare alla base operaia dopo il grande salasso subito in seguito agli accordi del ’93. Così, con questa finta distinzione, la CGIL si metteva nella posizione di gestire e mantenere nell’alveo delle compatibilità democratiche e dell’economia nazionale le eventuali proteste della classe operaia, in modo da sterilizzarle e renderle impotenti – una divisione sindacale peraltro subito superata con gli accordi per il Mezzogiorno del 2004.

Nel 2003, si ha la “legge Biagi” (legge 30/2003). Se con il “pacchetto Treu” era iniziata la vera e propria flessibilizzazione e precarizzazione della forza lavoro, con la ”legge Biagi” essa era estesa, rafforzata e portata a compimento. Veniva introdotta tutta una serie di nuove tipologie contrattuali 1, e, da certe altre tipologie previste dal “pacchetto Treu” 2, venivano eliminate alcune limitazioni per assoggettare in maniera più generale la forza lavoro alle esigenze produttive e organizzative delle aziende. Quindi, la “legge Biagi” rese totalmente flessibili e precari l’acquisto e l’uso della forza lavoro.

Uno studio del CNEL (“Lineamenti della contrattazione aziendale nel periodo 1998-2006”) mette in rilievo sia la diminuzione dell’intensità della contrattazione (che nelle grandi imprese passa dal 51% del 2000 al 37% del 2004, mentre tra le piccole passa dal 50% al 22%) sia le “materie” della contrattazione, che si concentrano sulle diverse forme di flessibilità del lavoro (numerica, organizzativa, retributiva). Così, la flessibilità retributiva riguarda i premi: di presenza, di produttività, di qualità; la flessibilità numerica riguarda la flessibilità dell’orario di lavoro, che può essere data dal tipo di contratto (part-time, contratti temporanei ecc. ecc.) oppure ottenuta attraverso il lavoro straordinario, la variazione dei turni di lavoro; la flessibilità organizzativa riguarda l’organizzazione del lavoro. Un giuslavorista del capitale a questo proposito scrive: “E’ stato giustamente osservato […] che la disciplina dei fenomeni interpositori e delle esternalizzazioni delle relazioni di lavoro costituisce una delle novità maggiori della riforma Biagi del mercato del lavoro” 3. E così continua: “anche la dottrina più sensibile alle esigenze di una profonda revisione della disciplina in materia di esternalizzazioni non ha talora esitato a parlare […] di un modello di organizzazione del sistema produttivo di impronta inequivocabilmente neo-liberista”.

Il 2/11/2004, le organizzazioni sindacali CGIL,CISL e UIL, le organizzazioni padronali (quattordici in tutto, Confindustria in testa) e i rappresentanti dello Stato firmano il “progetto Mezzogiorno” o “patto per il Mezzogiorno”. I patti territoriali erano stati introdotti con la legge finanziaria del 1996 e avevano lo scopo di agevolare gli investimenti di capitale (rendendo alta la loro profittabilità) attraverso la firma di contratti di lavoro in deroga da quelli nazionali, pagando così dei salari più bassi. Nel penultimo paragrafo dell’accordo, troviamo scritto: “Le organizzazioni di rappresentanza [delle imprese e dei lavoratori] […] si impegnano ad affrontare, attraverso la concertazione, le scelte […] di localizzazione e di attuazione dei progetti di sviluppo e valorizzazione del lavoro”. Come risulta evidente da questo passo dell’accordo, le “organizzazione sindacali tricolore” non sono altro che delle imprese che organizzano insieme ai capitalisti lo sfruttamento del lavoro salariato. Nel loro linguaggio mistificatorio, chiamano questo sfruttamento “valorizzazione del lavoro”, “capitale umano”: in realtà, non è altro che il capitale variabile, la forza lavoro – l’unico fattore vivificante, che crea valore in più rispetto alla spesa per il suo acquisto; e solo per questo si ha l’investimento del capitale: non certo per valorizzare il lavoro, ma per estorcere il più alto tasso di pluslavoro. Al capitale, adesso, per avere mano completamente libera, per gestire la forza lavoro secondo le proprie necessità, manca soltanto la libertà di licenziare ed è questo il prossimo obiettivo da raggiungere per la classe dominante e i suoi giannizzeri.


 

Nella bufera della crisi di sovrapproduzione

Dopo il “patto per l’Italia” del 2002, non firmato dalla CGIL, e l’accordo unitario con il “patto per il Mezzogiorno”, i “sindacati tricolore”, dopo una serie di incontri e di finte polemiche, alla ricerca di una nuova concertazione il 12 maggio 2008 presentano unitariamente una proposta del nuovo modello contrattuale, che doveva integrare e superare quello del ’93 e poneva come obiettivo fondamentale “la crescita dei livelli di competitività e produttività del paese”, in quanto “si riteneva […] che il modello di contrattazione […] del 1993 fosse ormai superato e non più idoneo a rispondere alle esigenze del paese” 4. Secondo le organizzazioni sindacali, “l’accordo [del 1993] si dimostrava incapace di sostenere lo sviluppo incidendo in modo positivo sull’incentivazione della produttività del sistema” 5. Quindi, si abbandonava l’indice d’inflazione programmata, non più idonea controllare i salari, a favore di quello di “inflazione prevedibile” 6, agganciata a quella media europea che era ancora più bassa. Inoltre, si ancorava ancor di più la dinamica salariale alla contrattazione di secondo livello, quella aziendale, per estorcere una quota maggiore di pluslavoro /plusvalore/profitto. Questo nuovo modello contrattuale era in ferrea continuità con quello del ’93 7, anche se era cambiato l’obiettivo: si era passati dalla lotta all’inflazione alla lotta per aumentare la produttività del lavoro, e questo non faceva altro che aumentare la pressione del capitale sul lavoro salariato.

Nell’ottobre 2008, CISL, UIL e Confindustria si accordavano sulle linee di riforma della struttura contrattuale: anche stavolta la CGIL si defilava, dissentiva e non firmava l’intesa raggiunta. Il testo dell’accordo sottolineava che il fine della riforma della contrattazione era quello di migliorare il livello di competitività e produttività delle imprese. Come abbiamo scritto sopra, i “sindacati tricolore” si dividono non su come difendere meglio i reali interessi dei salariati, ma per controllare più efficacemente le reazioni della classe operaia davanti a un salario che diventa sempre più aleatorio, essendo sempre più legato alle dinamiche aziendali e a un lavoro che si rivela sempre più precario 8.

Il 22 gennaio 2009, governo, organizzazioni padronali (CISL, UIL e UGL) stipulavano (senza la CGIL) l’accordo per la riforma del modello contrattuale, nel quale veniva anche abolita la distinzione tra la durata della parte economica e di quella normativa e si concordava per la loro unificazione con validità triennale, si manteneva la finzione dei due livelli di contrattazione (nazionale e aziendale), ma nello stesso tempo si dava alla contrattazione aziendale la possibilità di derogare, modificando gli accordi economici e normativi previsti dal Contatto nazionale. Era lo svuotamento del contratto nazionale, destinato quindi a diventare un guscio vuoto. Nella contrattazione di secondo livello, la difesa del salario sarà vincolata al raggiungimento degli obiettivi aziendali e all’aumento della produttività.

Il 15 giugno 2010, il gruppo Fiat e le organizzazioni sindacali, che avevano raggiunto l’accordo per la riforma del modello contrattuale, firmano per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco un contratto aziendale di lavoro in deroga a quello nazionale, che liquidava di fatto il contratto nazionale di categoria. Il 23 dicembre 2010, sempre le stesse organizzazioni sindacali firmano l’accordo per lo stabilimento di Mirafiori e il 29 dicembre 2010 il contratto collettivo specifico di lavoro per la “Fabbrica Italia Pomigliano”, la new company costituita il 19 luglio 2010 dopo l’accordo del 15 giugno che la liberava dal vincolo dell’applicazione del contratto nazionale. Quindi, a seguito di questi accordi, cade la centralità del contratto nazionale, che rimane una pura finzione e diventa centrale la contrattazione aziendale, voluta dalle aziende con la complicità del sindacalismo corporativo tricolore, per assoggettare la classe operaia al destino delle aziende.

Questo accordo è destinato a diventare il prototipo di tutti i futuri contratti aziendali. Il 19 gennaio 2011, la Federmeccanica, sindacato padronale dei metalmeccanici, richiamandosi all’accordo interconfederale del 2009 e alle “deroghe” previste dal contratto nazionale, propone di definire una struttura contrattuale flessibile e adattabile alle necessità delle singole aziende.

Il 21 gennaio 2011, la presidente di Confindustria Marcegaglia, con un articolo sul Corriere della Sera, chiede il superamento del contratto nazionale a favore della contrattazione aziendale. Il 28 giugno 2011, le organizzazioni sindacali al completo (CGIL, CISL, UIL, UGL) e le organizzazioni padronali, capeggiate dalla Confindustria, firmano l’accordo sul nuovo modello di contrattazione, che integra e abolisce quello del 1993, ormai superato dai fatti, e accoglie quanto richiesto dalle organizzazioni padronali: spostare la contrattazione dal primo livello nazionale a favore di quello di secondo livello, decentrata e aziendale. Con questo accordo, la classe operaia viene rinchiusa dentro il recinto della fabbrica, divisa e separata per aziende e per area geografica; vengono inoltre ampliate le differenze salariali tra operai, e tra settori industriali; si cerca in tutti i modi di cancellare quell’istinto che porta la classe operaia alla solidarietà di classe contro il capitale, per instillare nella classe operaia il tipico egoismo borghese e legarla al carro aziendale. Contro questo accordo si è avuta la reazione dei sindacatini corporativi di base: ma la loro reazione è stata quella di gridare alla “lesa democrazia” per le regole sulla rappresentanza sindacale che li vede esclusi dalla contrattazione, dimostrando così di essere la brutta copia del sindacalismo corporativo tricolore, più ideologizzati e più affetti dal cretinismo democratico piccolo-borghese dell’aristocrazia operaia, ma in fatto di rivendicazioni nulla a che vedere con il vero contrasto presente nella società borghese – quello tra capitale e lavoro salariato.

In seguito all’accordo di giugno, il governo Berlusconi, prendendo la palla al balzo, nell’emanare il decreto legge (138/13 agosto 2011, poi trasformato in legge 148/14 settembre 2011) per “ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziarie e per lo sviluppo”, trasformava il contenuto relativo alle deroghe dal contratto nazionale nell’articolo 8 del decreto, nel quale troviamo scritto: “I contratti collettivi di lavoro, sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori […] possono realizzare specifiche intese (punto 1) […] le specifiche intese operano anche in deroga […] alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro (punto 2 bis)”. Quindi, quello che era un accordo interconfederale diventava legge dello Stato, dimostrando così che la Trimurti Stato-Padronato-Sindacato tricolore è espressione degli interessi del capitale. Con l’accordo di giugno 2011, i “sindacati tricolore”, a cui negli ultimi anni, si è aggiunta l’UGL per completare il quadro del sindacalismo cucito sul “modello Mussolini”, confermavano ancora una volta di essere dei mediatori nella vendita della forza lavoro e che la loro funzione è quella del controllo e della gestione corporativa della classe operaia, per contrattare un salario e una normativa per l’organizzazione del lavoro (una riduzione del costo del lavoro) tale da non mettere in difficoltà l’accumulazione del capitale. Nello stesso tempo, quell’accordo metteva in quarantena, prima che venisse liquidato del tutto, il famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Per paradossale che possa sembrare (ma non lo è!), l’accordo del giugno 2011 dava piena attuazione allo Statuto dei lavoratori, se è vero (come è vero) quello che scrive un difensore della società borghese e del capitale: “lo Statuto risponde […] ad una idea di democrazia industriale […] dove il sindacato […] ha un ruolo più sociale che politico, sulla base di un impianto strettamente privatistico. […] La filosofia dello Statuto […] nella sua ispirazione intellettuale originaria, poneva, come vincolo esclusivo e, per sua natura, invalicabile all’azione sindacale, il mercato inteso in senso privatistico, […] e la centralità dell’azienda” 9. Quindi, lo Statuto dei lavoratori è più una “conquista” del capitale che dei lavoratori salariati: con esso, si trasformano i proletari in cittadini, con tutte le possibili conseguenze, facendogli perdere lo “spirito di classe” contrapposto al capitale; esso serve a mantenere la disciplina sul lavoro: si frenano le risposte spontanee della classe operaia all’oppressione del capitale, si fa dello Stato della borghesia un organo al di sopra delle classi, a cui i proletari possono rivolgersi per vedersi riconosciute le proprie ragioni, conculcate dal “cattivo” padrone di turno. Si ha così la completa apologia dello Stato del capitale in versione democratica 10.


 

Il governo Monti e l’articolo 18

Nell’autunno del 2011, l’accelerazione della crisi del capitalismo costringe le forze più potenti del capitale nazionale e internazionale a mettere fine al governo Berlusconi e a insediare al suo posto il governo Monti, definito “tecnico” in quanto non è composto da figure politiche espresse nelle carnevalate elettorali – un governo, quindi, che, libero da tutti gli impacci ideologici e demagogici dell’imbroglio elettorale, poteva mostrare senza infingimenti la sua natura di classe (borghese) e portare a compimento le eliminazioni delle pensioni e lo smantellamento dell’ultimo dei lacci e laccioli che ancora impedivano la completa flessibilità della forza lavoro: l’introduzione della possibilità di licenziamento della forza lavoro per ragioni economiche e organizzative. La legge sul riassetto del mercato del lavoro, presentata dalla ministra Fornero, viene dopo quella che ha eliminato le pensioni, e si pone l’obiettivo di adeguare la compravendita della forza lavoro alle nuove necessità del capitale, attraverso il perfezionamento della flessibilità in entrata, facendo lievi modifiche ad alcune tipologie contrattuali introdotte dalla “legge Biagi”, in modo da renderle più idonee alle necessità delle imprese. Essa facilita la flessibilità in uscita, con l’introduzione della possibilità per le imprese di licenziare per motivi economici e organizzativi, modificando l’art. 18; smantella gli ammortizzatori sociali in vigore (indennità di disoccupazione, cassa integrazione in deroga, indennità di mobilità ecc.), sostituendoli con un’assicurazione (Aspi), finanziata con i contributi dei lavoratori.

La “riforma”, che più di tutti reclamavano i padroni delle imprese, dopo avere ottenuto la completa flessibilità in entrata della forza lavoro, consisteva nell’avere la completa flessibilità in uscita attraverso la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ultimo ostacolo giuridico alla libertà di licenziamento dei lavoratori dipendenti. Il governo Monti, per differenziarsi dai governi precedenti, si è presentato subito come il governo che “non concerta”, che “non dialoga”, ma che solamente “consulta” i sindacati di regime e le cosiddette parti sociali, e poi decide autonomamente. Quindi, per venire incontro alla richiesta delle imprese, smembra e riformula l’art. 18, là dove tratta dei licenziamenti, inquadrandolo in tre specie: 1) licenziamenti discriminatori (in questi casi, il lavoratore ha diritto al reintegro e al pagamento delle retribuzioni maturate e al risarcimento danni); 2) licenziamenti disciplinari (in questi casi, anche se non sussiste la giusta causa, non c’è reintegro, ma solo il pagamento di un indennizzo); 3) licenziamenti economici, ed è qui che scatta la grande mistificazione operata dai “Sindacati tricolori” e in particolare dalla CGIL, i quali dopo aver dato il loro consenso alla libertà per le imprese di licenziare per motivi economici e organizzativi, per nascondere tutto questo, hanno ipocritamente gridato che sotto questa forma potevano passare licenziamenti discriminatori e hanno chiesto che, quando ciò dovesse avvenire, il giudice del lavoro dovrebbe reintegrare il lavoratore al suo posto di lavoro, sostenendo che questa è… “norma di civiltà”: vero, ma la “civiltà” di cui si parla è quella del capitale, fondata sulla schiavitù del lavoro salariato!

Così, organizzazioni sindacali che dovrebbero organizzare i lavoratori salariati per la difesa dei propri interessi contrapposti a quelli del capitale, danno il proprio consenso al licenziamento! Non solo: quando si hanno licenziamenti discriminatori, invece di chiamare alla lotta i loro iscritti e altri lavoratori in segno di solidarietà, invitano i lavoratori licenziati a rivolgersi… a un giudice dello Stato borghese per farli reintegrare al posto di lavoro. Così facendo, rivelano non solo di essere superflue per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia, ma di essere organizzazioni in mano alla classe dominante e al suo Stato, nemiche degli interessi immediati e storici della classe operaia – e come tali vanno smascherate.

Per gli apologeti della società del capitale e della sua forma democratica, è consuetudine esaltare lo Statuto dei lavoratori come la “Costituzione del lavoro”, per il fatto che esso riconoscerebbe diritti sul luogo di lavoro ai prestatori d’opera, dimenticando che nella “società dei diritti” il primo di questi è quello di sfruttare il lavoro salariato, che è la forma moderna della schiavitù, formalizzata dal contratto di lavoro, e che, quando dal capitale viene disdetto, si attua la “messa in libertà” del lavoratore – dichiarazione questa che conferma, contro tutte le apologie della società borghese, che il proletariato, l’operaio, il lavoratore dipendente, quando lavora è schiavo e quando è libero è libero di morire di fame. Si dimentica che all’art. 18 (questo “gioiello” del diritto, della società dell’eguaglianza formale) hanno accesso soltanto i lavoratori in imprese con più di quindici dipendenti e che invece sono esclusi tutti i lavoratori, assunti con le varie tipologie introdotte dal “pacchetto Treu” e dalla “legge Biagi”. La loro apologia dello Statuto non differisce in nulla dagli apologeti della “Carta del lavoro” introdotta da fascismo, i quali, quando fu emanata, la paragonarono alla “dichiarazione dei diritti del cittadino” del XVIII secolo 11.


 

Il governo Monti e la riforma delle pensioni

E’ tesi fondamentale del nostro partito che nessuna legge (Costituzione, Statuto dei lavoratori) e nessun contratto possono difendere e proteggere pacificamente il salario, sia quello diretto che quello differito: la storia delle controriforme delle pensioni negli ultimi quarant’anni ne è un’illuminante dimostrazione.

La storia delle riforme delle pensioni ha inizio nel ‘68. Nel corso del biennio 1968-’69, furono tante le lotte aziendali che lasciarono il segno: quelle contro i ritmi di lavoro, contro i cottimi, in difesa del salario, contro i licenziamenti. Ma quella per la riforma delle pensioni durò più a lungo e fu la più aspra. Gli scioperi per la pensione furono tre, e si intrecciarono con quelli contro le “gabbie salariali”: furono indetti sotto la pressione della mobilitazione operaia e i “sindacati tricolore” fecero di tutto per rinviarli e sviarli, giungendo a sabotarli, come avvenne con quello del 4 gennaio 1968, proclamato con quindici giorni di anticipo e rinviato il giorno prima dell’inizio, senza nemmeno avvisare gli operai, perché il governo non era ancora pronto a discutere. La prima proposta del governo ammontava al 40% del già basso salario, una cifra irrisoria subito respinta, ma contribuì ad alimentare maggiormente la lotta. A febbraio, la Trimurti sindacale sottoscrive un documento su “programmazione, occupazione e riforma delle pensioni” e si arriva così allo sciopero generale. Il governo propone un accordo su 40 anni di contributi per una pensione uguale al 65% della retribuzione percepita negli ultimi tre anni, con l’impegno a portarla all’80% dopo il 1970; in cambio, pretende l’innalzamento dell’età a 60 anni per le donne e vieta il cumulo fra pensione e lavoro. Il 27 febbraio, la Trimurti sindacale accetta la proposta. Appena si diffondono i contenuti, scoppia una vera e propria rivolta della base, che arriva nelle stesse Camere del lavoro. La CGIL è costretta a ritirare il proprio assenso, mentre CISL e UIL lo confermano. Il disegno di legge viene approvato, ma il 7 marzo il nuovo sciopero della CGIL, imposto dalla base, rimette la questione al punto di partenza. Si giunge al decreto attuativo, che viene respinto da CGIL-CISL-UIL, ormai sotto il tiro degli operai.

Nel caos generale, si arriva al secondo sciopero generale del 14 novembre 1968: ma non si conclude niente, perché ci si trova di fronte un “governo balneare” di transizione e bisogna aspettare la formazione di un nuovo governo. Altre tensioni e rivolte portano al terzo sciopero generale il 5 febbraio 1969. L’accordo arriva il 15 febbraio: la percentuale pensionabile dello stipendio, dopo questa lunga lotta, sale al 74%, con l’impegno di giungere all’80% nel 1975. Dalla stessa lotta, nasce un meccanismo di “scala mobile” per far conservare alle pensioni il potere d’acquisto, l’aggancio delle pensioni ai salari, in modo da non scindere le pensioni dal salario, l’operaio “in produzione” da quello “fuori produzione”, e viene istituita la “pensione sociale”. La stessa lotta porta alla revisione del metodo di calcolo della pensione che passa dal sistema detto “a ripartizione contributiva” 12 (in quanto la pensione percepita era in rapporto diretto con il totale dei contributi versati durante l’attività lavorativa), al sistema “a ripartizione retributiva”, nel quale il metodo di calcolo viene sganciato dai contributi versati e la pensione è calcolata sulla retribuzione media di un determinato periodo lavorativo del lavoratore assicurato, tenuto conto dell’anzianità contributiva. Il periodo di riferimento per il calcolo della pensione erano gli ultimi tre anni per i dipendenti privati, l’ultimo anno per i dipendenti degli Enti locali e l’ultimo mese per i dipendenti pubblici. Infine, viene introdotta la pensione di anzianità con 35 anni di contributi.

Questa riforma delle pensioni si presentava in un certo modo come “classista” (se così si può dire!): legata com’era alla retribuzione e agganciata all’indice dei prezzi e dei salari, e quindi alla lotta che la classe intraprendeva in difesa del salario, mentre quella precedente si proponeva come più “individualista”, perché legata ai contributi versati dal singolo lavoratore. Ma la classe dominante, che aveva dovuto cedere ed accettare questo passaggio dal sistema “contributivo” a quello “retributivo”, si rifece subito, intrecciando al sistema previdenziale quello assistenziale, accollando così ai contributi pensionistici la spesa per gli oneri “assistenziali”, che doveva essere sostenuta dalla fiscalità generale, finanziando così con i contributi dei lavoratori gli alti e bassi dell’economia del capitale: cassa integrazione, prepensionamenti, ecc.

Con le prime crepe che a metà degli anni ’70 del secolo scorso si aprono nel ciclo di accumulazione del capitale, la classe dominante e i suoi manutengoli iniziano l’assedio alla classe operaia, e le pensioni sono subito messe sotto accusa. Inizia così il periodo storico delle “controriforme delle pensioni” che si snoda attraverso una serie di tappe: 1) 1992, riforma Amato; 2) 1995, riforma Dini; 3) 1997, riforma Prodi; 4) 2004, riforma Maroni; 5) 2007, seconda riforma Prodi; 6) 2010, riforma Berlusconi. Ultima in ordine di tempo, la riforma Fornero, che porta allo smantellamento delle pensioni e fa transitare il lavoratore direttamente dal posto di lavoro al… cimitero. Il primo passo di questa storia di lacrime e sangue per la classe operaia inizia nel 1992 con la “controriforma Amato”, la prima forma di “governo tecnico”, cioè di un governo che si pone apertamente come governo espressione del capitale senza doversi nascondere dietro la maschera dell’imbroglio elettorale. La “controriforma Amato” si attua con il blocco delle pensioni di anzianità, con lo sganciamento delle pensioni dalle dinamiche salariali, con l’aumento progressivo dell’età pensionabile (da 60 a 65 per gli uomini e da 55 a 60 per le donne), con l’aumento del periodo di riferimento per il calcolo della pensione, con l’aumento a 35 degli anni di contribuzione come requisito per la pensione di anzianità dei dipendenti pubblici e con l’introduzione di forme di previdenza complementare (Fondi pensione) che prefigurano il passaggio dal sistema pubblico di gestione (da parte di un Ente dello Stato) a quello privato (da parte di società finanziarie), e quindi legato alla ricerca del profitto.

Il vero salto di qualità della controriforma si ha con la “riforma Dini” del 1995, con la reintroduzione del sistema del calcolo “contributivo” (per i lavoratori con meno di 18 anni di anzianità lavorativa e contributiva), che era stato abolito con le lotte del biennio 1968-1969 13. Con questo “nuovo” sistema di calcolo, la pensione viene dimezzata: non viene più calcolata in relazione alla retribuzione percepita, ma all’ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa (montante contributivo individuale), e la somma viene rivalutata in base a un indice Istat basato sulla variazione quinquennale del PIL, moltiplicata per il coefficiente di trasformazione corrispondente all’età del lavoratore e correlato alla cosiddetta “speranza di vita”. Più alto è il coefficiente, più alta è la pensione; più alto è il coefficiente, più basso è il periodo di godimento della pensione – coefficienti, questi, oltretutto rivisti al ribasso dall’ultima “riforma Fornero”, che danno quindi una pensione inferiore a quella già bassa della “riforma Dini” 14. Inoltre, con questa “riforma” a regime, i lavoratori assunti dal 1° gennaio 1996 conseguiranno il diritto alla pensione al conseguimento del cinquantasettesimo anno di età e a quell’età avranno il coefficiente più basso possibile, quindi una pensione ai limiti della sussistenza. Con il vecchio sistema di calcolo “retributivo”, un lavoratore con 40 anni di anzianità percepiva l’80% della media retributiva del periodo di anni presi in considerazione; con il metodo introdotto della “riforma Dini” arriva al 45% dell’ultima retribuzione. Inoltre, viene dato l’avvio ai fondi pensione.

Nel 1997, il governo “di sinistra” della borghesia (il governo Prodi), per fare entrare da subito il capitalismo italiano nell’Unione Europea, non trova di meglio che attaccare le pensioni della classe operaia: quindi, modifica la “riforma Amato”, adeguandola agli accordi raggiunti con i “sindacati tricolore”. La “riforma” si caratterizzava per l’accelerazione della fase transitoria e per l’inasprimento delle condizioni di accesso alle pensioni di anzianità, tramite l’introduzione del “sistema delle quote”, calcolate sommando l’età anagrafica più gli anni di contributi.

Nel 2004-5, sarà invece la “mano destra” della borghesia (governo Berlusconi) a occuparsi ancora delle pensioni, con la “riforma Maroni” e l’innalzamento dell’età anagrafica. Per avere diritto alla pensione di anzianità, si introduce il cosiddetto “scalone” a partire dal primo gennaio 2008: l’età per accedere a questa forma di pensionamento sale a 60 anni e continua a salire negli anni successivi, fermo restando il requisito di 35 anni di contributi (requisito alternativo sono 40 anni di contributi indipendentemente dall’età anagrafica); vengono poi ridotte da quattro a due le finestre di uscita per chi matura i requisiti per la pensione di anzianità, con il risultato di un ulteriore innalzamento dell’età pensionabile; infine, con la regola del silenzio-assenso, se il lavoratore non indica la destinazione del proprio tfr, questo viene trasferito alla forma di previdenza complementare stabilita dai contratti collettivi. Nel 2007, è la volta della “mano sinistra” della borghesia, con la “riforma Prodi-Damiano”, che corregge la “riforma Maroni” destinata a entrare in vigore l’1 gennaio 2008: al posto dello “scalone”, viene introdotto un aumento più graduale dell’età pensionabile – dal 2008 si può andare in pensione a 58 anni di età e 35 anni di contributi, mentre dall’anno successivo l’età anagrafica per accedere alla pensione aumenta (2009-59, 2011-60, 2013-61).

Con la Manovra Finanziaria del 2010, il governo Berlusconi rimette di nuovo mano alle pensioni e introduce una sola “finestra d’uscita mobile”: dodici mesi dopo la maturazione dei requisiti per le pensioni per i lavoratori dipendenti, diciotto per quelli autonomi; dal primo gennaio 2015, l’aumento dell’età pensionabile sarà legata all’aspettativa di vita, con aggiornamenti triennali e non più ogni cinque anni; i coefficienti di trasformazione saranno aggiornati ogni tre anni insieme all’aggiornamento dell’età pensionabile; dall’1 gennaio viene portata a 65 anni la pensione di vecchiaia dei dipendenti pubblici. Di fatto, con questa riforma vengono abolite le pensioni di anzianità, giacché si unifica il sistema delle decorrenze con il pensionamento di vecchiaia, con il pensionamento di anzianità, con il sistema delle quote e con i 40 anni di contributi.

L’accelerazione della crisi del capitale nel 2011 impone alla classe dominante italiana di “scalzare” il governo Berlusconi e di insediare al suo posto un nuovo governo che avesse la fiducia anche dei governi dell’Unione europea e degli USA: nasce così il governo Monti, la cui prima misura è un attacco alle pensioni della classe operaia. Con il “Decreto Salva Italia” e con la “riforma Fornero” sulle pensioni viene completata nelle sue linee fondamentali la controriforma delle pensioni richiesta dal capitale e messa in atto dalla sua classe politica con la complicità dei “sindacati tricolore”, che aveva avuto inizio nel 1992 con il governo Amato: a parrire dall’1 gennaio 2012, viene abolito il sistema di calcolo “retributivo” ed è introdotto il “sistema contributivo” per tutti; sempre da quella data, vengono abolite le pensioni di anzianità, sostituite dalla pensione anticipata; per accedervi bisogna avere 42 anni e un mese di contributi se uomini e 41 anni e un mese se donne, con l’innalzamento di un mese nel 2013 e di un altro mese nel 2014; inoltre, se si vuole uscire prima dei 62 anni (età minima richiesta), si viene penalizzati dell’1% per ogni anno di anticipo e del 2% per ogni anno oltre i due anni. Con questi nuovi requisiti, sono liquidate quelle che nella precedente “riforma” erano le cosiddette “finestre mobili”. Per accedere alla pensione di vecchiaia, bisogna avere un’anzianità minima di contributi di 20 anni e 66 anni di età se si è dipendenti pubblici, 62 anni se si è dipendenti privati donne – l’età sarà innalzata fino a 66 anni nel 2018, e ancora in base all’aspettativa di vita che a partire dal 2013 verrà aggiornata fino a raggiungere almeno 67 anni nel 2021. L’età massima per la pensione di vecchiaia è posta a 70 anni. Viene poi bloccato l’adeguamento delle pensioni all’inflazione per gli anni 2012-2013, per le pensioni lorde superiori tre volte la minima (1400 euro).

Con queste misure, si ha sia una riduzione reale del potere d’acquisto sia una riduzione nominale netta delle pensioni attraverso l’aumento delle ritenute IRPEF regionali e comunali in aumento; vengono cambiati i coefficienti di trasformazioni della “riforma Dini” e rivisti al ribasso, con un’ulteriore riduzione della pensione; si sostituisce l’aliquota di rendimento del 2% per ogni anno di retribuzione (2% x 40 anni di contributi = 80% del salario) del sistema “retributivo” e viene introdotto il coefficiente di rivalutazione del sistema “contributivo” dell’1,5%, equivalente a quello che si ritiene essere l’incremento del PIL. Dunque, si hanno, contemporaneamente e immediatamente, un aumento di cinque anni di lavoro e di contributi, un aumento del consumo della forza lavoro e una diminuzione minima di cinque anni di godimento della pensione. Con il prolungamento dello sfruttamento, si ha anche una diminuzione dell’aspettativa di vita: ma l’aumento di cinque anni di versamento di contributi porterà – sembrerà un paradosso ma non lo è! – anche alla diminuzione della pensione.


 

Pensioni: vita media e speranza di vita.

La mistificazione ideologica con cui è stata motivata e difesa tutta la “riforma Fornero” ruota intorno all’aumento medio della vita (80 anni) della popolazione e dell’aspettativa di vita. Ma questa spiegazione ricorda tanto il pollo di Trilussa: io mangio un pollo e tu resti a stomaco vuoto, ma per la media statistica abbiamo mangiato mezzo pollo a testa. Si dimentica facilmente che la “media” è un concetto astratto, e che una delle poche certezze della statistica è che ciò che è “medio” non esiste, mentre ogni cosa si pone sopra o sotto il dato “medio”. Per avere una comprensione e una visione più rispondente alla dinamica della società borghese bisogna invece abbandonare la “media” statistica e volgersi a strumenti matematici che possano darci indicazioni sulla vita delle classi sociali che compongono la società del capitale.

Scrive Marx: “Quando consideriamo un dato paese dal punto di vista dell’economia politica, cominciamo con la sua popolazione, con la divisione di questa in classi, la città […]. Sembra corretto cominciare con il reale ed il concreto, con l’effettivo presupposto, quindi per esempio, nell’economia, con la popolazione, che è la base e il soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma, a un attento esame, ciò si rivela falso. La popolazione è un’astrazione, se tralascio ad esempio le classi da cui essa è composta. A loro volta, queste classi sono una parola priva di senso se non conosco gli elementi su cui essi si fondano, per esempio, lavoro salariato, capitale, ecc.” 15. Nell’analisi critica della società borghese, Marx ci consegna il metodo e gli strumenti per scandagliare a fondo e far venire fuori tutta l’infamia del capitale. Nel capitolo XXIII del Libro Primo del Capitale, nel paragrafo 4 che tratta della “legge generale dell’accumulazione capitalistica”, troviamo scritto: “Sia nelle vere e proprie fabbriche, che in tutte le grandi officine, in cui entra come fattore il macchinismo o anche soltanto si pratica la moderna divisione del lavoro, si utilizzano in massa operai maschi fino al termine dell’età giovanile. Raggiunto questo limite, non ne rimane utilizzabile negli stessi rami d’industria che un numero molto esiguo, mentre la maggioranza viene regolarmente licenziata e forma un elemento della sovrappopolazione fluttuante […]. Il capitale ha bisogno di masse più grandi di operai in età giovanile, di masse più piccole di operai in età virile. […] Il consumo della forza lavoro del capitale è così rapido, che l’operaio di mezza età, nella maggioranza dei casi, ha già chiuso il proprio ciclo di vita: precipita nelle file dei soprannumerari, o da un gradino superiore viene declassato a un gradino più basso. E’ proprio fra gli operai della grande industria che ci imbattiamo nella durata della vita più breve: ‘Il dottor Lee, funzionario dell’ufficio igiene di Manchester, ha rilevato che in quella città, la durata media di vita della classe benestante è di 38 anni, quella della classe lavoratrice solo di 17. A Liverpool, essa raggiunge i 35 anni per la prima, i 15 per la seconda. Ne consegue che la classe privilegiata gode di una probabilità di vita (have a lease of life) più che doppia, che i suoi concittadini meno favoriti’ […]. In tali circostanze, l’aumento assoluto di questa frazione del proletariato, esige una forma che ne gonfi il numero benché i suoi elementi facciano presto a logorarsi: di qui il rapido avvicendarsi delle generazioni operaie. (La stessa legge non vale per le altre classi della popolazione)” 16.

Stabilito che il concetto di “vita media” è un concetto astratto e quindi falso e che la legge della durata della vita media non è uguale per le diverse classi sociali che compongono la società borghese, vediamo che cosa scrivono alcuni studiosi della borghesia. Per esempio Alfonso Rosolia: “A quasi tutte le età, le speranze di vita, ovvero il numero di anni che mediamente ci si può attendere di vivere ancora, sono estremamente diseguali […]. Ampi divari nella speranza di vita si riscontrano anche all’interno di are geografiche omogenee […]” 17. E, ponendosi una serie di domande retoriche, così continua: “Sono divari giustificabili? Da cosa dipendono? Esistono interventi per ridurli? Le risposte a queste domande non sono tra loro indipendenti […]. Una delle conclusioni meno controverse degli studi che hanno affrontato queste domande è che il livello di istruzione e di reddito sono tra gli aspetti più fortemente correlati con la speranza di vita o altre misure di qualità della vita, sia nel confronto tra paesi o nel tempo, sia tra individui altrimenti omogenei” 18. E ancora: “le poche analisi esistenti confermano anche per l’Italia l’esistenza di ampie e diffuse disuguaglianze nella speranza di vita e nel rischio di mortalità lungo le principali dimensioni socio-demomografiche” 19. Utilizzando la categoria “Istruzione” (“Analfabeti”, “media”, “superiore”, e “laureati”), si nota tra il 1981 e il 1991 “un ampliamento dei divari di mortalità tra livelli di istruzione in tutti i gruppi con meno di 55 anni […]. Ad esempio Costa mostra come a Torino la riduzione della mortalità delle persone con età tra i 20 e i 54 anni tra i primi anni ’80 e i primi anni del decennio scorso non sia stata uniforme lungo il grado di istruzione: nel periodo 1981-84 il tasso di mortalità degli uomini con un basso livello di istruzione era pari a 1,8 volte quello degli uomini più istruiti; dopo 20 anni, nel periodo 2001-04 era pari a 2,3 volte. […]. Questi divari di mortalità si riflettono in misura significativa nella longevità attesa. Costa et al. calcolano, sulla base dei divari rilevati dall’Istat […], che nei primi anni ’90 la speranza di vita tra i 18 e i 74 di un uomo laureato fosse di circa 2 anni maggiore di quella di un uomo con al massimo la scuola dell’obbligo […]. Maccheroni […] stima che nel 2001 il divario nella speranza di vita alle età adulta tra i più (diplomati o laureati) e i meno istruiti (al massimo la scuola d’obbligo) andasse da 7-8 anni all’età di 35 anni a poco più di 5 all’età di 65 anni; inoltre, tra il 2001 e il 2006 questo divario si sarebbe ampliato di circa un anno e mezzo, in misura più accentuata per gli uomini” 20.

Un altro studioso, l’onnipresente Luciano Gallino, scrive: “Varie manipolazioni delle statistiche […] si osservano anche nel campo delle statistiche relative al lavoro, la disoccupazione, i precari” 21. E così continua: “Si dice che tra un po’ di anni le pensioni saranno insostenibili perché sono eccessive, sicché bisogna andare in direzione di un forte aumento dell’età pensionabile e, comunque, di un taglio delle pensioni”. Afferma così che “bisogna aumentare i cosiddetti coefficienti di vecchiaia, perché ogni mese che si aggiunge alla speranza di vita deve essere compensato da un allungamento dell’età pensionistica, oppure da una riduzione dell’entità della pensione. Nel mese di aprile 2011, l’‘Economist’ dedicava la copertina (col titolo 70 or bust, ossia ‘In pensione a 70 anni o salta tutto’)” 22.

E ancora: “La fatica non uccide sul colpo, ma peggiora la vita e l’accorcia. Abbiamo ormai a disposizione parecchie raccolte di storie di fatica e di malanni dei giorni nostri, spesso non dissimili da quelle che vengono restituite dai romanzi o dai taccuini degli ispettori di fabbrica inglesi del secondo Ottocento. Nell’epoca in cui l’automazione avrebbe dovuto cancellare la fatica fisica del lavoro in fabbrica, in tante fabbriche essa continua a rappresentare un tratto dominante del lavoro quotidiano. Fino a quando il fisico cede, mani, braccia, schiena si spezzano, o si ammalano. Insieme con le malattie di origine professionale, la fatica fisica è il principale fattore che spiega come mai intorno ai 50 anni, o più tardi all’età della pensione, la speranza di vita di un operaio sia mediamente inferiore di alcuni anni rispetto a quella di chi svolge un altro lavoro, ovvero non è soggetto ai ritmi, ai tempi, ai carichi di lavoro propri del lavoro operaio. L’esistenza di forti disuguaglianze nella speranza di vita a danno delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale è ampiamente documentata nella letteratura internazionale. Per quanto riguarda la relazione che esiste tra status socio-economico e differenziali di longevità, in Germania la speranza di vita stimata a 65 anni presenta una differenza di circa 6 anni tra i lavoratori manuali (maschi) e il gruppo socio-economico più benestante; ovviamente a favore dei primi […]. Per quanto concerne il nostro paese, disponiamo di studi sulla mortalità e la morbosità dovute a differenze di reddito o classe sociale […]. Stando a uno studio del Laboratorio Riccardo Ravelli del 2008 (redatto da Roberto Leombruni, Matteo Richiardi e Giuseppe Costa), se si classifica la popolazione secondo la ricchezza […] a Torino si osserva una perdita costante di speranza di vita. Quest’ultima scende per gli uomini dagli 80,6 della popolazione a maggior reddito a 75 di quella più povera (tassi riferiti al periodo 2000-2005). Se si passa alla classificazione basata sulla classe sociale, occorre tenere presente il fatto che, essendo la speranza di vita stimata a 35 anni, nello studio cui mi riferisco, le differenze tra le speranze di vita risultano meno marcate, perché non tengono conto dell’effetto della mortalità prematura successiva a questa età. Restano non di meno rilevanti. Rispetto al valore medio di 44 anni di speranza di vita per i maschi a trentacinque anni, la classe più avvantaggiata è quella dei dirigenti, per i quali sale a 46,5 anni, seguita dagli imprenditori con 46,2 anni e dai liberi professionisti con 46,1. La classe più svantaggiata è invece quella degli operai non specializzati, con 2,9 anni di speranza di vita in meno rispetto ai dirigenti. Per quanto riguarda le donne, quelle che si classificano libere professioniste godono a 35 anni della speranza di vita più alta (50,8), mentre la categoria più svantaggiata è quella delle operaie non specializzate, con una perdita di 1,6 anni” 23.

Se è vero come è vero quello che scrive Marx (che la legge che vale per la classe operaia non vale per le altre classi sociali e che, come confermano gli stessi studiosi della borghesia, le “aspettative di vita e la durata della vita stessa dipendono dalla cultura e dal reddito”), allora se è noto a tutti che la classe operaia è la classe “ignorante” priva di cultura (ma, anche quando la cultura dovesse averla, sarà sempre quella della classe dominante), è altrettanto noto che il reddito/salario della classe operaia basta soltanto a poter comprare i mezzi di sussistenza necessari a riprodurla come classe sociale destinata a produrre plusvalore per il capitale ed il suo reddito/salario è variabile dipendente dell’accumulazione del capitale.

Da tutto questo, si trae la conseguenza che, per avere una comprensione scientifica dell’“aspettativa di vita” della classe operaia, la “media” statistica è una “media” dell’inganno e della manipolazione e al suo posto si dovrebbe utilizzare uno strumento matematico che fosse indicatore di eterogeneità, di variabilità, come sono le classi sociali nella società borghese. Una tesi fondamentale del comunismo scientifico dice che, nella dinamica della società del capitale, a un polo si accumula la ricchezza e all’altro polo si accumula la miseria, e, come conseguenza di questo processo, a un polo si accumula la vita e all’altro si accumula la morte.

Un indicatore usato dalla borghesia per misurare le disuguaglianze nella distribuzione del reddito è il “coefficiente Gini”, un numero compreso tra 0 e 1. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, valori alti indicano una distribuzione diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione (una sola persona percepisce tutto il reddito del paese), mentre con valore 0 ci si trova nella situazione in cui tutti percepiscono lo stesso reddito. Negli ultimi trent’anni, nei paesi del capitalismo più sviluppato (quello occidentale), è aumentata enormemente la disuguaglianza sociale: la causa principale è stata lo spostamento della ricchezza prodotta a favore del capitale, a scapito dei salari. In Italia, dal 1977, anno in cui la quota salari in rapporto al Pil (prodotto interno lordo) è stata la più alta, fino ad oggi si sono persi circa 15 punti a favore del capitale; inoltre, è aumentato grandemente il tasso di disoccupazione. In Italia, il 45% della ricchezza complessiva delle famiglie italiane alla fine del 2008 era in mano al 10% delle famiglie, secondo il Rapporto della Banca d’Italia: il coefficiente Gini è oggi intorno allo 0,36 in crescita, rispetto al dato ultimo CIA Factbook di 0,33 e allo 0,29 dei primi decenni del ‘900.

Da questi pochissimi dati, risulta che il “reddito” e quindi l’aspettativa di vita si accumula nella classe borghese, che come un vampiro succhia la linfa vitale della classe operaia e poi dopo averla usata la getta via, mentre nella classe operaia si accumula miseria e morte. Dunque, dopo questa ultima “riforma delle pensioni”, i proletari che riusciranno a sopravvivere allo sfruttamento nelle galere del capitale, che avranno la fortuna (o sfortuna!) di svolgere con continuità tutta la vita lavorativa, che non saranno soggetti a passare lunghi periodi di disoccupazione, se riusciranno a sopravvivere alle forche caudine del capitale, dopo una lunga e distruttiva vita di lavoro si ritroveranno con un pugno di mosche in mano: cioè, con una pensione pressappoco uguale a quelle che oggi sono le “pensioni sociali”.

 

Conclusione

Con questa attenta ricostruzione e disamina degli accordi (contratti-contrattazione) raggiunti dai “sindacati tricolore” negli ultimi quarant’anni con il padronato e i governi della borghesia e del capitale nella compravendita della forza lavoro, abbiamo mostrato che questi accordi non hanno fatto che peggiorare di continuo le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia nei confronti del capitale. La politica dei sindacati di regime per piegare la classe operaia agli interessi del capitale e dell’economia nazionale e aziendale è stata quella dello “scambio”: “tregua salariale in cambio del blocco dei licenziamenti”, “politica dei redditi in cambio della partecipazione dei sindacati alle riforme”, “lotta all’inflazione in cambio dell’abolizione della scala mobile”, “contratti di solidarietà per salvare l’occupazione”, “flessibilità nelle assunzioni in cambio di più occupazione”, “moderazione salariale in cambio di più occupazione”, “flessibilità nell’orario di lavoro in cambio di più salario”, “patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione”.

Dopo più di quarant’anni di questa politica, abbiamo disoccupazione galoppante, precarietà diffusa, costo della vita in crescita, crollo dei salari, orari di lavoro sempre più lunghi, lavoro straordinario in aumento, incidenti (=omicidi) sul lavoro in crescita. Nel corso degli anni, i “sindacati tricolore” cui si è aggiunta l’UGL, hanno dimostrato che l’unica funzione che svolgono e possono svolgere è quella di controllo e gestione corporativa delle lotte economiche, di isolamento degli episodi di lotta, di disarmo dei proletari, di boicottaggio delle loro esplosioni di collera. Essi sono la cinghia di trasmissione degli interessi del capitale e dello Stato borghese nella classe operaia.

In sintesi, ecco che cos’è successo: dal contratto nazionale di categoria si è passati ai contratti territoriali a quelli aziendali; infine, con la “legge Biagi” si è arrivati a quelli “ad personam”, reintroducendo di fatto quelle “gabbie salariali” che la lotta operaia aveva abolito e così assoggettando completamente i proletari al dominio del capitale. Il salario è stato amputato dalla “scala mobile”, che era uno strumento di difesa contro l’aumento dei prezzi. Inoltre, la parte variabile del salario, che dopo le lotte del biennio 1968-1969 era una parte marginale, con la riforma della struttura del salario è diventata la componente più importante, essendo legata all’aumento della produttività del lavoro, agli obiettivi aziendali: il salario è stato assoggettato totalmente alla profittabilità del capitale.

L’orario di lavoro diventa sempre più flessibile, lungo e intenso, e aumentano le ore di straordinario. La nuova legislazione sull’orario di lavoro, che ha recepito la direttiva europea (Direttiva 93/104/CE) ha abolito la limitazione della durata massima sia dell’orario giornaliero che di quello settimanale, introducendo il concetto di durata media calcolata su un determinato periodo di riferimento, segnando così un arretramento sia rispetto alla legislazione fascista del 1923 (R.D.L., n.692) che aveva stabilito il limite massimo normale dell’orario di lavoro in 8 ore giornaliere e 48 ore settimanali sia rispetto alla conquista dell’organizzazione internazionale dei lavoratori che aveva ottenuto nel 1917 la giornata lavorativa delle 8 ore con la parola d’ordine di lotta: “otto ore di lavoro, otto ore di vita sociale e otto ore di adeguato riposo”. Stabilito in 48 ore il limite massimo settimanale, questo può essere calcolato come media con riferimento a un periodo di quattro mesi, che la contrattazione collettiva può estendere fino a sei-dodici mesi. Per il riposo settimanale, 24 ore, la media può essere calcolata per un periodo non superiore a 14 giorni; per l’orario giornaliero, il limite è dato dall’avere 11 ore consecutive di riposo: quindi, la giornata lavorativa può durare 13 ore.

Le pensioni, attraverso tutta una serie di controriforme sono state ridotte ai minimi termini, la possibilità di accedervi è stata spostata sempre più avanti negli anni, fin quasi a coincidere con la stessa durata della vita. Il TFR (la liquidazione) è stato abolito, ed è stato trasferito ai “fondi pensione-fondi d’investimento”, destinati a essere investiti in Borsa, quindi soggetti a tutte le convulsioni borsistiche, con molte probabilità di essere espropriato dal grande capitale. Se ritorniamo per un momento agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, vediamo che il grido di lotta di allora era “lavorare meno – lavorare tutti”, dopo tanti anni di sindacalismo “democratico”, “progressivo”, incardinato nella Costituzione fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato, la classe operaia si trova a “lavorare in meno – lavorare di più”: nuda e spoglia davanti al Capitale, senza organismi classisti di difesa economica, con la principale arma di cui dispone per difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro (lo sciopero) trasformata in un simulacro che non incide più nei rapporti sociali tra borghesi e proletari, a tutto favore del Capitale.

Per difendersi dalla pressione sempre più asfissiante del capitale e del suo Stato (con l’azione convergente di governo, organizzazioni padronali e sindacati di regime), la classe operaia dovrà fare “un passo indietro e due avanti”: dovrà abbandonare i metodi della conflittualità sociale delimitata dal diritto borghese, le compatibilità economiche nazionali e aziendali, e invece dotarsi di organismi territoriali di difesa economica e sociale che si facciano carico di tutte le necessità della lotta –picchetti, casse di sciopero, ecc. Dovrà insomma riprendere la via della lotta di classe, dell’azione diretta, con rivendicazioni proprie: forti aumenti salariali per tutti, maggiori per le categorie peggio pagate; drastiche riduzioni dell’orario di lavoro a parità di salario; salario pieno ai licenziati, disoccupati, immigrati, precari; aumento generalizzato delle pensioni. In queste lotte, l’intervento del nostro partito, sia in fase organizzativa che di indirizzo, dovrà tornare a essere il lievito che le fa trascrescere, quando matureranno le condizioni oggettive, dall’ambito puro e semplice delle lotte di difesa economica in lotta per l’“assalto al cielo”: per la distruzione rivoluzionaria della società borghese, l’abolizione della schiavitù del lavoro salariato e dell’economia di mercato (in tutte le sue forme: protetto, regolato, pianificato o controllato) e della proprietà sui prodotti del lavoro e sui mezzi di produzione.

1 Quarantasette: tra cui “lavoro a chiamata”, “lavoro ripartito”, “lavoro a progetto”, “lavoro intermittente”, “somministrazione di lavoro a tempo indeterminato”.

2 “Lavoro a tempo determinato”, “lavoro a tempo parziale”, “contratto di inserimento”, “contratto di apprendistato”, “somministrazione di lavoro a tempo determinato”.

3 Michele Tiraboschi, “Esternalizzazione del lavoro e valorizzazione del capitale umano: due modelli inconciliabili?”, Working Papers n. 54/2005, C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” Università degli Studi di Catania, Facoltà di Giurisprudenza, pag. 2.

4www.uil.it/contrattazione/nuovo-modello-contrattuale-pdf, p. 5.

5Ibidem, p. 5.

6Ibidem, p. 6.

7Sempre in merito all’accordo del ’93 e alla contrattazione integrativa, in uno studio di Piero Casadio della Banca d’Italia troviamo scritto: “Gli accordi di politica dei redditi del 1993 hanno eliminato gli automatismi retributivi e ancorato le aspettative di inflazione, mediante il ricorso al ‘tasso di inflazione programmata’. […] il metodo della ‘concertazione’ ha fortemente ridotto la conflittualità delle relazioni industriali. Tutto questo ha favorito la progressiva diffusione della flessibilità nel mercato del lavoro. Gli accordi del 1993 hanno attribuito al livello di contrattazione nazionale il compito di tutelare il potere d’acquisto delle retribuzioni; al livello aziendale è stata assegnata la funzione di stimolare e ridistribuire i guadagni di produttività” (pag. 241). E così si continua: “In base all’indagine della Banca d’Italia sulle imprese, si fornisce nuova evidenza al riguardo, mostrando che un’ampia quota di lavoratori riceve soltanto i salari minimi nazionali, senza alcuna voce aggiuntiva pagata in azienda. Questi lavoratori, molto più frequenti tra le piccole imprese e nel Mezzogiorno, hanno verosimilmente sperimentato negli ultimi anni una riduzione delle retribuzioni reali. Si mostra inoltre che i pur limitati premi aziendali hanno favorito un graduale accrescimento dei differenziali salariali territoriali e tra qualifiche” (pag. 241-242). E ancora: “I risultati mostrano che nell’ industria i differenziali retributivi totali tra il Nord il Mezzogiorno sono di circa 15 punti percentuali tra gli operai e circa 22 tra gli impiegati” (pag. 266). Infine: gli “accordi del 1993 [..] hanno contribuito ad ampliare i differenziali territoriali […]. Tali dinamiche hanno svantaggiato le imprese localizzate nel Mezzogiorno […]. Si può concludere che la contrattazione aziendale, favorendo […] un certo allargamento dei differenziali salariali territoriali, stia svolgendo una funzione virtuosa [certamente virtuosa per il capitale! NdR] […]. Inoltre, l’attuale articolazione tra livello nazionale e aziendale produce l’effetto, […] anch’esso virtuoso [sempre per il capitale! NdR], di frenare le dinamiche retributive nel Centro-Nord” (pag 284). Cfr. Piero Casadio, Banca d’Italia, “Contrattazione aziendale integrativa e differenziali salariali territoriali: informazione dall’indagine sulle imprese della Banca d’Italia”, 2010, http://mpra.ub.uni-muenchen.de/29384/MPRA Paper No. 29381, posted 07. March 2011.

8 Nonostante la divisione, CGIL-CISL-UIL hanno stipulato unitariamente i contratti dei settori chimici, telecomunicazioni, alimentari, e quello riguardante il settore del pubblico impiego.

9 P. Craveri, “A quarant’anni dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori”, L’Acropoli, anno XI, n. 5, p. 484. www.lacropoli.it.

10 “Ho pianto, esiste ancora la democrazia”. Con questa esclamazione di gioia si è espresso il delegato Fiom alla sentenza del giudice del lavoro che aveva ripristinato l’agibilità sindacale all’interno della Magneti Marelli. E in un tripudio orgasmico continuava così: “Quando ho saputo della sentenza, mi sono commosso e mi sono detto che allora ci possiamo credere che viviamo in un paese democratico”. www.repubblica.it, edizione di Bologna, 29 marzo 2012.

11 Manlio Sergenti, “I 70 anni della Carta del lavoro”, Linea, n. 6/7/8, giugno-luglio-agosto 1977.

12 Il sistema “a ripartizione” era stato introdotto nel 1952 ed era così detto perché con i contributi dei lavoratori in attività si pagavano le prestazioni dei lavoratori che andavano in pensione.

13 Per i lavoratori con più di 18 anni contributi lavorativi rimane in vigore il sistema di calcolo “retributivo”.

14 Coefficienti di trasformazione: età/coefficiente di trasformazione.

Dini: 57-4,720%, 58-4,860%, 59-5,006%, 60-5,163%, 61-5,334%, 62-5,514%, 63-5,706%, 64-5,911%, 65-6,136%;

Fornero: 57-4,419%, 58-4,538%, 59-4,664%, 60-4,798%, 61-4,940%, 62-5,093%, 63-5,257%, 64-5,432%, 65-5,620%.

15 K. Marx, “Introduzione del 1857” a Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, 1974, p.188.

16 K. Marx, Il Capitale, Libro Primo, UTET, 1975, p. 816-817.

17 A. Rosolia “Le disuguaglianze nella speranza di vita”, Occasional Papers, n. 118, Banca d’Italia, febbraio 2012, p. 5.

18 Ibidem

19 Ibidem p. 7

20 Ibidem pp. 7-8

21 L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Editore Laterza, 2012, p. 143

22 Ibidem p. 144

23 Ibidem pp. 181-184 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2013)

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