Nella prima parte dell'articolo, uscita sul numero scorso di questo giornale, avevamo descritto il manifestarsi della crisi valutaria come espressione immediata di politiche monetarie nazionali che, entro una crisi sistemica dei rapporti centrati sul dollaro, tentano, ciascuno per proprio conto e nei limiti del proprio peso internazionale, di orientare il corso delle rispettive monete nella direzione più consona agli interessi della propria struttura produttiva – quindi, in genere, con un deprezzamento della divisa o almeno una stabilità dei rapporti di cambio. Abbiamo quindi descritto l'attuale crisi valutaria come conflitto tra politiche statali, perché questa è la forma che necessariamente assumono tali conflitti in un sistema basato sul credito, entro il quale i Paesi emittenti moneta in linea teorica non sono tenuti al rispetto di alcun vincolo di emissione.

Questa libertà dei governi è però solo apparente. Lo Stato, assumendosi il peso finanziario della crisi economica che grava sul debito pubblico e sui bilanci pubblici, per sostenerlo può stampare moneta: ma questo banale espediente non può risolvere la crisi, perché la creazione di moneta non è creazione di ricchezza, bensì di segni di valore cui deve poi corrispondere un valore effettivo nella produzione di merci e nella loro circolazione. Finché queste ultime ristagnano, si produce un eccesso di segni di valore nella circolazione interna che genera inflazione o, nel caso del dollaro che è moneta mondiale, un eccesso di liquidità internazionale – che a sua volta dà origine a nuovi squilibri e innesca contrasti interstatali.

In questa seconda parte, consideriamo come si determina il rapporto tra le valute nel confronto tra due sistemi produttivi, perché qui, cioè dove si estrae plusvalore, è l’origine della formazione del valore e di conseguenza dei prezzi. Gli effetti delle politiche statali, siano esse monetarie o protezionistiche, comunque tendenti a sostenere la produzione nazionale nel mercato interno ed estero, intervengono sui prezzi, più o meno efficacemente, in misura del peso politico ed economico dei Paesi.

In questa fase la questione si complica ulteriormente per il carattere sempre più interconnesso delle economie, sia quanto a flussi di merci, servizi e capitali, sia nella stessa dislocazione delle produzioni in forma di delocalizzazione o di segmentazione delle fasi produttive in più Stati. Ciò rende assai complesse e di controversa efficacia le iniziative di politica monetaria degli Stati; questa integrazione si è spinta a un punto talmente avanzato (e irreversibile) da richiedere un’unica moneta mondiale – fatto, questo, impossibile, poiché il Capitale non può rinunciare alla propria “casa-nazione”, senza la quale il suo dominio apparirebbe alla specie umana in tutta la sua devastante irrazionalità. Il suo evolvere l’ha spinto a fagocitare le nazioni imponendovi la propria legge, ma il mondo si rivela da un lato troppo piccolo per la sua voracità dissipatoria, dall’altro troppo grande per la meschinità storica dei suoi obiettivi.

All'origine del terremoto monetario

Se si considera la questione dei rapporti monetari astraendo da altri fattori contingenti, la variazione del rapporto tra due valute va riferito al diverso livello di produttività che corrisponde al diverso tempo di lavoro contenuto nelle merci (1). Va rimarcato che questa è essenzialmente una questione che attiene al valore contenuto in una merce, mentre il prezzo di mercato si presenta in genere come prezzo medio che può oscillare al di sopra o al di sotto del valore stesso. Partiamo da quest’assunto per considerare l’origine delle fortissime tensioni valutarie che si sono create recentemente, specie in seguito alle iniziative della Fed denominate Quantitative Easing2.

Per dirimere la questione, bisogna risalire all’origine del grande deficit commerciale Usa, al quale è corrisposta finora una grande capacità di attrarre capitali esteri che lo finanziano. Succede così, ad esempio, che la Cina da un lato piazzi le proprie merci sul mercato americano, dall’altro ne finanzi l’acquisto con i propri prestiti in T-bonds (e con investimenti in obbligazioni societarie, azioni, ecc.). Il sistema si basa sull’assunto che il dollaro rappresenti valore, mentre ciò che, in effetti, rappresenta è la potenza politico-militare e la centralità degli Stati Uniti nell’economia mondiale. Il mantenimento di tale potenza ha un costo enorme – e crescente – in termini di spesa pubblica, e le possibilità di spesa sono legate alla politica fiscale e al debito pubblico. La prima si lega direttamente all’espansione economica, alla crescita dei profitti, ma nelle fasi di contrazione e crisi il gettito fiscale diminuisce e come unica risorsa rimane il debito pubblico, accanto alle manovre sui tassi e sulla moneta. In una certa misura, dunque, il mantenimento della potenza americana è affidato al finanziamento del debito, che oggi è per quasi il 50% in mano a investitori esteri e ai diretti concorrenti.

Che cosa ha generato l’enorme deficit commerciale americano? In prima battuta non può che riflettere un deficit di competitività internazionale, essendo altri Paesi in grado di produrre alcuni beni di largo consumo a costi inferiori. Sono stati gli investimenti americani fin dal secondo dopoguerra a finanziare la rinascita di forti competitori quali la Germania e il Giappone, riaffermatisi nell’arco di pochi decenni come giganti economici ma costretti al nanismo politico sotto l'ombrello protettivo Usa. Anche l’enorme sviluppo cinese si è determinato per l’afflusso di capitali esteri e di investimenti diretti esteri, in buona parte americani; ma la Cina è cresciuta parallelamente come potenza politica. Il capitale si dirige dove c’è possibilità di fare profitti e supera qualunque barriera quando si tratta di realizzare ciò che non è possibile realizzare altrove. Agli Stati non resta altro che assecondare il movimento dei capitali in entrata e in uscita: perciò la deregulation dei flussi finanziari internazionali non è stata in realtà una scelta, ma era scritta nella dinamica del Capitale e nel suo grado di sviluppo. I capitali americani se ne vanno perché nella rust belt (2) gli investimenti non rendono adeguatamente: il saggio del profitto è troppo basso, è quello tipico di un Paese a capitalismo stramaturo. Ecco allora che tutta una serie di produzioni di largo consumo, per lo più ad alta intensità di manodopera, si disloca altrove, dove il saggio del profitto è ancora elevato, vuoi per un basso costo della forza lavoro, vuoi per bassa composizione organica. Si pretende che il capitale canti l’inno nazionale, ma i suoi peana si levano a esclusiva gloria del profitto.

Almeno per quanto riguarda la Cina, non si tratta solo di un differenziale di competitività, per quanto l’operaio cinese percepisca un salario che è la decima parte di quello dell’operaio americano: si tratta piuttosto del fatto che da determinate produzioni “mature”, di beni di largo consumo, nei paesi di vecchio capitalismo si ricavano saggi di profitto troppo bassi e gli investimenti diretti esteri creano nuove aree produttive dove le condizioni della produzione sono migliori. D’altra parte, se diamo credito alle lagnanze cinesi, i margini di profitto ricavati dall’export in Occidente sono talmente esigui che un minimo apprezzamento dello yuan comporterebbe il tracollo delle esportazioni e la chiusura di migliaia di fabbriche. Non si può escludere che le cose stiano effettivamente così, sia se ipotizziamo un gap di produttività per addetto a svantaggio della Cina, sia se ipotizziamo un livello di produttività non molto distante tra i due paesi. Dipende dalle produzioni.

Se supponiamo, infatti, un differenziale tecnologico a favore degli Usa nella produzione, poniamo, di pneumatici, questo differenziale si riflette sul profitto effettivamente realizzato. Sul mercato si determina, infatti, un livellamento del saggio di profitto e si forma un profitto medio che avvantaggia il produttore americano il quale realizza un valore superiore a quello prodotto (e Marx ci insegna che il valore di mercato “costituisce il centro di oscillazione dei prezzi di mercato”), mentre il produttore cinese, alle condizioni poste, ne realizza uno uguale o inferiore. A vantaggio del produttore americano si determina quindi un plusprofitto, un’appropriazione sul mercato di una parte di valore (3).

Se all’opposto supponiamo un livello di produttività per addetto più o meno alla pari, allora la competitività delle gomme cinesi andrebbe ascritta essenzialmente ai minori costi per salari, per cui a vantaggio della produzione cinese andrebbe un saggio del plusvalore maggiore, cui corrisponderebbe anche un saggio del profitto maggiore (4).

Stando al deficit commerciale americano, se supponiamo il primo caso come modello generale, l’appropriazione di plusprofitto ipotizzata non sarebbe sufficiente a compensare il differenziale di saggio di profitto ricavato della produzione americana di pneumatici; se supponiamo il secondo caso, l’origine del deficit troverebbe una spiegazione immediata. E’ probabile che nella realtà si verifichino entrambe le condizioni, a seconda delle produzioni e delle aziende interessate. Negli ultimi due anni, le iniziative protezionistiche anticinesi hanno riguardato numerosi prodotti statunitensi – tra questi, gli pneumatici, l’acciaio, i tubi. Gli Usa possono reagire riducendo i salari – e in effetti questi risultano mediamente in calo nel corso del 2010: quelli dei neoassunti possono addirittura corrispondere al 50% dei salari medi – intervenendo sui costi di produzione, tagliando le “inefficienze”, aumentando il rapporto tra capitale fisso e capitale variabile (composizione organica).

In ogni caso, il gap tecnologico che abbiamo supposto a svantaggio della Cina, nell’attuale contesto sarebbe destinato a essere rapidamente colmato; anzi, si accentuerà la rincorsa alla crescita della produttività da entrambe le sponde del Pacifico, accelerando la tendenza alla caduta del saggio generale del profitto e a nuove crisi di sovrapproduzione. Per accrescere la competitività delle produzioni nazionali, la reazione tanto delle nazioni in deficit commerciale quanto dei paesi in attivo è aumentare la composizione organica e con essa il plusprofitto che deriva dal livellamento del saggio generale mondiale. Ma così facendo si accentua la tendenza alla diminuzione del saggio e si determinano le condizioni per nuove e più gravi crisi generali. E’ insomma una rincorsa senza limiti.

Nel Paese di vecchio capitalismo, trovano collocazione stabile le produzioni ad alta tecnologia che garantiscono una grande massa e un basso saggio del profitto, collegate spesso all’industria militare e ai settori strategici avanzati e innovativi ad altissima composizione organica. Ma nell’interscambio internazionale contano i consumi di massa e la crescita del Pil rimane legata alla capacità di consumo delle masse: ed è proprio il limite di questo consumo – per Marx – in rapporto alle necessità di valorizzazione del Capitale ciò che sta all’origine delle crisi.

Sotto quest’aspetto vanno tenuti in debito conto due fattori:

- l’enorme dislocazione di capacità produttiva negli ultimi 20-30 anni, che ha determinato una nuova divisione del lavoro internazionale, con filiere produttive distribuite in più punti, tant’è che i semilavorati costituiscono il grosso dell'interscambio mondiale. Alla socializzazione della produzione si è accompagnata la sua internazionalizzazione (mondializzazione), ben oltre la sfera commerciale e ben oltre la semplice delocalizzazione; il mondo è attraversato da una fitta rete produttiva interconnessa, i cui punti ne costituiscono i gangli vitali; e, nel flusso continuo di merci, questi gangli sono altrettanti interruttori: tengono accesi interi circuiti, ma sono anche in grado di spegnerli (si veda la recente serie di articoli sul protezionismo, pubblicata su queste stesse pagine). Questo è di enorme interesse per noi, perché significa che anche il proletariato è oggettivamente internazionalizzato e dispone di un altissimo potenziale di sabotaggio.

- la delocalizzazione della produzione, particolarmente in Cina, attuata dalle multinazionali americane dopo aver chiuso le fabbriche in Usa (dove non riapriranno mai, a meno di ridurre drasticamente le condizioni di vita di ampi settori proletari per estrarre plusvalore assoluto, come pure sta accadendo con la crescente precarizzazione e con le politiche manageriali alla Marchionne). Questo rende i rapporti politici ed economici internazionali ancor più complessi. Le multinazionali americane sono le prime a voler mantenere l’attuale livello dell’export cinese e a non volerlo danneggiato da politiche protezioniste o da maneggi sul cambio delle valute. La stessa bilancia dei pagamenti americana risulterebbe ulteriormente deficitaria se non giungessero i profitti maturati nella produzione all’estero delle multinazionali. Anche per questo il governo della superpotenza atlantica annaspa alla ricerca di “soluzioni” che si profilano sempre come armi a doppio taglio, capaci tanto di favorire quanto di danneggiare le produzioni “americane” (sempre che si possano chiamare ancora così). E’ questo un altro grande risultato dello sviluppo del Capitale, che tende sempre più ad affrancarsi da ogni legame nazionale, ma così facendo crea i presupposti per la crisi dei tradizionali assetti politici e sociali tanto dei paesi di vecchio capitalismo quanto di quelli di nuova industrializzazione. Ciò vale sia per il capitale finanziario che è in grado di speculare sulla crisi dei debiti sovrani e di mandare in bancarotta gli Stati, sia per la struttura produttiva, una parte della quale si colloca – direttamente o sotto forma di filiera di produzione interconnessa – al di fuori della sovranità dello Stato d’origine. Infatti:

Le bilance dei pagamenti registrano così le esportazioni di beni cinesi negli Stati Uniti, ma non registrano tutti i redditi delle imprese statunitensi che sono legati agli impianti in Cina. Per esempio, ogni iPhone prodotto in Cina costa venti dollari, ma è venduto a 600 dollari nel mondo. Di conseguenza, una politica di stimolo (fiscale e monetario) della domanda negli Stati Uniti che si ripercuote nell'acquisto di iPhone accresce la domanda di lavoro in Cina e il margine di profitto del produttore statunitense, ma non la domanda di lavoro negli Stati Uniti(5)

L’origine della schizofrenia che emerge di questi tempi dalle dichiarazioni e dai provvedimenti dei governi in materia di interscambio risiede proprio in questa contraddizione del sistema capitalistico mondiale: da una parte, tutti insistono sulla necessità di rafforzare un sistema di libero scambio e si esorcizza il pericolo protezionista, e dall’altra, si minacciano e si mettono in atto sanzioni commerciali contro i concorrenti; da una parte, si denunciano gli squilibri nell’interscambio, e dall’altra, tutti sanno che senza quegli stessi squilibri non vi sarebbe stata crescita della produzione e del commercio mondiale nell’ultimo decennio.

A dover aver paura [di  un ritorno del protezionismo – NdR] sono i grandi esportatori, Germania, Giappone e specialmente Cina. Ma è interessante che sia la Germania, per bocca della Merkel, a fare dichiarazioni di liberoscambismo a oltranza. I cinesi, pur avendo un surplus fuori di ogni misura con gli Stati Uniti, mantengono una calma maggiore. Essi sanno che a difendere le loro esportazioni negli Usa saranno in ogni caso le multinazionali americane, che delle stesse esportazioni sono le maggiori produttrici in Cina e che si sono ormai bruciati i ponti alle spalle, avendo chiuso le fabbriche negli Usa e negli altri paesi ad alti salari. È di questo che i tedeschi, per ultimo il ministro Schauble, accusano gli americani. Appare loro, e sembra a molti altri, assoluta follia mettere un paese gigantesco come gli Stati Uniti alla mercé delle produzioni straniere concentrandole in un solo paese come la Cina, nei cui confronti le capacità di pressione e ricatto sono minime. La recente diatriba sulle ‘terre rare’ ha messo in luce che la gran parte dei produttori americani di questi materiali, indispensabili all’industria elettronica e ad altre branche industriali come gli armamenti, hanno spostato la produzione in Cina dopo aver chiuso le loro fabbriche americane. I maggiori utilizzatori sono le industrie cinesi e da ciò nasce il desiderio di Pechino di rendersi autosufficiente e non ricattabile. La differenza di comportamento tra Usa e Cina salta agli occhi”(6).

Questa differenza di comportamento non è però frutto di una “follia” americana: è scritta nella ferrea necessità che spinge capitali e investimenti là dove si estrae il saggio di profitto più alto. Il Capitale non concepisce altra ragione che quella del profitto, fuori dalla quale tutto è fola, chiacchiera, a partire dalle trombe del patriottismo. Questa razionalità giunge oggi al punto di privare il “proprio” paese anche di produzioni strategiche assolutamente indispensabili alla potenza militare, fattore sul quale si basa la supremazia americana sul mondo, destinata però a deperire se viene meno la base produttiva di cui è diretta emanazione.


Nella storia dell’interscambio Usa-Cina, in un primo tempo gli Usa esportano capitali e tecnologia (e una parte dell’esportazione di capitali non è originata da un surplus commerciale, ma se ne esce bellamente dalle tipografie della Fed); in seguito, però, si vedono inondare da una massa crescente di merci che eruttano dal vulcano della produzione che quegli investimenti ha attivato in un Paese con una disponibilità illimitata di manodopera a basso costo. Ne deriva uno squilibrio commerciale enorme a favore della Cina, compensato dall’afflusso di capitali cinesi che finanziano il debito americano e i suoi deficit. L’interscambio avviene ovviamente in dollari, la moneta mondiale, il cui prezzo rimane ancorato a quello dello yuan, moneta inconvertibile e manovrata dai centri esecutivi. Per un certo tempo, la situazione va bene a entrambi. Dall’alto del loro strapotere politico e finanziario, gli Usa sostengono senza difficoltà la presenza di “deficit gemelli” crescenti; la Fed garantisce al sistema bancario americano di finanziarsi a tassi prossimi allo zero, gli investimenti delle banche si dirigono verso la speculazione più spinta, e si finanzia di tutto, a partire dai mutui immobiliari, senza andar molto per il sottile. Il capitale finanziario si avvita nel suo movimento indipendente dalla produzione, le borse volano, la crescita del Pil è affidata al volano dei mutui immobiliari e del credito al consumo. La parola d’ordine è indebitarsi, spendere.

Sull’altra sponda del Pacifico, intanto, la crescita della produzione non accenna a calare ed è sospinta anche dall’indebitamento americano. L’equilibrio monetario tra dollaro e yuan è affidato al duplice ruolo della Cina di esportatore e finanziatore dei consumi americani. Se si considerasse unicamente l’interscambio commerciale, il dollaro dovrebbe deprezzarsi, ristabilendo col tempo un certo riequilibrio dei prezzi e una riduzione del disavanzo: ma il sostegno finanziario della Cina e la centralità internazionale del sistema finanziario americano mantengono il dollaro relativamente alto. Questo finché non è intervenuta la crisi di sovrapproduzione ad inceppare la dinamica dei flussi internazionali di merci e capitali che fa perno sugli Usa. La crisi dell'economia americana è diventata crisi dell'economia mondiale.

Entro un sistema gold standard, il corso dei cambi sarebbe strettamente collegato all'andamento dell'interscambio. Scrive ancora Marx: Se l'Inghilterra deve fare dei pagamenti alla Germania superiori a quelli che la Germania deve fare all'Inghilterra, allora il prezzo del marco espresso in lire sterline aumenta a Londra, e il prezzo della sterlina, espresso in marchi cade ad Amburgo e a Berlino(7). Se cioè non interviene una compensazione commerciale con maggiori acquisti della Germania in Inghilterra, la compensazione si risolve in un pagamento in oro che, se prolungato nel tempo, intacca la riserva bancaria inglese; la domanda di capitale da prestito supera allora l’offerta e ne consegue un aumento del saggio d'interesse fissato dalla Banca d’Inghilterra. La scarsità di capitale da prestito determina allora un deprezzamento dei titoli e questo attrae capitali esteri, o la vendita di titoli esteri detenuti da inglesi, così che si ristabilisce un equilibrio nella bilancia dei pagamenti e si mantiene la parità tra le valute.

Un sistema monetario come quello attuale, completamente sganciato dall’oro, non funziona molto diversamente. L’enorme e costante surplus commerciale ha consentito alla Cina di accumulare riserve prevalentemente in dollari; una parte del surplus è investito in titoli di Stato Usa. Di per sé, questo “ritorno” finanziario è fattore che compensa lo squilibrio dell’interscambio commerciale e riassesta la bilancia dei pagamenti. Nell’epoca della moneta di credito, nella quale gli interventi dei governi svolgono un ruolo determinante, il Tesoro cinese, acquistando T-bonds americani svolge la medesima funzione assolta ai tempi di Marx da una “forte e ricca classe di banchieri e trafficanti in titoli, cui in genere si deve il livellamento del saggio dell'interesse e il livellamento della pressione (pressure) commerciale (8).

E' evidente che una forte riduzione dell’acquisto di T.Bonds da parte della Cina originerebbe un altrettanto forte deprezzamento del dollaro. I dollari detenuti dalla Cina mantengono la loro capacità di rappresentare ricchezza solo perché gli Stati Uniti sono... gli Stati Uniti e perché la Cina stessa lo riconosce, accettandoli in pagamento e acquistando i titoli di Stato Usa. Ciò equivale a dire che la credibilità americana è in mano cinese, e che la ricchezza accumulata dalla Cina è vincolata a questa stessa credibilità. Il denaro di per sé non ha ovviamente alcun valore, se non in quanto esprime il carattere sociale della produzione e dello scambio. La Cina non si può permettere che il dollaro si deprezzi oltre un certo limite: si deprezzerebbero anche le riserve accumulate in anni di surplus e cadrebbe la competitività dell’export che è stata ed è alla base della sua crescita portentosa. Di qui il paradosso di una Cina costretta per un verso a sostenere il corso del dollaro, dall'altro ad essere prima sostenitrice della necessità del superamento della centralità del dollaro come moneta internazionale.

La crisi del sistema monetario internazionale come crisi del credito

Le difficoltà in cui si dibattono gli Usa hanno determinato l’insostenibilità del deficit commerciale e del deficit di bilancio dello Stato, che si reggono unicamente sul crescente debito pubblico. Solo un rilancio della produzione potrebbe innescare una dinamica in grado di riequilibrare quegli enormi scompensi, ma il cuore della potenza Usa è finanziario. Il governo americano sta cercando di indurre, con le recenti manovre monetarie della Fed, il rilancio della competitività dei produttori nazionali in alcuni settori, affinché riconquistino almeno quote di mercato interno attualmente in mano a produzioni estere. Il fine della manovra è, attraverso il rilancio del credito, il rilancio degli investimenti e della produttività, il rilancio dei consumi interni per confermare il ruolo centrale del mercato americano nell'interscambio mondiale e la propria supremazia finanziaria.

Il dramma degli Usa è proprio qui: la conferma della supremazia non può fondarsi più su una supremazia produttiva, per le ragioni oggettive che abbiamo detto sopra. Ma una potenza finanziaria e militare senza una base produttiva nazionale corrispondente è intrinsecamente fragile, a meno di non confermare l'attuale divisione internazionale del lavoro su basi di forza, assegnando ad alcune nazioni il ruolo di “fabbrica” per gli Usa. Non essendo più il tempo in cui i “diktat” americani mettevano tutti in riga, ciò potrebbe essere solo effetto di una riaffermazione di forza della supremazia Usa che imponga nuovamente la legge del dollaro.

Per il momento, il governo americano fa sparare le bordate dalla Fed: avvalendosi dell’“esorbitante privilegio” immette liquidità nell'economia internazionale, esporta capitali in dollari che finiscono in prevalenza nella speculazione finanziaria, restando nel novero del capitale fittizio, e trovano sbocchi in parte nella rendita, nella speculazione immobiliare e sulle materie prime, e in parte nella produzione nei paesi emergenti, trasformandosi in investimenti produttivi (di plusvalore). In ogni caso, questa massa di capitali determina un eccesso di disponibilità di capitale internazionale che forza la produzione e la speculazione, ma che non può rilanciare la produzione nei paesi di vecchio capitalismo oltre un certo limite.

Perché è qui il punto: la linfa vitale del capitalismo è l’estrazione di plusvalore, ma un conto è produrre il plusvalore in casa propria – e si è visto come farlo nei paesi di vecchio capitalismo riproponga le condizioni per una ripresa dello scontro di classe – e un conto è continuare ad appropriarsi di plusvalore altrui a partire dal predominio finanziario e militare globale.

Dal 1971 ad oggi, gli accordi sui corsi delle valute sono stati in realtà diktat americani senza reale contraddittorio e il confronto riguardava un numero esiguo di concorrenti, con interessi che in definitiva convergevano: gli Usa si facevano garanti della stabilità internazionale e i compari pagavano la giusta tangente. Oggi, in una situazione molto più complessa per un’infinità di fattori, una soluzione “modello Plaza” (9) appare assai problematica, e gli Usa non sono più in grado di imporre una soluzione negoziale con proprio esclusivo vantaggio. Da questo punto di vista, il ricorso della Fed all’“allentamento quantitativo” (Quantitative easing) come atto di forza nei rapporti valutari utilizzando la prerogativa esclusiva di stampare moneta internazionale è anche un segnale di debolezza che sottopone l’attuale sistema monetario imperniato sul dollaro a una pressione tale da metterne a rischio la conservazione.

La crisi valutaria attuale è particolarmente seria perché per la prima volta il ruolo del dollaro è messo in discussione, senza che sia in vista un’alternativa credibile. Un ritorno all'oro, come proposto dal presidente Fmi (!), è completamente al di fuori del regno del possibile in un contesto di economia creditizia, perché renderebbe troppo rigida la politica monetaria degli Stati, vincolandola alla riserva aurea. Si sta in effetti verificando un aumento della domanda di oro sui mercati internazionali che ne fa lievitare il prezzo: ma ciò è solo effetto delle difficoltà in cui si dibatte il sistema capitalistico e della tendenza ad ancorarsi ai beni solidi, in presenza di una forte volatilità degli investimenti finanziari e per le incertezze della crescita economica. L'Euro – e l'attuale crisi dei debiti sovrani lo conferma – è moneta forte in quanto esprime la potenza economica della Germania; il fatto che possa essere preferita al dollaro in alcune transazioni internazionali è semplicemente effetto di relazioni economiche di area, ma non esprime certo una forza politica dotata di capacità di coercizione tale da imporre le proprie regole oltre l’ambito UE, tanto meno a livello globale.

La Cina ha proposto un paniere di valute. E’ una soluzione all’apparenza sensata, ma resta da vedere se c’è  la capacità di imporla e se gli Usa sarebbero disposti a digerire un simile smacco.

Se passasse la soluzione cinese, gli Usa perderebbero tutti i vantaggi che derivano dal privilegio di stampare moneta internazionale: perderebbero in sostanza la base del predominio mondiale che la guerra gli ha assicurato e che la rovina dell'Urss – da noi prevista storicamente – ha portato a compimento. C’è da dubitare che potrebbero accettarlo senza colpo ferire.

Si propone conseguentemente un bivio: o una conferma del ruolo del dollaro su basi di forza (finanziaria  e militare) o la disgregazione degli attuali rapporti valutari internazionali.

L'attuale crisi coinvolge un sistema valutario internazionale basato sul credito in un momento in cui l’emittente ha perso in credibilità. La sua forza politico-militare è tuttora indiscussa, ma le sue basi sono minate dall’altissimo grado di finanziarizzazione della sua economia, oltre che dal delinearsi di un temibile concorrente. La potenza finanziaria si svuota se non corrisponde ad una capacità di estrarre plusvalore dalla produzione reale, e il plusvalore si estrae a condizioni capitalisticamente più vantaggiose fuori dal territorio sotto il diretto controllo della superpotenza. La superpotenza deve quindi essere in grado di esercitare un controllo globale, e ciò glielo consente la sua potenza politico-militare: è un circolo vizioso.

Si ritorna allora al punto di partenza: alla capacità di estrarre plusvalore in casa propria, cosa che il temibile concorrente asiatico sa fare molto bene. Intraprendere una guerra preventiva contro il temibile concorrente è soluzione al momento troppo carica di incognite. Ma per vincere su scala globale non sarà sufficiente inondare di dollari il mondo; il capitale americano deve sottomettere la propria forza-lavoro per estrarne un saggio del plusvalore maggiore, deve intraprendere una guerra di classe contro il proprio proletariato. Se in tutto l’Occidente il proletariato è sottoposto ad un'analoga pressione, ciò vale a maggior ragione per gli Stati Uniti, dove il vantaggio del dollaro moneta mondiale ha consentito per cinquant’anni di distribuire le briciole dei sovraprofitti derivanti da una posizione di supremazia oggi vacillante.

Parte I  (il programma comunista n°02 - 2011)

 

Note:

1- Alla base dei problemi nei rapporti tra le monete nazionali sta l’acuirsi della concorrenza sui mercati internazionali delle merci e dei capitali. Essendo ogni moneta nazionale espressione di valore sulla base del tempo di lavoro necessario alla produzione, ad una riduzione del tempo di lavoro contenuto nelle merce corrisponde una variazione di valore che si esprime nel prezzo. Il mantenimento della parità tra monete non è sostenibile a lungo in presenza di una diminuzione del valore delle merci di uno o più paesi concorrenti. Perciò, le turbolenze nei rapporti di cambio sono indicatrici di un’accentuata concorrenza internazionale. Le crisi monetarie non sono che violente ricomposizioni degli squilibri degli scambi sul mercato mondiale e, dietro di esse, delle produzioni nazionali. Astraendo dai fattori secondari, il rapporto di scambio tra due monete nazionali è infatti determinato dai loro rispettivi poteri d’acquisto, che variano nel tempo con la produttività del lavoro sociale dei paesi emittenti. Quando, in un paese A, questa produttività progredisce meno in fretta  di quella delle monete concorrenti (astraiamo qui dall’inflazione, supposta uguale per tutti), se il rapporto di scambio della moneta A con le altre non viene alterato, la moneta A conserva di diritto sul mercato mondiale un potere d’acquisto che in realtà non ha più: cioè, diventa sopravalutata rispetto alle altre monete. I prezzi delle merci del paese A sono allora superiori ai prezzi generalmente praticati dai suoi concorrenti sul mercato mondiale – prezzi la cui media per ogni merce rappresenta grosso modo il valore di questa merce: le merci del paese A si vendono male.

2 – Con questa espressione (rust belt=cintura della ruggine), s’intendono negli Stati Uniti le vaste aree industriali dismesse e abbandonate.

3 – Marx, Il Capitale, Libro III (Livellamento del saggio generale del profitto), Editori Riuniti, p.221.

4 – “Per immaginare l’entità dell'aggiustamento dei salari e del cambio, è utile una nota statistica. Nel secondo dopoguerra i salari tedeschi e giapponesi crebbero moltissimo. Erano il 20% ed il 10% di quelli statunitensi nel 1950 e poi diventarono il 60% ed il 50% di quelli statunitensi nel 1970. I salari cinesi invece sono ancora pari, dopo anni di crescita vorticosa della loro economia, al 10% di quelli statunitensi. In conclusione, ci si avvierà ad una soluzione dei problemi fra gli Stati Uniti e la Cina quando i primi diventeranno ‘formiche’, i secondi ‘cicale’ e quando i salari cinesi esploderanno. Come si vede, una cosa non semplice” (G. Arfaras, “Il Quantitative Easing della Fed in 12 passaggi”, Limes, 12.11.2010)

5 – G. Arfaras, cit.

6 – M. De Cecco, “Tutti sconfitti nella guerra delle valute”, Affari e Finanza, 15.11.2010.

7 Marx, Il Capitale, Libro III, cit., pag.671.

8 – J. S. Mill, citato da Marx, Il Capitale, Libro III, cit., pag. 672.

9 – In seguito alle gravi crisi legate al debito estero in America Latina, nel settembre del 1985, in una riunione tenutasi all’Hotel Plaza di New York, il gruppo dei cinque grandi (Usa, Giappone, Regno Unito, Germania e Francia) raggiunge un accordo informale, che porterà il sistema monetario internazionale a un regime di interventi sul dollaro, a sostegno dei cambi da parte delle banche centrali, con l’obiettivo primario di abbassare il valore del dollaro.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2011)

 

 

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