Per noi comunisti, alla luce dell’esame storico e materialista della società in cui abbiamo la ventura di vivere, le lotte di classe che scaturiscono dalle contraddizioni del modo di produzione capitalistico – in prima istanza, economiche, strutturali; e poi sociali e politiche, sovrastrutturali – hanno sempre bisogno di essere sostenute ed organizzate: e ciò sia quando hanno un contenuto prevalentemente economico e sociale transitorio, di difesa, sia e soprattutto quando maturano  verso l’obbiettivo politico del superamento della società borghese. In quest’ultimo caso, sostegno e organizzazione non bastano: è necessario il lavoro di direzione e indirizzo che solo i comunisti, in quanto Partito (“organo” e non semplice “parte”), possono e devono dare alla classe nel suo insieme.

Il modo di produzione capitalistico, la società borghese, genera dunque la moderna lotta di classe: un conflitto permanente, che alterna fasi e momenti in cui lo scontro si manifesta più o meno aspro e duro, ma che è sempre accompagnato dall’uso della forza, e quindi della violenza.

Le lotte che la nostra classe deve necessariamente condurre, anche solo per “strappare” un contratto, si accompagnano dunque sempre a un esercizio della forza, che si scontra con la violenza concentrata e monopolizzata dal principale strumento di dominio della classe nostra nemica, lo Stato borghese.

Il monopolio e la concentrazione della violenza sono sempre stati essenziali per lo Stato borghese, e lo sono ancor più oggi, nella sua fase imperialista: la violenza potenziale e virtuale diventa reale e si manifesta cineticamente sulle nostre teste non appena osiamo superare il limite che di volta in volta ci viene concesso nell’esercizio  democratico del conflitto sociale.

Ogni conflitto che riguarda la nostra classe, dalle scaramucce sindacali (allenamento e preparazione alla lotta politica vera e propria) alle prove di forza sociali (a partire dalle fiammate di rivolta), per arrivare poi, quando le condizioni storiche maturano verso il conflitto, alla vera e propria rivoluzione, genera violenza e ne necessita l’uso.

Il ricorso alla violenza non è dunque sempre uguale a se stesso: si gradua, corrisponde a situazioni e conflitti differenti, e non è mai disperatamente fine a se stesso. E’ uno strumento, un mezzo che bisogna conoscere e usare appropriatamente.

Il Partito comunista non esalta la violenza con cui si manifestano alcuni episodi della lotta della nostra classe (mentre denuncia e condanna l’inutilità di ogni forma di autolesionismo, dal suicidio al digiuno, all’esposizione mediatica), ma ne riconosce la necessità e, nella sua azione generale di organizzazione della classe, lavora affinché risulti non più e non solo come rabbia, difesa, esasperazione, ma, per l’appunto, come espressione organizzata, strumento della forza della classe.

Sintetizzando, e stando bene attenti a non dimenticare che l’andamento della lotta di classe non segue un andamento continuo ma procede a sbalzi, noi comunisti sappiamo che le forze della classe, mentre si sviluppano in senso anticapitalistico partendo dalle lotte di difesa, vanno raccolte dalla loro dispersione e indirizzate allo scopo di prendere il potere e mantenerlo fino a quando l’ultima resistenza della classe nemica non sia stata vinta. Anarchici e operaisti di varia estrazione e tradizione, raggruppamenti che ciclicamente si propongono come forze rivoluzionarie “proletarie”, non hanno mai potuto condividere questa prospettiva e questa strategia. Generalizzando un po’, anche quelli che non hanno abbandonato la speranza della violenza insurrezionalista ritengono che, oggi, la violenza dei cosiddetti “ceti oppressi, subalterni o marginali”, possa avere effetti efficaci in campo sociale per ottenere obbiettivi concreti e a portata di mano, perché usata come azione al tempo stesso dimostrativa e rafforzativa (o anche e perfino vendicativa), dedicandosi a una vera e propria “estetica” dell’esercizio di una violenza individuale o di squadra, che comunque “disturbi” la pace sociale.

Molto spesso, questa “estetica della rivolta” si accompagna alla mitizzazione dei cosiddetti “spazi sociali autogestiti”, caricature urbane degli “espropri dei latifondi” da cui nacquero le “comuni autogestite” e gli esperimenti utopici degli anarchici rurali dei tempi andati, oltre che la nostalgia gramsciana dei Consigli di Fabbrica a base dell’Ordine Nuovo. Per tacere poi dell’esaltazione dell’azione armata del cosiddetto “terrorismo rosso”, nient’altro che un riformismo armato, ennesimo figlio della controrivoluzione staliniana, imbastarditosi ancor di più attraverso la voluta incomprensione dei movimenti di liberazione nazionale seguiti al secondo macello interimperialista e l’esaltazione della guerriglia partigiana antifascista e antitedesca.

Noi comunisti risolviamo il problema dell’uso della violenza della nostra classe nell’unico modo possibile, per quanto certamente difficile, per il proletariato: quello della sua organizzazione per l’abbattimento dello Stato borghese (di ogni Stato borghese, di tutti gli Stati borghesi) e per l’instaurazione del nostro Stato centralizzato e transitorio.

E’ dunque una prospettiva radicalmente diversa rispetto all’illusione di liberare dal potere borghese, volta per volta, “pezzi di società”.

Il rifiuto di questa prospettiva, il non volerla e poterla comprendere, è tipico di ogni frazione della piccola borghesia, di qualunque matrice ideologica si ammanti: anche quando, suo malgrado, lotta contro laborghesia, essa non può mai andare fino in fondo, rimane a rimorchio del movimento sociale, accontentandosi delle concessioni che la borghesia finge di lasciarsi strappare pur di far sopravvivere (cioè rafforzandosi, dopo aver vacillato per gli sberloni proletari!) il modo di produzione capitalistico e spacciandole per conquiste.

A questo punto, la piccola borghesia, magari anche incazzata, risulta essa stessa una colonna della difesa della società borghese, ne diviene la massa di manovra spicciola – il nazi-fascismo degli anni ’20 e ’30 insegna a sufficienza!

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2011)

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