IERI
Mezzo giornale ingiallito di mezzo secolo: Il Mattino del 30 giugno 1901.
La colonna degli scioperanti, proveniente dalla strada di Berra, volge a destra per imboccare il ponte. A venti passi si ferma. Il tenente fa suonare i tre squilli.
– Domando la parola!
Il tenente Di Benedetto dice di essere stato nella piena coscienza di sé medesimo quando ha fatto fuoco.
Il corrispondente afferma che il cadavere di Desvò caduto al di qua del ponte fu trascinato dai soldati fino a mezzo ponte, d'ordine del tenente. Egli avrebbe voluto così dimostrare che il Desvò aveva violentato il cordone.
Il tenente infuriato rispose:
Eco violenta alla Camera. Bissolati e Ferri insorgono, Giolitti arido e incolore spiega senza dar presa. Ponza di San Martino, Ministro alla Guerra reagisce, insulta l'estrema, poi si ritira, gli ufficiali lasciano la tribuna. Duello tra Ponza e Bissolati o Ferri? Bissolati ha gridato: «Questa lezione terribile esce dai fatti per le classi proletarie, che certe conquiste non si possono ottenere che col mezzo del sangue! (Altissimi rumori)». Quel Bissolati stesso espulso poi nel '12 per monarchismo e possibilismo, patriota e volontario nel '15, social-pacifista e collaborazionista di classe fino alla morte!
Sciatta la forma, è però notevole il contenuto delle dichiarazioni di Giolitti. Nel Ferrarese, per ragioni di bonifica, prevale ancora il latifondo, i salari dei lavoratori agricoli sono insufficienti. Tuttavia i proprietari locali hanno concesso aumenti, rifiutati dalla sola grande Società delle Bonifiche ferraresi, con capitali bancari torinesi, la quale ha cercato di far venire operai in concorrenza dal Piemonte. Il Governo riconosce il legale diritto alla Società di così procedere, pure avendo fatto dei passi verso la stessa pregandola di rinunziare al suo piano dato anche che gli operai piemontesi le costano più di quello che costerebbero i locali concedendo gli aumenti.
Tuttavia, poiché i dimostranti tentavano l'assalto alla tenuta della Società, il Governo ha dovuto tutelare la libertà di lavoro e l'ordine, avvalendosi a buon diritto delle armi.
OGGI
Nei cinquant'anni trascorsi partiti borghesi e partiti che si dicono proletari hanno preteso di dedicare lungo studio ai problemi sociali della terra, ma non deve pensarsi che la impostazione del problema abbia avanzato dalla cristallina chiarezza con cui esso si pone da decenni e decenni, in termini di lotta di classe tra imprenditori capitalisti e lavoratori salariati. Alla gestione e al possesso del latifondo ferrarese non troviamo i leggendari signori feudali, i baroni dal piglio medioevale citati in tutte le chiacchiere a proposito dell'arretratezza sociale dell'agricoltura in Italia.
La grandiosa opera di bonifica è stata attuata rovesciando nella terra ingenti capitali di intrapresa, sottoscritti da azionisti persino svizzeri, ed il più intransigente, fra i datori di lavoro, è l'Istituto torinese, il quale organizza sistematicamente il crumiraggio.
Passeranno anni e anni, le forze dello Stato democratico capitalista seguiteranno ininterrottamente a disperdere col piombo l'insorgere dei lavoratori agricoli del Nord e del Sud, e si seguiterà a ripetere che questo non accadrebbe ove il regime italiano, oltre ad essere di perfetta democrazia politica, raggiungesse sul terreno economico un compiuto sviluppo capitalistico.
Proprio a Torino una deviata scuola dei partiti proletari dipingerà tutto un quadro dell'antitesi tra un'Italia arretrata agraria e una Italia moderna degli imprenditori e degli industriali borghesi, e al sorgere del fascismo passerà a piangere sulla fine della democrazia giolittiana mitragliante contadini ed operai, descrivendo quello come espressione politica delle forze sociali dell'agraria in contrapposto a quelle della borghesia industriale.
Tale tendenza si svolgerà fino al fronte generale di collaborazione nazionale non solo con i partiti della borghesia moderna, ma con gli stessi agrari e con le correnti clericali, nel periodo successivo alla sconfitta di guerra dei fascisti.
Tutti i centri grandi e piccoli d'Italia sono pieni di lapidi che ricordano i nomi dei disgraziati trascinati al macello in tutte le battaglie egualmente criminali dell'Isonzo o del Don e caduti lanciando l'ultima imprecazione contro il regime di militarismo sanguinario ed impotente della patria borghesia.
Ricorda qualcuno, dopo cinquant'anni, i nomi dei massacrati di Berra, cui dovrebbe seguire l'interminabile elenco dei caduti nei periodici eccidi che si contano a centinaia, soprattutto prima del ventennio fascista?
Calisto Desvò, di cui poco importa il nome all'anagrafe, è il tipo dei mille e mille capilega aventi per solo stipendio il mezzo litro davanti al quale alla sera, nell'osteria del paese, spiegavano le tesi marxiste con rigore teoretico se non totale, certo di mille cubiti superiore a quello delle odierne accademie moscovite.
L'ingenuo resocontista dell'Avanti! del tempo era probabilmente uno studentello della città vicina cui non era pagato, oltre il biglietto di terza classe, il quotidiano pacchetto di sigarette da sei soldi. Ma egli seppe raccogliere il grido del lavoratore, che battendosi forse per cinquanta centesimi di aumento salariale volle, cadendo, gridare la vittoria del socialismo.
Oggi capi e gerarchetti irridono cinicamente alle conquiste supreme; mandano tuttavia egualmente i proletari al massacro, ma solo per realizzare i fini corrispondenti ai loro bassi servizi di parte.
Se la rossa vallata padana, il «dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina» non è ancora il cuore di una repubblica proletaria, la causa sta, tra le forze dell'imperialismo capitalista, sovrattutto in quelle organizzate in forma di partiti socialisti e comunisti, da quando si osò chiamare movimento socialista e comunista quello che difende interessi ed istituti nazionali, militari e popolari, ossia anticlassisti.