Quando si discute di proletariato, di lotta di classe, o per farla breve di marxismo 90 e più volte su 100 l'interlocutore ribatte prontissimo, con l'aria soddisfatta di chi è sicuro di dire cose fin troppo banali, che siamo nell'era post-industriale, nell'epoca del computer, che tende ad eliminare l'operaio: ne segue che la teoria marxista non ha più alcun fondamento (come del resto tutte le “teorie”). Tutto preso dalla «nuova realtà”, egli non immagina neppur lontanamente di dire cose stravecchie, risultato di teorizzazioni tipiche di chi si ferma nella sua analisi a ciò che appare sotto i propri occhi e non sa vedere al di la del proprio naso.
Per dimostrarlo basterebbe richiamare alla memoria le polemiche degli ultimi decenni, contrassegnate da una continua, insistente campagna sulla fine del marxismo. Il fatto però che si senta tuttora il bisogno di mostrare il suo fallimento dovrebbe se non altro rendere meno trionfalistico il sorriso dell'interlocutore di cui sopra. Infatti, pur essendo trascorsi vari anni da quando si è iniziato a parlare di società post-industriale, i conflitti sociali non sono stati per nulla eliminati e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo non si è per nulla attutito, salvo per coloro che guardano la realtà con occhiali scopertamente “idelogici”. Perché la battaglia (non si tratta infatti di sola polemica) contro i cardini della teoria marxista è ideologica proprio nel momento in cui predica la fine delle ideologie, anche se, come tutte le ideologie, non è astratta: ha un supporto materiale.

 

L'ideologia della «nuova tecnologia” - ecco la parola chiave, ecco la realtà che avrebbe relegate in soffitta la visione marxista del mondo contemporaneo - si fonda su mutamenti reali delle forme dei processi di produzione ma, ed è importante rilevarlo prima di entrare nello "specifico", è anche un tentativo del capitate di cambiare le carte in tavola, di quel capitale che sempre si è sforzato di darsi una faccia diversa e formalmente nuova per poter lasciare inalterate le fondamenta del suo dominio, o per rafforzarle, essendo la loro conservazione essenziale alla sua sopravvivenza, è il resto, importante fin che si vuole, accessorio.
E’ difficile sfuggire oggi al «fascino» della moderna tecnologia, della robotica, dell'informatica, della telematica, ecc., a rischio magari di passare per luddisti.
Tali “infatuazioni” collettive si sono presentate con regolarità dacchè il capitale è forza dominante; anzi negli ultimi decenni hanno assunto un ritmo sempre più ravvicinato al punto che non si ha neppure l'opportunità di ragionarci sopra e nuove gia ne sopraggiungono a seppellire in fretta e furia le precedenti, contribuendo a spingere il rincoglionimento generate a tali livelli da far apparire come "rivoluzionarie novità” cose già viste e riviste, dette e ridette, per non parlare delle «autentiche rivoluzioni economiche e sociali” a cui ogni mortale assisterebbe una settimana si e una no. Abbiamo avuto in rapida successione la rivoluzione della chimica, la rivoluzione verde, la rivoluzione del transistor, quella del Ddt, quella della pillola, quella del laser ecc. Un esempio per tutti: al tempo dei primi lanci spaziali, esperti e gazzettieri di provincia riempirono volumi di carta e quintali di cervelli per convincere il pubblico che frontiere nuove e sconfinate si stavano aprendo alle conquiste umane, e quindi al benessere individuale e collettivo, salvo accorgersi poco dopo che la fetta più grossa di tanto ben di dio se l'era presa il capitale che gestisce l'industria bellica, con tutto ciò che ne derivava e ne deriva per la fiduciosa, ma dall'esistenza sempre più incerta, capoccia dell'uomo della strada. Passò un po’ di tempo, e dall'esaltazione delle prospettive della cosiddetta “colonizzazione pacifica dello spazio" si passò ad umori assai meno allegri per l'evidente uso militare dello spazio.
Non basta. Gli «esperti» dell'economia capitalista sanno benissimo che la nuova tecnologia non sarà sufficiente a eliminare le contraddizioni di questo modo di produzione, ma sanno anche che finché durerà la «fede» nella tecnologia queste stesse contraddizioni tenderanno a rimanere nascoste e il loro effetto sarà in qualche modo attutito. Potrà sembrar strano constatare come oggi, alle soglie del 2000, e con tutti i progressi compiuti nel campo della cultura, della scienza ecc. sia così diffuso il senso della crisi, sia così numeroso l'esercito di coloro che non sanno come tirare avanti, sia sempre più palpabile la sensazione che i benefici del modo di produzione esistente non reggono al paragone  con le catastrofi che lo stesso ha già provocato e può ancora provocare, e che 1'apparato politico, amministrativo, economico, insomma tutta la società, siano impestati da elementi incapaci, arroganti e ...incolti. Quante volte non abbiamo constatato che illustri «personalità» del "mondo che conta» sollecitano la speranza in qualcosa che la realtà quotidiana contraddice il giorno successivo?
Ma è proprio qui il punto! Non è rilevante se ciò che oggi si dice è in contraddizione con quanto si è detto ieri o sarà regolarmente smentito domani. L'importante è che la gente abbia sempre un feticcio - un nuovo feticcio - a cui credere. La scienza e la tecnologia assolvono, per numerosi aspetti, questa funzione.
Del resto è anche noto che più incomprensibili alle masse sono i linguaggi, più sono inspiegabili i fatti o i sistemi di funzionamento di qualcosa, e più credibile essa diventa al gran pubblico. Il bisogno di superstizione, fatto materiale ben noto al marxismo, è la molla per lo sviluppo della moderna religione che sostiene essere la tecnologia l'elemento risolutore delle miserie della situazione attuale.
(Detto per inciso, non è che i marxisti ritengano impossibile superare certi limiti con l'aiuto delle tecnologie moderne. Con esse si possono certamente evitare numerosi ostacoli al raggiungimento di una vita degna d'essere vissuta. Il guaio è che, nella società capitalistica, l'uso di queste tecnologie trova un limite "fissato dal coefficiente teorico di massimo rendimento", come direbbe un imprenditore qualsiasi!)

 

L’ ÈRA DEL CALCOLATORE 

Nella «epoca tecnologica», i prodotti-simbolo (televisione, automobile...) si succedono con frequenza, e quella attuale può essere definita l'èra del calcolatore. Contrariamente ai prodotti delle epoche passate, è indubitabile che il computer è destinato a lasciare tracce particolarmente profonde e va quindi visto con maggiore attenzione: lascia dietro di sè dei segni laceranti (basti pensare all'ecatombe dei posti di lavoro), e si inserisce in una situazione di crisi economica.
Non è l'informatica in sè a determinare o caratterizzare l'epoca attuale; è la dinamica economica e sociale ad esaltarne la funzione.
E’ noto infatti che l'idea del computer, ivi comprese le prime sue realizzazioni, risale a un centinaio di anni fa, solo che allora non v'era la necessità economica di renderlo tecnologicamente produttivo. Oggi, mentre tutti tendono a restringere la base produttiva per meglio competere a livello internazionale, oggi che in questa corsa alla sopravvivenza economica è favorito chi dispone di bassa intensità di lavoro, oggi che tutti sono costretti a fare i conti con la caduta tendenziale del saggio di profitto (ma non era finita tra i ferri vecchi, questa «teoria» marxista che condanna il capitale e che, in particolare, vede nel progresso tecnico un palliativo al progressivo declino del sistema, visto che suo unico scopo è quello di far risparmiare manodopera, cosa che la realtà economica, anche contemporanea, ha sempre confermato?), oggi il computer può trionfare anche se, ma lo vedremo successivamente, non potrà mai risolvere la crisi che ha colpito il sistema di produzione vigente.
Non è tanto il computer, dunque, che sta cambiando il mondo, ma è la crisi capitalistica che lo chiama in suo aiuto. Certo, e questo i marxisti devono tenerlo ben presente, i licenziati penseranno alla loro disgraziata condizione come a un risultato non del sistema capitalistico ma dell'applicazione della moderna tecnologia, così come il povero automobilista non può più prendersela con il vigile che gli contesta un eccesso di velocità perchè l'apparecchio che attesta l'infrazione è “al di sopra delle parti", non si può contestare quand'anche desse i numeri! Non rimane che credere ciecamente e star zitti, salvo poi sfogare la rabbia fra le pareti domestiche. Parafrasando una frase spesso citata a proposito di economia, diremo che il computer non è neutro, o meglio «è neutro come un fucile". Serve chi sa servirsene!
Il computer è figlio di questa societa anche per un'altra ragione. L'informatica, come strumento «totalitario», non è l'invenzione di chissà quale cervello, ma il risultato dei tempi moderni, o meglio, trova ossigeno e alimento in una società fondamentalmente totalitaria che vive e si sviluppa sulla base del principio che tutto ciò che non rientra nell'ambito di determinate strutture, di ben precisi schemi, non serve, anzi disturba. E’ la logica del computer.
La tecnologia del computer, dell'informazione, delle comunicazioni, della microelettronica, non scende dal cielo, come è ovvio, ma è frutto di una cultura e di una ben determinata realtà economica e sociale. Ecco perché va condannata subito la reazione di chi attribuisce alla tecnologia qualità e capacità alienanti e disumane, anche se è indubbio che, nella società dell'informatica, il computer tende a ridurre l'uomo a macchina, favorisce un livello culturale standard, crea ceti privilegiati e quindi nuovi emarginati; va condannata perché si ferma a guardare lo "strumento", il «fucile» senza badare a chi se ne serve creando così, alla fine, l'illusione che basti cambiare il tipo di «strumento», o le sue qualità, perche tutto cambi. 

TRIONFO DEL BRAMBILLA O DEL GRANDE CAPITALE? 

La moderna tecnologia dell'informatica è certo un'innovazione, nel senso che non si può misconoscere che è una forma del progresso capitalistico nuova.
E’ infatti evidente che i sistemi elettronici hanno un preciso ed efficace ruolo nel processo di accumulazione del capitale, anzi comportano qualcosa di più, perché la loro diffusione generalizzata permette anche un'accumulazione del sapere e del potere.
Strumento nuovo, si è detto. E a che serve? La risposta è ovvia: a estorcere plusvalore. Ma, e questo non è irrilevante, anche se può essere secondario, ha pure, un "secondo fine", quello di permettere un passaggio dal controllo del lavoro a quello della comunicazione.
Alla base di questo processo tecnologico stanno quindi due direzioni di spinta: a) innovazione dei processi produttivi, cioè del processo che porta alla creazione di merci, insomma il processo lavorativo; b) controllo complessivo del processo della produzione intesa come produttività a larga scala; non solo dunque controllo del lavoro produttivo ma anche controllo del commercio inteso non riduttivamente come scambio, ma estensivamente come gestione e controllo dello scambio considerato nella sua tonalità. "Non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo, siano identici, ma [...] essi rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, delle differenze nell'ambito di una unità", per diria con Marx (Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, ediz. La Nuova Italia, pag. 25).
E’ evidente che quanto più si allarga il processo produttivo, tanto più è importante per il capitale il controllo a larga scala. Su questa esigenza di un controllo complessivo e quindi di una «pianificazione" torneremo in un successive articolo. Qui ci limitiamo ad anticipare come si tratti di tentativi oggettivamente destinati a frantumarsi contro i limiti dello stesso modo di produzione che dovrebbero regolare (accumulazione, concorrenza, ecc.).
Queste forme non sono dunque nuovo capitalismo, ma un nuovo modo di far fronte alle sue difficoltà e quindi anche di presentarsi; un abito nuovo!
Dato per scontato che sotto l'abito poco è cambiato, va aggiunto però che anche l'abito ha la sua importanza, e che bisogna fare i conti anche con esso. Questa battaglia (i conti) va fatta, non la si può disertare con la scusa che a noi non interessa l'aspetto "formale", "ideologico" delle cose (visto cioè che l'informatica non cambia la sostanza dell'estorsione di plusvalore). Va fatta perche l'informatica tende ad accreditare presunti contenuti diversi e storicamente innovativi del capitale, o sue capacità di rinnovarsi, di rimarginare le sue ferite, di superare le sue contraddizioni. A livello di pubblicistica, questo tentativo è insistente, ossessivo e sfacciato: si mira ad una «rifondazione ideologica».
Un esempio fra i tanti: «Le piccole e medie imprese negli anni 70 hanno rappresentato anche una risposta alla crisi, si sono dimostrate in grado di affrontare anche il dopo-crisi e non si sono limitate a coprire solo settori marginali del mercato [...] La cultura della rigidità è diventata un ostacolo serio in tempo di rivoluzione tecnologica [...] Una via da seguire sembra essere quella del decentramento [...] In questa dimensione possono riacquistare un senso diverse ipotesi anche di 'democrazia economica', di partecipazione dei lavoratori, di controllo del mercato del lavoro", per cui diventa necessario "rilanciare un progetto che dia una meta collettiva alla rivoluzione tecnologica e delinei nuove frontiere del benessere e dello sviluppo» (Unita, 2 dic. 1984, in un articolo che fin dal titolo è tutto un programma... capitalista: "L'impresa alla riscossa").
Senza insistere con altre citazioni, richiamiamo uno degli slogan che accompagnano tutto questo cancan pubblicitario: "piccolo è bello".
Le nuove tecnologie permettono trasformazioni funzionali all'esaltazione dell'iniziativa individuate, al risorgere del mito del liberalismo, ecc. Senonché, oggi come ieri, piccolo è bello perché ... è piccolo!
La piccola impresa, l'impresa a carattere familiare è competitiva, è sana, ha un aspetto apparentemente più «umano» appunto perché è piccola, ma se fosse sola invece d'essere - come è - un'appendice della grande, non sarebbe in grado di far girare un bel niente.
Le nuove tecnologie permettono il fiorire di nuovi mestieri, di nuove attività economiche, e stimolano il sorgere della «fabbrica casalinga", solo perché la grande impresa preferisce delegare alla piccola tutta una serie di funzioni che per essa rappresentano un inutile fardello, un intralcio e un costo economico di cui volentieri si libera [1].
Perché il mercato giri è la grande fabbrica che deve intervenire. Le periferie hanno senso se c'è un centro, un'«anima» cui riferirsi. Nessuna piccola azienda può fare autonomamente ciò che solo la grande è in grado di condurre a termine e che è, in definitiva, la stessa condizione della sua esistenza. La dispersione non può quindi che rafforzare la concentrazione; in più, le dà nuova credibilità sotto l'aspetto ideologico («la novità degli anni 70», «le nuove frontiere» ecc. di cui sopra).
Questa ideologia però si nutre di tutta una serie di piccole realtà. Una in particolare è interessante: quella del "focolare telematico" (come è stato definito il lavoro che si può anche eseguire a casa usando il televisore come terminale), e va seguita attentamente non solo perchè può rilanciare i valori della famiglia, l'illusione che si possa lavorare senza essere e sentirsi sfruttati stando comodamente in pantofole ecc., ma soprattutto perchè comporta una riduzione delle interazioni sociali. Certo, questo è un aspetto specifico ed estremo dei processi economico-sociali legati all'informatica, ma fa parte dello stesso universo, conseguenza dello sviluppo delle tecnologie avanzate, che «atomizza» gli elementi della classe. Atomizzazione che tende anche in fabbrica ad isolare operaio da operaio, creando differenze che rendono difficile organizzare la classe a tutto vantaggio dell'ordine e del controllo capitalistico ponendo l'indubbio problema di demolire questa ulteriore divisione all'interno della classe, anche se non per ciò ignoriamo che nei nuovi processi produttivi la "socializzazione" del lavoro [2] non decade, solo che si pone su un terreno diverso dal passato, sia pur rendendone più ampie e vigorose le condizioni.
Infatti il computer come prodotto è bensì frutto della socializzazione e lo stesso «operatore» acquista significato solo in un processo complessivo, ma le condizioni soggettive del lavoro tendono a nasconderne le condizioni oggettive. Del resto, fino a che punto tale rapporto di «isole» di lavoro può estendersi? Certamente non crolla la «vecchia» fabbrica, lo sappiamo bene, ma il problema c'è, ed ha una sua rilevanza ai fini dell'organizzazione di classe appunto per questa mistificazione.
A chi blatera di «democrazia economica», di «decentramento», di «imprenditorialità diffusa», di... "Brambilla a lungo dileggiati» (sempre la succitata Unità) va risposto che in realta egli si limita nella sua analisi all'aspetto formale immediato, appariscente, del fenomeno. I cantori delle presunte novità non si accorgono, per esempio, dell'enorme ruolo che lo Stato ha avuto in questo processo.
La microelettronica e l'informatica sono essenzialmente tecnologie di guerra; e, come sempre, hanno un effetto di «ricaduta» nel settore civile, nel senso che tutte le scoperte fatte dai militari diventano in brevissimo tempo obsolete, quindi vengono «passate» ai civili. Di qui l'insostituibile presenza dello Stato. E’ lo Stato che finanzia (è inutile snocciolare cifre la cui consistenza è alla portata dell'immaginazione di tutti) la ricerca militare. Non solo, ma deve finanziare anche il successivo utilizzo civile della stessa.
E’ noto infatti che l'impegno produttivo di queste tecnologie comporta forti investimenti e... mercati di sbocco, mercati che oggi più che mai sono controllati da un numero tutto sommato ristretto di «venditori» che, per non farselo sfuggire di mano, hanno bisogno di numerosi strumenti, informazioni ecc., del computer insomma, e dello Stato. Altro che piccola impresa![3]
Assistiamo tutti i giorni ad una corsa, anzi «gara» affannosa per arrivare primi, per "battere l'avversario"; e come sarebbe possibile competere senza gli onerosi finanziamenti dello Stato a chi acquista nuove tecnologie?
Ecco infine l'ovvia necessità di ristrutturare i processi produttivi: quindi centralizzazione del capitale, con buona pace del neoliberismo e del Brambilla, il quale, però, sia ben chiaro, non è una figura inutile. L'ideologia del decentramento, oltre che lavorare sul piano economico, incide su quello politico in quanto tende o porta a migliorare il sistema di controllo del «centro» sulla «periferia». Fa insomma parte del tentativo di «pianificazione» di cui tratteremo in un prossimo numero.
Nessun idiotismo autonomista, dunque, anche se non possiamo non concludere con un sorriso: il crescente intervento dello Stato è all'origine della rinascita dell'ideologia liberista. E’ proprio vero: non c'e più religione!

 

[1] - «ln una situazione di crescente concorrenza interna e internazionale le multinazionali si sono orientate nel modo seguente: -Perseguimento della massima produttivita. -Centralizzazione delle attivita strategiche, in termini di capacita di orientamento (e di controllo) del mercato, relative cioè a componenti e circuiti integrati, software per la gestione operativa dei sistemi, linguaggi avanzati di programmazione, reti di trasmissione, satelliti di telecomunicazioni, banche dati. Attività che richiedono alti investimenti e su cui si sviluppa la concorrenza fra grandi imprese. -Decentramento di alcune attività ritenute non strategiche, a bassi investimenti dicapitali, su cui maggiormente si fa sentire la concorrenza delle piccole e piccolissime imprese. "Attualmente, le attività maggiormente interessate al decentramento sono: -Commercializzazione ed assistenza dei piccoli sistemi, che vengono venduti a rivenditori e concessionari i quali a loro volta li collocano sul mercato, rivendendoli agli utenti, fornendo a questi l'assistenza hardware e software e provvedendo all'addestramento del personale. In tal rnodo l'impatto della concorrenza su questa fascia di prodotti non è più sopportato direttamente dalla grande impresa, ma piuttosto da una rete di marketing indiretta, costituita da una molteplicità di piccole aziende commerciali e di servizi. -Produzione di software per applicazioni diverse dei clienti, consulenze e servizi vari. «Le grandi imprese sollecitano la crescita di questo decentramento 'amico', favorendo la fuoriuscita di dipendenti anziani e/o esperti; anche mediante incentivi di varia natura, e suggerendo la creazione di microimprese, o l'associazione in microimprese già esistenti, autonome giuridicamente ma dipendenti economicamente» (da Primo maggio, inverno '83/84, n° 19/20, sulla base di dati provenienti dal Seminario Nazionale del Coordinamento dei Cdf  del gruppo Honeywell Information System Italia, Firenze, 7-8 aprile '83).

[2] - Gli stessi economisti capitalisti, anche se evidentemente in un'ottica diversa, hanno ben presenti i problemi di «socializzazione» che le nuove tecnologie comportano: «L'operaio moderno [...] è una persona molto incline all'indipendenza, molto meno docile alla subordinazione»; inoltre, «una crescente complessità, introdotta da una produzione sempre più diversificata e sofisticata, rende necessario un flusso di informazione sempre più complesso fra dirigenti, capi reparto e operai, per rendere efficaci i rapporti di direzione e di controllo. A tale complessitià crescente di rapporti si può far fronte solo disponendo di un computer". E ancora: "La direzione aziendale vuol controllare molto attentamente quello che fa l'operaio, e questo ormai lo può fare soltanto con un computer". Il male è che, purtroppo, alcuni padroni pigliano troppo sul serio le nuove realta; ne nasce ... «sfortunatamente un grande desiderio da parte di alcuni datori di lavoro di fare addirittura a meno degli operai» (Kenneth Galbraith, Ma è davvero il computer la novità che sta cambiando il mondo? In Genius, die. '84).
 
[3] - Sulla questione intervento dello Stato - industria militare «trainante» ecc. si potrebbe obiettare: come mai il ruolo di primissimo piano del Giappone? In breve: -le tecnologie giapponesi sono anche tecnologie militari. Poco importa ai fini del nostro discorso che vengano applicate da altri. Anzi ciò è stato per lungo tempo un vantaggio, in quanto ha permesso allo Stato di destinare al perfezionamento e all'ammodernamento dell'apparato tecnologico maggiori risorse. -Non va poi dimenticato che se è vero che il Giappone non è ancora una grande potenza militare è altrettanto indubitabile che «la borghesia giapponese trovava, nell'aprirsi della guerra fredda, una chance insperata di rinascita, sia dal punto di vista economico che da quello politico: da un lato poteva far ripartire di gran carriera l'industria grazie alle commesse di guerra, agli 'aiuti' e alle divise in dollari (fornite dagli Usa e dal complesso apparato militare dislocate in territorio nipponico ai fini bellici); dall'altro poteva 'riabilitarsi' politicamente e strappare un certo margine di autonomia appoggiando il potere 'alleato'» (da Programma Comunista, n° 3/1980). Infatti, gli Usa premono da tempo e con successo, affinché il Giappone pensi alla sua «difesa» armandosi. Questa esigenza, questa necessità degli Usa, è pressante anche nei confronti degli altri alleati, visti i quotidiani appelli per l'aumento delle loro spese militari. La congiuntura economica attuale non permette agli americani di continuare a concedersi il lusso di farsi i difensori di tutti: tutti devono contribuire alle «spese» orrnai divenute insostenibili visto il ritmo forsennato necessario per tener dietro alla velocità con cui il settore della microelettronica si rinnova. Tra l'altro, è questo anche un modo per mettere in difficoltà le imprese "concorrenti" e il caso del Giappone è sintomatico perché qui lo Stato «ha esteso la sua influenza sopra l'industria privata quasi più che in qualsiasi altro paese dell'Occidente", avendo potuto utilizzare in investimenti produttivi quella porzione del reddito nazionale che prima del 1945 veniva spesa in armamenti» (State capitalism, armaments and the general form of current crisis, in International Socialism, n° 19, citato in Primo Maggio, n° 19/20).
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