Un minuscolo vaso di coccio

 

Nella realtà mondiale, che cosa rappresenta economicamente l’azienda-Grecia? Una ben piccola cosa. E nell’Unione Europea? Solo il 2,5% del Pil totale: un piccolo vaso di coccio fra massicci containers di ferro. Quale diversità reale presenta la “sua” crisi economica rispetto a quella americana, europea e giapponese? Nessuna: è figlia della stessa crisi globale del capitalismo. Ed è proprio questa sua insignificanza economica a portare la Grecia alla bancarotta, e non lo scandalo di aver contraffatto i conti con l’aiuto della Goldman Sachs, la banca oggi sotto inchiesta negli Usa per aver procurato (dicono) il fallimento dei mutui immobiliari negli Usa: è troppo piccola per non fallire.  Si aggiunga a ciò la preoccupazione dell’europeismo piccolo borghese: l’intera intelaiatura, per modo di dire, dell’Unione monetaria si starebbe disfacendo, ahimè, sotto i colpi della crisi... Che esca la Grecia dall’Unione monetaria o che la Germania se ne vada per rifondare un nuovo legame monetario più solido, come da più parti si mormora, ovvero che tutto finisca in un rattoppo provvisorio, prima dello scioglimento definitivo, con una ristrutturazione del debito o altro come in Argentina, la dinamica della crisi economica percorrerà le sue stazioni di transito verso un’inevitabile crisi politica tra le diverse nazioni.

C’è chi rinnova la memoria dei fatti di Sarajevo 1914, che aprirono la strada alla prima guerra mondiale, e c’è chi pensa che è giunto il tempo in cui lo spazio vitale (Lebensraum) della Germania debba essere riempito da ben altra politica di forza. La giungla delle sottospecie nazionali europee comunque è già pronta a svendersi, come ha sempre fatto, al rimorchio delle grandi potenze costituendo la base delle diverse alleanze. E’ l’effetto-cascata della crisi economica che preoccupa: che esso possa investire in modo caotico questo o quel paese, uno dietro l’altro, senza soluzioni di continuità. Perciò seguiremo gli eventi della Grecia come se fossero i suoi debiti la questione principale, ma terremo ben in vista lo scenario globale della crisi di sovrapproduzione, che sta imperversando come una tempesta perfetta nella collisione tra il ciclone asiatico dei paesi emergenti con tassi di crescita straordinari (esuberanza giovanile!) e l’anticiclone dei vecchi paesi occidentali con tassi insignificanti (arteriosclerosi senile!). I dati statistici qui e là e le stime sulla Grecia ci permettono solo di comprendere aspetti secondari della faccenda, in quanto è dal contesto globale, cui la piccola azienda greca è legata, che possiamo spiegare gli effetti locali e non viceversa.

 

Alcuni dati sulla situazione reale [1]

 

La popolazione greca ammonta a 11,2 milioni, metà dei quali è concentrata nelle città principali (Atene e Salonicco). La montuosità del territorio, caratteristica dell’area balcanica (solo per il 20% arabile), non permette altro che le coltivazioni tipiche mediterranee (ulivo soprattutto) e una piccola densità di popolazione (84,9 ab/kmq di densità); l’occupazione [2], con il 12% in agricoltura, il 22% nell’industria e il 66% nei servizi, colloca il paese in una direzione di sviluppo capitalistico che lo accomuna appunto all’area balcanica più che al Centroeuropa e al suo immediato retroterra. Il Pil pro capite arriva a 28.000 dollari (Germania: 40.320 dollari): per il 3,8% esso proviene dall’agricoltura, per il 20,3% dall’industria (dalla più miserabile alla più consistente) e per il 75,9% dai servizi. I dati di occupazione (12%) e di provenienza del Pil (3,8%), così alti in agricoltura, non sono più registrabili nel Centroeuropa (Germania: 2% e 0,9%; Francia: 4% e 2,2%; Austria: 6% e 1,9%). Il tasso medio annuo di disoccupazione (10% dal 1995 al 2007), pur così alto, dice poco sull’origine della disoccupazione (e dell’occupazione), così come dice poco il tasso di crescita media del Pil reale (4,8%, dal 2002 al 2007). Il Pil ammonta a 313 miliardi di dollari; le importazioni a 76,2 miliardi di dollari e le esportazioni a 23,6 miliardi: nell’un caso e nell’altro, Germania e Italia sono ai primi posti, e danno una bilancia commerciale  negativa per 52,6 miliardi di dollari. L’inflazione media annua (2003-2008) è al 3,4%. Il turismo è l’unica vera industria dei servizi, con attività armatoriali che sorreggono il bilancio. La spesa sanitaria ammonta a 9,5% del Pil (Germania: 10,6%) e la spesa per l’istruzione al 3,5% (Germania: 4,4%). La spesa per la difesa è decisiva: 5% del Pil, percentualmente superiore a quella della Germania e della Francia – 14 miliardi di euro ogni anno dal 2007 al 2009 [3], con una notevole consistenza militare di 177.600 uomini, a riprova che la Grecia si trova incastrata nella faglia strategico-militare con la Turchia, con un contenzioso di lunga data su Cipro e altre isole dell’Egeo che ne fa una zona critica [4].

Non staremo a contabilizzare le percentuali di corruzione, di evasione fiscale, di economia sommersa, con cui si tenta di spostare il significato e il carattere della crisi, che è crisi di sovrapproduzione mondiale. L’operazione di “pulizia morale” che si chiede è architettata politicamente ad arte per mostrare il fallimento dell’economia greca sia agli occhi ignari degli operai greci sia a quelli ultrabendati degli operai tedeschi, ed è un’operazione che farà comodo prossimamente a tutti gli Stati inguaiati.

 

 

La situazione reale e il controllo sociale

 

L’esistenza politica indipendente della ditta Ellade non è affatto caratterizzata da una formazione economica sottosviluppata, come l’hanno descritta socialisti e nazionalcomunisti, per continuare a offrirsi come i migliori riformisti dell’economia e dello Stato borghese: il carattere mercantile e marittimo in passato e il ritardo nell’emergere di un capitalismo industriale non ne fanno certo una realtà arretrata (si tratta di quello che già Lenin chiamava lo “sviluppo ineguale del capitalismo”). Il suo livello economico negli anni del dopoguerra era nella media degli altri paesi europei. Che poi lo scarto di sviluppo con gli altri paesi sia cresciuto è effetto di moltissimi fattori storici, e non solo in quest’area. E che la borghesia in tutte le sue varianti abbia cercato sempre di ubriacare il proletariato con la grandezza del ricco patrimonio culturale, ripescando (e non a caso!) nell’antica democrazia greca i fondamenti originari della ricchezza, della libertà e della bellezza per una minoranza, spacciandola come cornucopia di tesori per tutti e imprimendo su ogni portaborse, benestante o miserabile, il marchio borghese dell’identità nazionale, anche questa è una pratica stravecchia e universale. Non è un caso dunque che susciti scandalo la proposta provocatoria di vendere una parte delle isole o il Partenone o la flotta per sanare il debito!...

Certo è che la situazione economica si è fatta pesante dopo l’“inverosimile”crescita economica degli anni passati: il turismo è in difficoltà, il settore immobiliare è crollato e il business navale si è liquefatto, a causa della contrazione del commercio internazionale che ha portato al blocco degli ordinativi per nuove commesse e al crollo delle tariffe dei noli. Sul fronte finanziario, il sistema bancario è fortemente in difficoltà e il già grosso debito pubblico è destinato a crescere (lo attestano la fuga di capitali e lo scudo fiscale per il rientro dei capitali con l’abbuono del 5%, proposto con la finanziaria in questi ultimi giorni); la riduzione degli introiti fiscali a causa della crisi e l’aumentata evasione rendono il quadro più fosco. Tra l’altro, essendo tra i paesi più dipendenti in ambito europeo dai sostegni d’emergenza della Banca europea, cessati i vecchi programmi di autofinanziamento a tassi di interesse contenuti, la via della crescita del debito è assicurata. Da mesi, sono le aste delle obbligazioni statali sui mercati finanziari a essere utilizzate per rimettere in sesto eventualmente, nell’urgenza della scadenza delle rate, il debito pubblico, rimandando a un futuro incerto non il pagamento del debito, ma quello degli interessi, che diventano sempre più onerosi. In questi giorni (28 aprile-5 maggio), il declassamento dei titoli a junk è la premessa della bancarotta. I Piigs (il quintetto di paesi costituito da Italia, Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo, anche questi ultimi declassati dagli istituti di rating) soffrono dello stesso male: avrebbero bisogno di una grossa svalutazione (almeno del 30%) del tasso di cambio con il resto del mondo per ritrovare (?) la competitività perduta, ripetono gli “addetti ai lavori” – e pensano che basterebbe un puro cambiamento nominale per rimettere in piedi l’economia, facendo aumentare le esportazioni e spostando i flussi del turismo internazionale verso la Grecia... Tuttavia, per farlo, quei paesi dovrebbero uscire dall’Unione monetaria e attaccare, direttamente e senza rete protettiva, la classe operaia.

In questo frangente, il tasso di disoccupazione all’11,3% (falso come gli altri indici; da parte sua, la disoccupazione giovanile sfiora il 30%) [5] e la “flessibilizzazione” dei salari sono destinati a crescere. In presenza di un’industria degna di questo nome, ristrutturazioni, fusioni aziendali, delocalizzazioni darebbero qualche certezza all’accumulazione di profitti: ma essa non esiste. Anche licenziando una larga massa di lavoratori del pubblico impiego (o utilizzando i diversi ammortizzatori sociali, che necessitano non di fuffa finanziaria ma di denaro cash) o dismettendo attività improduttive, non si otterrebbero che effetti limitati: quando non esiste una vera struttura industriale, non è possibile di elevare né il saggio di sfruttamento né la composizione organica del capitale. In buona parte, è il lavoro improduttivo a tenere in piedi la dissestata impalcatura sociale, di cui i ceti medi sono la vera sostanza tossica. Da parte loro, i senza-riserva proletari appartengono ormai alla massa dei lavoratori statisticamente “non esistenti”. I cinque scioperi dall’inizio dell’anno (quelli più recenti del 22 aprile e del 1 maggio), contro i piani di ristrutturazione imposti dal diktat europeo, sono solo punture di spillo in assenza di un’organizzazione di classe, il partito comunista rivoluzionario, e di organismi di lotta indipendenti dai padroni e dal governo. La partita che si gioca in Grecia non è altro che un episodio della lotta di classe, che ha per teatro l’intera Europa e ruota intorno alle illusioni assorbite in decenni di “pace sociale”. Le diverse organizzazioni “di sinistra”, sindacali e politiche, non sono state e non sono altro che associazioni adibite al reclutamento nazionalista in tempo di pace e ancor più lo saranno in tempo di guerra. Secondo loro, il deficit di bilancio per il 2010 si potrebbe rimettere in sesto senza alcun bisogno di prestiti esteri, attraverso la messa in ordine dei conti pubblici, la lotta agli sprechi, un aumento delle tasse sui profitti delle imprese, la lotta all’evasione fiscale e la ristrutturazione del sistema pensionistico, che venga incontro alle necessità dei più deboli: le vecchie ricette delle “riforme di struttura” sono sempre all’ordine del giorno! Inoltre, la via della legalità democratica è al contempo mezzo e fine e, in quest’ottica, non c’è dubbio che ogni lotta che si spinga oltre questo confine dovrà essere stroncata. E a essa si associa poi, come inevitabile corollario, il ribellismo inconcludente di ampi strati giovanili.

Si tratta di riformismo di terz’ordine, il cui scopo è di alimentare altre illusioni garantendo nel frattempo la pacificazione sociale e democratica: a fronte del quale, il riformismo finanziario (con lo spostamento dei pagamenti in altra data), sostenuto, e non potrebbe essere altrimenti, dalle schiene proletarie, garantirebbe solo un po’ di respiro. Nel capitalismo, non si fanno sconti ai proletari; il riformismo, qualunque sia la sua natura, promette e chiede senza mezzi termini lacrime e sangue, altrimenti niente prestiti: il governo greco dichiari dunque apertamente il congelamento dei salari nel settore privato, il blocco delle assunzioni, la riduzione di tredicesima e quattordicesima anche per i pensionati, l’elevazione dell’età media della pensione dagli attuali 53 anni a 67 anni, il divieto del rinnovo dei contratti a tempo determinato dei dipendenti pubblici, l’introduzione di una maggiore flessibilità contrattuale, l’abolizione dell’obbligo del ricorso all’arbitrato per i licenziamenti nel settore privato... In pratica, è la più grande operazione di dittatura (democratica!) sui lavoratori mai vista in tempi di pace in Europa per interposta istituzione. L’istinto di classe fa aprire gli occhi alla borghesia, imponendole chiarezza nei propositi: quando il gioco si fa duro, la ricetta banalissima, da che esiste una classe oppressa, è solo quella di accorciare la catena.

Quand’anche riuscisse a capire che si tratta di una crisi mondiale di sovrapproduzione, in cui la speculazione è solo un sintomo delle contraddizioni del sistema, la borghesia non saprebbe che cosa e come fare  per uscire economicamente dalla situazione: il feticcio della moneta le appare l’unico mezzo, l’unico parametro positivo in grado di aiutarla, e in tal senso le copre gli occhi. Lo Stato borghese, tanto vituperato di fronte al mercato nei tempi di prosperità, diventa un’ancora di salvezza, una stamperia di buoni del Tesoro. Soprattutto, si fa strada la coscienza politica del fatto che non esistono ricette economiche: esiste una sola azione realista – la proclamazione della dittatura sulle condizioni di vita e di lavoro dei proletari.

 

Alla borghesia greca non è rimasto dunque altro che richiedere il salvataggio finanziario da parte dell’Europa e del Fmi. Suoi settori sanno bene che una quota parte del risanamento previsto per il 2010 potrebbe arrivare solo scaricando parte della responsabilità sulle mezze classi, su quella classe media che si è arricchita in questi anni sulle spalle della classe operaia. Ma la borghesia non può inimicarsi la sua sottoclasse prediletta, quella che le consente spreco produttivo a volontà e su cui si erge l’intera struttura parassitaria, che ha comprato e venduto fondi e titoli, giocato in borsa, investito sui mutui immobiliari, e che non ha mai lavorato. E tuttavia sarà giocoforza metterlo nel conto, almeno in una minima percentuale, se non altro per dimostrare una certa imparzialità nei provvedimenti. Bruxelles richiede che si proceda con tagli alle spese sui lavoratori per il 10% del Pil in due anni, per recuperare il deficit sul Pil arrivato al 14%: giù dunque mazzate ai salari, all’occupazione, all’assistenza sanitaria, alle pensioni, alle tredicesime! Promette lacrime e sangue e lacrime e sangue saranno: una tale riduzione del deficit è impossibile, nessuna struttura economica nazionale potrebbe farlo. Saranno dunque gli operai a pagare i debiti della Grecia, non c’è alcun dubbio; e la “sinistra” non mancherà al suo... dovere patriottico: rispolvererà il vecchio ritornello del “fronte popolare”, inveendo contro gli “affamatori tedeschi del popolo”.

 

 

Lacrime e sangue: il cappio al collo dei cosiddetti aiuti

 

Oggi, nella crisi che coinvolge tutta la fittizia impalcatura economica e politica della cosiddetta Europa Unita, i nodi generali sono giunti al pettine. Dopo il salvataggio delle banche da parte degli Stati, la bolla finanziaria ha gonfiato l’altra bolla, quella del debito pubblico, su cui la speculazione finanziaria si è buttata a pesce e alla quale si è aggiunta l’immancabile crescita dei prezzi delle materie prime e dei prodotti alimentarti, sotto la spinta della caldaia asiatica. Il nodo irriducibile è nelle mani del credito concesso in precedenza dalle banche europee alla Grecia (55 miliardi della Francia, 47 dalla Svizzera, 30 dalla Germania); i titoli greci ricoprono oggi il 10% del debito complessivo degli Stati dell’Eurozona, mentre l’intero debito pubblico e privato è balzato a 373,4 miliardi di euro. Con le tre ultime finanziarie (16 miliardi di euro in totale) e i 20 miliardi aggiuntivi del 30 aprile, la riduzione del deficit/Pil al 3% secondo i criteri di Maastricht è un’impresa che con questi chiari di luna non può lontanamente riuscire.

Erano belli i tempi in cui le banche europee, con grande soddisfazione di debitori e creditori, aprivano i cordoni della borsa e ogni piccolo o grande borghesuccio greco e tedesco (seguito da una gran fetta di aristocrazia operaia) andava a innaffiare il gargarozzo, acquistando fondi e affittando ai gestori degli stessi i suoi “risparmi”, i suoi “redditi”! Oggi quei “miserabili spendaccioni” dei greci, come li si chiama in Germania, che hanno riempito i portafogli delle banche europee di crediti inesigibili (ovvero di spazzatura), non riescono a pagare il proprio debito e fuggono con i capitali all’estero (c’è sempre il diritto d’asilo per i capitali!). Le lamentele si scontrano con il fatto che in tutti questi anni il capitale, soprattutto tedesco, ha trovato consumatori  in Grecia per le sue esportazioni e liquidità crescente: un cliente così affezionato, così servizievole, come il piccolo borghese greco (Olimpiadi e spese militari a parte) non era poi del tutto da buttare!

Il “magnifico accordo” raggiunto a Bruxelles l’11 aprile prevede un finanziamento bilaterale di 30 miliardi di euro da parte dei paesi dell’Eurozona, ai quali si aggiungerebbero 15 miliardi del Fmi: da restituire al tasso del 5% (quelli europei) e del 3% (quelli del Fmi). Usando il pacchetto europeo per totali 45+10 miliardi di dollari, la Grecia riceverebbe sì il denaro per pagare i debiti che coprono una parte dei 55 miliardi di euro in scadenza quest’anno: ma la realtà della situazione, al limite del collasso, non cambierebbe molto. E qui si parla solo di 55 miliardi in scadenza nel 2010 (o degli 8,9 miliardi in scadenza il 19 maggio), e non degli altri in scadenza nei prossimi anni (cifre dell’ordine dei 130 miliardi di dollari). Se si aggiunge che la crescita degli anni passati era dovuta prevalentemente al debito pubblico e che il Pil nei prossimi anni si presume possa cadere al -4%, il default è assicurato.

Mentre tutti danno addosso alla Germania che ha voluto tenere un atteggiamento duro nei confronti della Grecia, richiamando tutti più volte al rispetto degli statuti di stabilità e consentendo al Fmi di entrare a far parte dei “soccorritori”, si guarda preoccupati  alla situazione del proprio debito pubblico: Italia (120%); Grecia (115%); Usa (93%); Francia (85,4%); Germania (84,4%); Regno Unito (81,7); Spagna (69,6%)... In questa situazione, per far fronte agli aiuti, la Germania dovrebbe contribuire con 8,376 miliardi, la Francia con 6,288, l’Italia con 5,526, la Spagna con 3,693, l’Olanda con 1,761, il Belgio con 1,071. Eppure, ciò che nessuno trova inverosimile è che, con un tasso di’interesse del 5%, i partner europei ci farebbero anche la cresta di un 2% ciascuno per milioni di euro (altro che aiuti!).

 

Se la Grecia dichiarasse bancarotta, sarebbe costretta a ristrutturare il suo debito: che può significare tanto restituire solo parte del debito con perdite dei creditori di almeno del 30% quanto rimandare nel tempo le scadenze, allentando momentaneamente la pressione. Tuttavia, non passerebbe molto tempo prima che il debitore ritorni a essere nuovo cibo per i vermi del mercato finanziario, e più di quanto accada adesso. Infatti, se non c’è crescita economica, si finirebbe per indebitarsi con tassi ancor più punitivi rispetto agli attuali. Oggi, i creditori, per via indiretta, hanno giocato ad alzare i rendimenti delle obbligazioni greche nelle “libere aste”, scommettendo anche sulla possibile bancarotta e aizzando gli istituti di rating Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch. Non potendo svalutare la moneta aumentando forzosamente le proprie esportazioni (il che significherebbe uscire dal legame monetario e ritornare alla dracma), la situazione è diventata sempre più esplosiva. Ad Atene ovviamente non conviene uscire dall’Europa, in quanto in questa permanenza ha le maggiori possibilità negoziali.

 

La bancarotta si rifletterebbe come un boomerang sulle banche creditrici (in prima fila, quelle tedesche e francesi), che sarebbero costrette a incassare pesanti perdite, con ovvie ripercussioni sul sistema finanziario europeo, visto che il dissesto greco innescherebbe un effetto-contagio sugli anelli deboli della catena, che andrebbe a sua volta a sommarsi all’effetto sistemico: le banche tedesche che posseggono titoli greci si indebolirebbero e contagerebbero altre banche. In breve, si rischierebbe di finire con un sistema bancario europeo allo stato di crack, con devastanti impatti sull’economia reale, causati dall’inevitabile stretta creditizia che da questo evento deriverebbe: ecco il più disastroso effetto della crisi. Altro che crisi dei mutui subprime!...

 

Come uscirne? Questa vicenda preannuncia il capitolo della crisi finale della cosiddetta Unione monetaria. La capacità della “politica europea” di sciogliere un tale nodo nel lungo periodo non esiste – proprio perché non esiste una tale politica, mancando una borghesia sovranazionale. La Germania potrebbe a quel punto passare alla sua antica politica di potenza in Europa, se non fosse incastrata dentro una dimensione finanziaria del capitale (“imperialismo”), a cui nessuno può sfuggire: i segnali politici in questo frangente sono stati mandati ai concorrenti più diretti, ma uscirne implica un processo in cui si affermi il principio estremo mors tua, vita mea.

 

Ciò che sembra scandaloso è il fatto che i mercati, che continuano a essere accusati della crisi, in questa faccenda sembrano avere riassunto, sotto la consenziente raccomandazione della Germania, la funzione dei giudici “severi ma giusti” nei confronti della sregolatezza finanziaria. In questo contesto, mentre le agenzie di rating vengono accusate ancora di essere quelle che, in pieno conflitto di interessi, si dilettavano ad alleggerire valutazioni al limite del collasso finanziario, è permesso adesso dare addosso ai greci, colpendo nel mucchio i proletari e imponendo la loro resa sotto ultimatum. I Cds (Credit default swaps), le polizze assicurative con cui è quotata la possibilità di insolvenza del debitore, ovvero la difficoltà a far fronte ai propri impegni, hanno assunto l’aureola dell’oggettività moralizzatrice degli eccessi: se non ci fossero stati, si dice, chi ci avrebbe avvertito della disastrosa crisi dei mutui immobiliari americani?

 

In questo circo delle meraviglie, il vecchio opportunismo riprende il vecchio adagio: “il capitalismo deve essere riformato”. Il modo di produzione capitalistico “deve essere salvato”, bisogna togliere di mezzo “i trasgressori del vero fine sociale”. Gli stessi dipendenti pubblici sono sotto il tiro del moralismo economico: insegnanti, infermieri, impiegati, portuali, che hanno voluto far correre i loro stipendi più veloci dell’inflazione accedendo con i loro risparmi da mentecatti ai fondi pensione, agli assicurativi, e sperando di aggiungere miserabili interessi aggiuntivi. E quindi, per punizione, gli stipendi del settore pubblico saranno congelati, il turnover bloccato, gli straordinari pesantemente sforbiciati. “E se arrivano i vampiri del Fondo Monetario, dovremo sputare altro sangue! Noi abbiamo già dato, adesso fate pagare i ricchi!”, grida un sindacalista del Pame, nello stesso giorno in cui il capo del governo Papandreou, riuniti i sindacati, annuncia il nuovo attacco ai salari, alle tredicesime, alle pensioni. E gli fa eco il segretario del Gsee, uscendo dalla riunione a pochi giorni dallo sciopero generale: “Le forze produttive del paese devono unirsi per affrontare la crisi” (!?) [6]. L’egoismo tedesco è uno scandalo aggiunge qualcun’altro. Se gli Usa avessero fatto così, “quando con le spese di guerra accumularono un debito di oltre il 120% del Pil, il boom postbellico non sarebbe mai avvenuto”[7].

 

A pochi giorni dalla scadenza di una rata del debito greco la crisi delle borse mondiali (27 e 28 aprile), accompagnata dalla declassazione della situazione di Portogallo e Spagna, mostra senza ombra di dubbio il crollo che si va preparando.
 

Tutti in riga di fronte alla macchina capitalistica tedesca

 

Per il marxismo, sono i tassi di crescita, la creazione di plusvalore nella produzione industriale, la produttività, a permettere alla moneta di rappresentare nel commercio internazionale il grado più o meno alto di competitività. E’ la legge del valore che impone le sue condizioni: il commercio ne è solo la manifestazione, le funzioni del denaro nella loro diversità (monetaria e finanziaria) ne sono l’espressione, perché senza la realizzazione del plusvalore non c’è accumulazione. La Germania che  nella crisi sta licenziando, riducendo salari, regolarizzando la presenza operaia nelle fabbriche, imponendo condizioni drastiche con l’aiuto dei sindacati di Stato, ha aumentato la produttività, ha imposto le sue esportazioni (il paese più esportatore insieme alla Cina): le sue corporazioni finanziario-democratiche, che possiedono ammortizzatori sociali diversificati e controllano risparmi, assicurazioni e pensioni, le permettono di tenere ancora bene. Bismarkiana o nazista, socialdemocratica o liberaldemocratica, la Germania rappresenta il cuore reazionario d’Europa: con il suo proletariato da tempo incatenato, è la sua struttura industriale, pur definita all’interno della finanziarizzazione che – come scriveva Lenin – domina ormai l’economia reale, a tenere insieme le forze interne e quelle centrifughe dell’Europa. Nel mezzo della crisi, questo controllo è diventato l’unico collante capace di resistere ai venti di tempesta della finanza: la sua forza politica non può non imporre il suo diktat politico, cominciando in primo luogo dalle retrovie deboli d’Europa – altrimenti, la macchina unitaria si dissolverebbe e il retroterra delle sue esportazioni, della sua bilancia commerciale e della sua bilancia dei pagamenti andrebbe alla malora.

 

La Germania possiede nelle sue banche e tramite la Bce i bilanci delle piccole entità nazionali aggregate ad essa. Con la riunificazione, ha subito un decennio di crisi, ha dovuto integrare un’intera economica, ha dovuto garantire ammortizzatori, disoccupati dell’est, pensioni. Ma una cosa è integrare in forma politica centralizzata (pur federale) un proprio territorio storico sottoponendolo ad uno stesso diktat, altra cosa è cercare di integrare borghesie che non hanno una stessa storia, una stessa struttura sindacale di controllo che esalti la produttività, deprima i salari, garantisca profitti e rendite. E tuttavia, con questa esperienza alle spalle, la borghesia tedesca non ha capito (perché non poteva capire) che i piccoli partner stavano entrando in stato di bancarotta reale e presentavano conti fasulli. Avrebbe mai potuto comprendere che questa crisi, presentatasi come crisi finanziaria immobiliare, si sarebbe trasformata in crisi dei fondi sovrani, sottoposta alla dinamica anarchica e selvaggia delle istituzioni finanziarie, di gestori e manager, di banche di investimenti? Avrebbe mai potuto afferrare il senso politico di un capitalismo d’assalto, pronto a devastare ogni ostacolo sul proprio passaggio? No, non avrebbe mai potuto farlo. La paura di dover subire ora l’assalto ai suoi sportelli come fosse un bancomat, la beota tranquillità dei partner d’Europa, il massiccio assedio dei prossimi richiedenti assistenza, ponevano all’ordine del giorno la rude franchezza di chi è nelle condizioni politiche ed economiche di potersi svincolare da petulanti insistenze.

 

Scriveva Marx nel Capitale: “Sovrapproduzione di capitale non significa mai altro che sovrapproduzione di mezzi di produzione – mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza in grado di funzionare come capitale, cioè d’essere utilizzati per sfruttare il lavoro a un dato grado di sfruttamento, poiché la discesa di questo grado di sfruttamento al di sotto di un certo punto provoca perturbazioni e ristagni nel processo di produzione capitalistico, crisi, distruzione di capitale” [8].

 

Questo grado di sfruttamento garantisce sempre la continuità e può determinare le decisioni di una borghesia che abbia memoria storica e la cui macchina capitalistica non sia stata mai messa ad arrugginire. Al contrario, la responsabilità, per gli economisti borghesi che gestiscono la spazzatura finanziaria, risalirebbe al basso costo del denaro inaugurato dal presidente della Fed, Greenspan, che ha facilitato l’emissione dei mutui a basso tasso di interesse. Per una borghesia che ha ricevuto il battesimo nelle mani della socialdemocrazia tedesca (dei Kautsky, degli Hilferding, dei Böhm-Bawerk), la crisi finanziaria è solo una manifestazione secondaria della crisi economica reale, che si accompagna alla caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Per i signori della finanza, invece, mediante le cartolarizzazioni, le banche avrebbero erogato prestiti senza valutare la solvibilità dei mutuatari. Dal 2000 al 2004, i tassi percorrono in discesa fino all’1% le “montagne russe”: i prestiti garantiti dai colossi del credito Fannie Mae e Freddie Mac raggiungono l’immensa cifra di 5,3 mila miliardi di dollari, poi improvvisamente i tassi si innalzano fin quasi al 6% fino al 2007. Esplodono i mutui per la casa, le insolvenze ne fanno tremare i sostegni e i tiranti. I prezzi delle case franano,  le rate diventano troppo alte, aumentano i pignoramenti. Nessuno riesce a recuperare la somma concessa. La crisi dei mutui subprime, quelli ad alto rischio diffusisi in ogni angolo del mondo attraverso le cartolarizzazioni, li trasforma in carta straccia di nessun valore, depositata in moltissime banche. La crisi si diffonde in tutto il sistema finanziario e monetario mondiale. Per la borghesia, gli eventi sono monetari e finanziari, e solo attraverso aggiustamenti finanziari e la normalizzazione delle regole è possibile che il bestione capitalista si rialzi.

 

La Germania è coinvolta, le sue banche sono scosse, ma la struttura portante del capitale, la macchina industriale, resiste: il 30% del suo Pil dipende dall’industria. Esportazioni per 1327 miliardi di dollari contro 1058 miliardi di importazioni danno una bilancia attiva per quasi 269 miliardi di dollari, di fronte a una bilancia in passivo di 800 miliardi di dollari degli Usa, a 92 miliardi di attivo della bilancia giapponese e 262 miliardi di attivo della Cina. E, dopo quella prima bolla, una seconda di più ampia portata di quella dei mutui si sta abbattendo sulle insolvenze statali.

 

Così spiegava Marx in un articolo del maggio-ottobre 1850, sulla Neue Rheinische Zeitung: “La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione” [9].

 

Gli effetti globali della crisi di sovrapproduzione reale sono davanti ai nostri occhi: caduta della produzione industriale e del prodotto interno lordo, chiusura di aziende, fabbriche, unità commerciali e loro svendita sul mercato mondiale, aumento della disoccupazione operaia, caduta in negativo dei tassi di inflazione, diminuzione drastica del credito soprattutto alle imprese, licenziamenti e aumento degli ammortizzatori sociali, rapido innalzamento del debito pubblico in assoluto e in rapporto al Pil, prima nel suo processo precrisi e poi per salvare le banche dal fallimento, aumento del deficit sul Pil, crisi del commercio mondiale, fuga di capitali verso le aree asiatiche ad alto saggio di accumulazione e bassi salari, delocalizzazioni di imprese attratti dagli alti saggi di profitto in Asia, ripresa in crescendo di fusioni di imprese industriali (auto) e bancarie alimentate dai bassi prezzi delle acquisizioni...

 

 

Ultime: lo sciopero del 5 maggio

 

Come ci auguravamo il proletariato greco, scavalcando spontaneamente ogni tentativo di frenare la lotta, si è spinto oltre la contestazione democratica e legalitaria. Migliaia e migliaia di lavoratori pubblici e privati sono scesi per le strade sia ad Atene che a Salonicco, ma tutta la Grecia è stata attraversata dalla stessa rabbia. Piazza Syntagma massicciamente controllata dalla polizia in tenuta antisommossa a difesa del Parlamento è stata teatro di violenti scontri. La massiccia presenza delle forze dell’Ordine non è riuscita a frenare lo slancio, che si è spinto fin sotto il Palazzo del Parlamento dove si deciderà il piano di lacrime e sangue per i proletari. Contro i cosiddetti “rappresentanti del popolo”, ovvero contro la democrazia, le masse dei lavoratori hanno lanciato le grida di “ Ladri! Ladri!, “Bruciamo il Parlamento-bordello!”[10]. Sotto accusa entrambi i governi, di destra e “di sinistra”, le banche, le istituzioni finanziarie internazionali, la Germania. La violenza con cui i lavoratori greci hanno accettato lo scontro con le forze dell’ordine (pietre, bottiglie, bastoni contro gas lacrimogeni e granate stordenti) è il segno che la situazione ha preso una direzione imprevista che cambierà il volto della società greca dei prossimi anni: dunque, non solo le organizzazioni sindacali e le rappresentanze economiche di base, ma soprattutto i partiti d’opposizione parlamentari e i gruppi extraparlamentari dovranno fare i conti con la nuova realtà venuta allo scoperto dopo anni di reclusione sociale. Per quanto si aspettasse una manifestazione molto tesa, la borghesia greca è rimasta scossa da una tale determinazione spontanea: credeva in un ennesimo capitolo dell’opportunismo, nelle sue varianti immediatiste o democratiche – e in parte esso ha avuto la stessa regia, poiché mai è venuto a nudo il cuore irriformabile del problema, la realtà capitalista. Ma qualcosa non è andato nel verso previsto: la paura dello scontro fisico non ha dominato la rabbia e lo sciopero è uscito dai cardini della lotta economica in difesa delle condizioni di vita e di lavoro, perché troppo alto è il livello dell’attacco, e ha assunto un carattere politico che tuttavia nessun partito politico istituzionale può gestire, dal momento che non esistono alternative riformiste, compromessi possibili e credibili in una tale situazione.

 

I nazionalcomunisti del Kke, ovviamente desiderosi di cavalcare una situazione così interessante, hanno una rappresentanza molto piccola nel Parlamento, così come il Syriza. Le organizzazioni sindacali del settore pubblico (Adidy) e privato (Gsee), molto vicine alle posizioni del Pasok, sono tagliate fuori  proprio da un diktat che va oltre le loro possibilità di azione, perché non consente più di ottenere come in passato i grandi e piccoli favori clientelari per mantenere l’organizzazione.   “Scioperare per chi e per che cosa, dal momento che a decidere non è un governo nazionale, ma l’Unione Europea e il Fmi?”, si domanda Il Manifesto preoccupato, agitando e mescolando ad arte tutto il marciume esistente per dimostrare che non c’è via d’uscita, levando gli scudi a difesa dello Stato borghese “a governo socialista”, prendendosela con la corruzione generale... che dovrà finire. La morte dei tre lavoratori di banca costretti a lavorare in un momento di così forte tensione sociale mostra le illusioni di pace sociale e di controrivoluzione che ancora gravano sulla scena storica. Ma duri a morire sono l’immediatismo, lo spontaneismo, la lotta senza un piano d’azione, il caos per il caos – tutte carte vincenti per la ripresa del controllo sociale da parte dell’opportunismo in tutte le sue varianti, e quindi dalla borghesia. La guerriglia urbana e la distruzione dei simboli del potere – banche, bancomat, vetrine di negozi, auto –  al margine e mai al centro reale della lotta, hanno fatto da corollario (vecchia rappresentazione che non sposta politicamente nulla) alla manifestazione di forza che i lavoratori hanno inscenato.

 

 

In guerra come in guerra

 

Non esiste altra possibilità per il proletariato greco di uscire dalla trappola sociale in cui è stato sprofondato che dichiarare la sua guerra di classe. Per questo, però, ha bisogno che il fronte proletario si ricompatti il più largamente possibile, in modo da affrontare a viso aperto la borghesia. Soprattutto, deve comprendere che senza la guida del suo Stato Maggiore, del partito comunista rivoluzionario, non c’è soluzione. Si tratta dell’inizio della più vasta operazione di guerra condotta contro il proletariato: Atene rappresenta con la crisi l’inizio di un attacco che si estenderà su tutta l’Europa. Dai fatti, capisca il proletariato che tutta la lotteria finanziaria, della borsa, del credito, dei titoli, è una pura finzione (la spazzatura resta spazzatura!): quel che si chiede alla classe oppressa, da sempre, è che continui a essere classe oppressa, che si rimetta a lavorare con più lena in modo che lo sfruttamento della forza-lavoro continui a sfornare, con lacrime e sangue, ancora e ancora interessi, rendite, profitti, ricchezza reale  Si tratta di un programma di guerra, di riduzione alla fame di milioni di lavoratori. Lacrime e sangue promette la borghesia, e lacrime e sangue saranno.  Di dittatura reale sui lavoratori si tratta, non di un processo alla nazione greca (cane non mangia cane), alla sua classe dirigente, agli speculatori (balle!): è un esempio per il futuro, una decimazione preventiva.

 

Un processo di riduzione del deficit greco di tale portata nel tempo è impossibile: nessuna struttura economica nazionale potrebbe adempierlo. Saranno gli operai a pagare i debiti della borghesia greca, non c’è alcun dubbio. Si badi bene: dietro questo atto di polizia verrà nuovamente agitato e rispolverato il vecchio materiale di propaganda dell’opportunismo, il “fronte popolare”, “tutti nella stessa barca”, che non mancherà  di richiedere il dovere patriottico di salvare il paese dalla crisi, lanciando slogan “contro gli affamatori tedeschi del popolo”, alimentando il nazionalismo, e aggravando la condizione dei proletari: che non hanno nulla da perdere al di fuori delle loro catene,  che non hanno nulla da condividere con la “nazione greca”, a cui nulla devono.

 

Se il proletariato greco non impugnerà le armi della propria indipendenza di classe, e se i proletari del resto d’Europa non si uniranno a esso, l’ordine, la pacificazione dei cimiteri, regneranno ad Atene come fatto esemplare, e nelle piazze d’armi non saranno solo i colonnelli greci, ma anche le truppe democratiche della Bce, del Fmi, delle Banche internazionali (cioè della borghesia), a farlo sprofondare nel baratro.



 

[1] I dati che seguono sono tratti da Il mondo in cifre 2010, pubblicato nella serie “I libri di Internazionale”.

[2] Non discuteremo i dati, alcuni dei quali sono vere e proprie mascherature della realtà. Solo un confronto relativo fra i diversi paesi alle stesse condizioni empirico-statistiche ci permetterebbe di avere qualche valutazione e utilizzare “talvolta” questi dati, ma metterli in relazione con la realtà, meno che mai con i parametri di Marx, sarebbe tempo perso. L’economia borghese non ha nulla a che vedere con la profondità delle scienze naturali, matematiche, fisiche, vanto della borghesia dei tempi d’oro: essa è incapace di leggere la società presente, e perciò è per sua natura controrivoluzionaria. Alcune considerazioni critiche sulle modalità di calcolo del Prodotto interno lordo, ad esempio, sono utili per comprendere le bestialità di molti assunti chiamati “dati” (vedi Luciano Gallino, Con i soldi degli altri,  Einaudi).

[3] Cfr. Il Sole-24 ore, 1/5/2010.

[4] La Turchia, concorrente diretta, è una nuova forza economica, anch’essa in crisi e con una vasta popolazione: è il lato sud della Nato verso il Medioriente, un’area di transito commerciale e militare verso i paesi dell’Est Europa e la stessa Russia, attraverso i Dardanelli e il Bosforo, tradizionale percorso di guerra di tutti i conflitti mondiali.

[5] “Notiamo che solo chi è in cerca di un lavoro è considerato disoccupato, coloro che invece non lavorano, ma non stanno cercando un lavoro, sono considerati fuori dalla forza lavoro. Quando la disoccupazione è alta, alcune delle persone senza un lavoro smettono di cercarne uno e quindi non sono più considerate disoccupate. Queste persone prendono il nome di lavoratori scoraggiati. Se tutti i lavoratori senza un lavoro rinunciassero a cercarne uno, il tasso di disoccupazione sarebbe uguale a zero”. Olivier Branchard, Macroeconomia, Il Mulino, pag.46.

[6] Cfr. Il sole- 24 ore, 30/4.

[7] Cfr. J. Halevi su Il Manifesto, 24/4.

[8] K. Marx, Il Capitale, Libro III, Cap. XV, UTET, p.327.

[9] In Marx-Engels, Opere complete, Vol.10, p.501.

[10] Da Il Manifesto del 6 maggio.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2010)

 

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