La critica rivoluzionaria, non lasciandosi incantare dalle apparenze di civiltà e di sereno equilibrio dell’ordine borghese, aveva da tempo stabilito che anche nella più democratica repubblica lo stato politico costituisce il comitato di interessi della classe dominante, sgominando in modo decisivo le rappresentazioni imbecilli secondo cui, da quando il vecchio stato feudale clericale e autocratico fu distrutto, sarebbe sorta, grazie alla democrazia elettiva, una forma di stato nella quale a ugual diritto sono rappresentati e tutelati tutti i componenti la società qualunque ne sia la condizione economica. Lo stato politico, anche e soprattutto quello rappresentativo e parlamentare, costituisce una attrezzatura di oppressione. Esso può ben paragonarsi al serbatoio delle energie di dominio della classe economica privilegiata, adatto a custodirle allo stato potenziale nelle situazioni in cui la rivolta sociale non tende ad esplodere, ma adatto soprattutto a scatenarle sotto forma di repressione di polizia e di violenza sanguinosa non appena dal sottosuolo sociale si levino i fremiti rivoluzionari.
Tale è il senso delle classiche analisi di Marx e di Engels sui rapporti tra società e stato, ossia tra classi sociali e stato, e tutti i tentativi di scuotere questo cardine della dottrina di classe del proletariato furono schiacciati nel ripristino dei valori rivoluzionari realizzato da Lenin, da Trotzki e dalla Internazionale Comunista subito dopo la prima guerra mondiale.
Da “Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe” (1946-48), ora in Partito e classe, Edizioni Il programma comunista