Ci sono due modi di porsi di fronte alla crisi devastante del modo di produzione capitalistico. Uno consiste nel guardare indietro, nell’avere – come scrisse qualcuno – “gli occhi infissi nella nuca”. Ciò vuol dire considerare lo stato attuale delle cose come eterno e intoccabile, le istituzioni che lo caratterizzano e che lo reggono come gli unici referenti, la prassi che da decenni domina (e castra) il movimento operaio come l’unica possibile.

 Così, è al sindacato ufficiale (attivo protagonista per tutto il secondo dopoguerra dei più schifosi tradimenti ai danni della classe proletaria) che ci si affida, delegando a esso ogni strategia, ogni azione che ci riguarda; si demanda ai “tavoli di trattativa” qualunque decisione relativa alle nostre condizioni di vita e di lavoro; ci si appoggia di volta in volta a questo o quel partito o raggruppamento parlamentare nella speranza che (interrompendo per qualche secondo la propria unica attività: la decennale spartizione della torta) “si faccia carico” delle nostre necessità; si guarda al governo e allo Stato (espressioni dirette della classe dominante, suoi strumenti politici, militari, ideologici) come ad altrettanti enti al di sopra delle parti, cui rivolgersi perché ci facciano il favore di intervenire a moderare la spietatezza di questo o quel padrone insensibile (o magari “straniero”); e il più delle volte si finisce per funzionare come pedine inconsapevoli di strategie ben più ampie, giocate sulla pelle altrui (guerre commerciali, competizioni di settore, compravendita di aziende più o meno decotte, richieste di fondi europei, ecc. ecc.). Gli “occhi infissi nella nuca” sono peggio di una totale cecità. Quel “guardare indietro” consegna i proletari, legati mani e piedi, alle esigenze superiori del capitale nazionale e internazionale: li rinchiude dentro il recinto destinato agli animali da macello.

L’altro modo consiste nel guardare in avanti, ben oltre il miserabile orizzonte della condizione attuale. Ciò vuol dire comprendere, anche solo a livello elementare e istintivo, la necessità di uscire da un vicolo cieco, di far sentire di nuovo la propria presenza rifiutando di delegare ad altri prassi e decisioni, ma imponendole, con un processo di organizzazione, estensione, centralizzazione delle lotte: mettendo cioè in campo una forza che deriva dai numeri e dalla nostra centralità, in quanto proletari, nei processi lavorativi. Ciò vuol dire, soprattutto, rifiutare la disperazione autolesionista che, con i buoni uffici sindacali, induce a tagliarsi i polsi, ad arrampicarsi sulle torri, a immergersi nelle viscere della terra, nell’illusione che l’impatto mediatico (quest’ulteriore strumento di rimbecillimento collettivo) sia sufficiente a risolvere una drammatica situazione: nella realtà, consegnando chi cade nel tranello alla solitudine, all’isolamento, all’impotenza e alla frustrazione.

Di ben altro ha bisogno la classe proletaria aggredita dalla crisi del modo di produzione capitalistico: ha bisogno di mettere in campo la propria forza collettiva. E’ una questione di potere: ma non solo nel senso, evidente a i noi comunisti, che il potere va conquistato con la forza e, una volta conquistato, con la forza va imposto contro tutti i tentativi di rivalsa della vecchia classe dominante, per riorganizzare l’economia abbattendo i vincoli e le barriere proprie del modo di produzione capitalista e per far piazza pulita (in un tempo che non sarà certo breve) di abitudini e inerzie acquisite in secoli di dittatura capitalista. Noi sappiamo che questa scienza della rivoluzione, questa scienza del comunismo, non stanno “geneticamente” nella classe proletaria, come vorrebbero tanti immediatisti e operaisti: stanno nel partito rivoluzionario, che si fonda su una teoria verificata sull’arco di due secoli, su una tradizione e continuità di lotta politica, su un’organizzazione salda e internazionale, ed è solo dall’intervento di questo partito, a contatto con la classe, attraverso le sue battaglie e le sue sconfitte, che, dall’esterno, questa scienza della rivoluzione, questa coscienza di classe, possono essere introdotte nel proletariato.

Ma è una questione di potere anche sul piano della lotta quotidiana di resistenza al capitale: nel senso che o la nostra classe torna a lottare nella sia pur vaga consapevolezza di poter contare sulle sole proprie forze, sulla sola propria organizzazione, e a vedere le istituzioni, i partiti che le sostengono, i sindacati ufficiali, come altrettanti nemici di classe, e dunque si dà obiettivi e metodi di lotta che escano dal regime delle compatibilità, della concertazione, della delega e della prassi democratica, oppure rimarrà dentro a quel recinto per animali da macello, avviandosi in fila indiana, a capo chino (o con l’unica libertà di… strillare), rassegnata e disperata, al massacro – sul posto di lavoro o nel ghetto del non lavoro, e infine nel bagno di sangue collettivo del prossimo conflitto mondiale verso cui si dirige il corso dell’economia capitalistica.

Non è rinchiudendoci dentro la fabbrica o dentro la miniera o sui campi di raccolta che va riscoperta la nostra forza: è nel legame stretto e reale, non formale e retorico, con i proletari di altre fabbriche, miniere, campi, di altre località e nazioni; è nella rinascita di organismi di lotta territoriali, aperti a tutti, occupati e non occupati, uomini e donne, pensionati e precari, “indigeni” e “stranieri”, indifferenti tanto al “galateo sindacale” quanto alle “necessità superiori dell’economia nazionale”; è nella discesa in campo nelle strade e nelle piazze, organizzata e decisa, e non goliardica o ritualistica come invece ci hanno abituato decenni di prassi opportunista e piccolo-borghese; è nella decisa paralisi dei gangli vitali economici e politici ogni qual volta un settore sia minacciato, ogni qual volta un contingente del nostro esercito sia sotto attacco; è nella difesa a muso duro delle nostre condizioni di vita e di lavoro.

“Un attacco a uno è un attacco a tutti!”: questo slogan deve tornare a farsi carne e sangue della lotta proletaria su tutti i fronti. In quest’estate che finisce, i minatori spagnoli in marcia sulla capitale Madrid sono stati accolti dalle manganellate e dai proiettili di gomma della sbirraglia del capitale; in Sud Africa, altri minatori in lotta con le classiche rivendicazioni proletarie sono stati falciati e massacrati dalla medesima sbirraglia del capitale: non c’è stata una sola iniziativa a favore di questi nostri fratelli di classe da parte, non diciamo di sindacati da decenni venduti a Stato e padronato, ma nemmeno di organismi di base sempre pronti a dichiarare improbabili “scioperi generali”, a sventolar bandiere e a suonare musica a tutto volume. Deve tornare invece a farsi strada in una classe proletaria disorientata il senso della necessità della lotta a tutti i livelli, dell’estensione del conflitto sociale, della sua organizzazione e direzione, della sua dimensione internazionale: solo così la classe tornerà a far sentire la propria forza e sarà capace di rispondere colpo su colpo a ogni attacco. Solo così potrà farsi strada, in settori d’avanguardia e grazie all’intervento costante del partito rivoluzionario, la percezione (frutto dell’esperienza diretta) che questa forza espressa nelle strade, nelle piazze, nelle battaglie quotidiane, non basta: che la questione del potere si pone su un piano ben più alto, politico e rivoluzionario – la sua conquista e il suo esercizio dittatoriale. 

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°05 - 2012) 

 

 

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