Il 6 settembre, durante lo sciopero “generale e generalizzato” (?) di otto ore, indetto dalla Cgil e dalle corporazioni di base Usb e consoci, è apparsa in piena luce, dietro la crisi economica di sovrapproduzione, la crisi politica e sociale. Chi ricorda più la propaganda fascista, nazista, stalinista, e il New Deal contro i ceti parassiti, le oligarchie finanziarie, le demoplutocrazie straniere, additate come nemici, responsabili dello stato di miseria in patria? Chi ricorda l’esaltazione dello Stato, il nazionalismo imperante contro la speculazione finanziaria, l’attacco alle lobby ebraiche? Non fu indirizzata preventivamente la rabbia proletaria e il malcontento contro questi ceti finanziari, non fu aizzato il nazionalismo, affinché si schiudessero i fronti di guerra?

Nel più assordante silenzio i lavoratori di tutte le categorie, intruppati pacificamente, senza rabbia, hanno percorso strade, hanno riempito le piazze per svuotarle poi alla chetichella. Di che sciopero si trattava, cosa si rivendicava? Nulla di quello che potesse interessare i proletari, massacrati da attacchi durissimi alle loro condizioni di vita e di lavoro. Il gioco degli scioperi farsa, della concertazione messa in azione per deprimere, disarticolare ogni spirito di lotta, tornerà nei prossimi mesi nuovamente a fare la sua comparsa.

Le adunate delle corporazioni operaie, dirette dagli attuali sindacati, ognuna con la propria rivendicazione di settore, di categoria, in risposta alla manovra di 54 miliardi, hanno rinviato a parole il pagamento alle grandi e medie corporazioni finanziarie, assicurative, immobiliari, ministeriali. Anche la Confindustria si è messa all’opposizione per spingere gli operai dalla parte dei padroni. Non bastava la cricca di sinistra, quella giustizialista, l’esercito dei benpensanti, degli indignati, dei colorati?

Lo sciopero rivendicava aumenti di salario, diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario, contrastava i licenziamenti a catena, che si abbattono con violenza sulle vite proletarie, attaccava l’aumento dei ritmi di lavoro, aggrediva il tasso di sfruttamento, difendeva le condizioni dei lavoratori precari, dei migranti, dei pensionati, richiedendo un salario integrale? Niente di tutto questo, anzi, al contrario, il 28 giugno un vero atto di pacificazione era stato firmato (e confermato il 22 settembre) dalle organizzazioni sindacali, Cgil, Cisl, Uil, dalla Confindustria, dal Governo, in presenza delle Banche e l’avallo dei partiti di Opposizione.

Gli altri sindacati di governo e del crumiraggio organizzato, Cisl e Uil, avevano a loro volta disertato la marcetta per la semplice ragione che in “momenti di crisi così profonda, non si sciopera, si aiuta il Governo in carica, non si combatte”. Non si era firmato un protocollo d’intesa fra le parti sociali, che evitava di prendere in considerazione tutti gli aspetti contrattuali? Sulla stessa linea del Governo dunque le vestali sindacali della Cgil, Fiom in coda, chiedevano che non soltanto i lavoratori pagassero, ma anche altri ceti “in nome dell’uguaglianza”: “la gravità della crisi di sovrapproduzione non può pesare sulle spalle dei soli lavoratori, tutti devono pagare in forma proporzionale al proprio reddito”.  Ohimè!  Se nessuna rivendicazione sindacale veniva fatta dalla Cgil, qual era la sostanza dello sciopero o della sua cosiddetta contromanovra?  

Nei primi punti (vedi Il Manifesto del 25 agosto) siamo di fronte ad una vera e propria azione suppletiva del governo. Poiché questo “non riesce a trovare il denaro”, il sindacato consiglia (su indicazioni del Governo) dove prelevarlo con forme di tassazione ad hoc. I poveri capitalisti ignoranti avevano tanto bisogno di così meditati consigli, avevano bisogno proprio della maestrina Camusso che tenesse loro una lezione di economia?  Quante illusioni seminate perché i proletari si sentissero compartecipi dello Stato, del governo, della nazione e della patria comune di fronte alla crisi e accogliessero a braccia aperte il contributo dei padroni: “Siamo sulla stessa barca, stiamo affondando, quindi anche noi dobbiamo dare il nostro contributo”, dichiarano accorati i grandi miliardari, ascoltando la lezioncina di economia. La quantità di proposte si perde nella grande palude delle chiacchiere e le Borse crollando ne danno triste notizia: la lotta all’evasione, l’imposta ordinaria sulle Grandi Ricchezze e quella straordinaria sui Grandi Immobili, il contributo di solidarietà sui redditi, l’aumento della tassa di successione, la sovrattassa straordinaria sui capitali già sanati con lo scudo fiscale, il Fondo di garanzia sulla crescita.

Conosciamo la storia di questi interventi di “pacificazione nazionale” (e di arruolamenti di guerra) prima e dopo il I conflitto mondiale, li conosciamo nel secondo dopoguerra, prima con lo smantellamento delle organizzazioni sindacali spontanee nate nel Sud, e successivamente dopo la rottura tra i sindacati patriottici, inventati dal CLN, li rivediamo ogni qualvolta una nuova crisi economica sconvolge improvvisamente come una bufera, il corso del capitalismo.

Chi si ricorda i pistolotti di Di Vittorio sulla necessità che il proletariato si mostri disciplinato in nome dello sviluppo nazionale, mentre il ministro Scelba sguinzagliava la sua Celere sugli operai, chi si ricorda di Lama di fronte alla crisi alla metà degli anni settanta, che rabbioso gridava contro la richiesta di aumenti salariali da parte degli operai, chi si ricorda del modo in cui i sindacati hanno smantellato i trenta giorni di lotta alla Fiat, aizzando coscientemente poi i famosi quarantamila crumiri? 

Nella seconda parte entriamo nel merito, quella che cancellando questo e quello, stralciando questo e quel provvedimento dalla manovra (dopo aver organizzato scioperi farsa, disciplinati, truccati, concertati, dopo aver firmato contratti di ogni specie, flessibili e tutti al ribasso da anni, dopo aver sguinzagliato in ogni fabbrica, non operai capaci di battersi, ma legulei, avvocaticchi attraverso la democratica rappresentanza sindacale) il movimento operaio, possa recuperare un terreno perduto per via di tribunali (difesa dei diritti). Il risultato: libertà di licenziamento (ma su indicazione sindacale); libertà di liberarsi dei disabili in fabbrica, libertà d’impresa (la fabbrica è mia e qui faccio i cazzi miei!), no agli scioperi (in Fiat) e via discorrendo.   

Non da meno, nello stesso giorno, lo stesso giornale riporta le rivendicazioni dell’Usb. Di che si tratta? Innanzitutto di una lista della spesa, poi di una serie di rivendicazioni, tutte compatibili e di sostegno al sistema capitalista. Non si parli di combattere economicamente le controparti con la lotta. “Conflitto di classe”? Sia mai! Si tratta solo di rivendicazioni riformiste che hanno sempre contrassegnato l’opportunismo fin dai tempi del Pci. E’ facile intuire che si tratta di un evidente appoggio a un prossimo governo di centro-sinistra e della buona volontà a venirgli in aiuto nel corso delle prossime elezioni, di cui già si prepara la nuova legge elettorale (e di cui la stessa Confindustria si fa portavoce). Invece di spingere alla lotta i proletari, come si converrebbe ad un’organizzazione sindacale, queste mosche cocchiere, che non sono mai andate oltre il piccolo sciopericchio corporativo, farneticano pensando di trascinare dietro i lavoratori, le masse dei ceti piccoli borghesi (allargando la lista dei regali) senza arte, né parte. Basta guardare dentro al pacchetto regalo per capire il servilismo nazionale: “per una politica nazionale ed europea basata sui diritti e delle aspettative dei popoli (con questa premessa la causa operaia è fottuta) ”. Statalismo e nazionalismo sono poi le stelle fisse di questi vecchi stalinisti: “per la nazionalizzazione delle banche e delle grandi imprese strategiche nazionali” (per fare concorrenza al capitale tedesco e francese?), “rilancio della produzione e dei servizi da parte dello Stato” (come sono solerti questi promotori sindacali dello sviluppo), “cancellazione del debito” (e se non ce lo cancellano, si dichiara guerra ai creditori?). “Lotta all’evasione/ elusione fiscale” (come, con le pernacchie?), “Contro la costituzione del pareggio di bilancio e del libero mercato” (qui siamo di fronte allo statalismo protezionista sotto la bandiera di Keynes). Invece di approfittare della crisi di sovrapproduzione, dei licenziamenti, dell’immiserimento sociale, prodotti del cosiddetto neoliberismo, che Marx chiamò a suo tempo vero e proprio “sistema distruttivo” e, quindi incentivo ad un attacco proletario, questi scemi si presentano come salvatori dello Stato, della borghesia e della produzione capitalistica nazionale, e insieme salvatori dei “diritti”, degli “statuti”, dei beni “comuni”, della “Costituzione”. Tutte le proposte “sociali” sono robetta stravecchia. Un gruppo di sbrindellati, il cui rapporto di forze è nullo, non ha il senso della misura. Non avendo alcun rapporto con la realtà, la mistifica con queste rivendicazioni: Diritto alla casa, Regolarizzazione dei migranti, Reddito sociale, Fine della precarietà, Diritto al lavoro stabile, Sblocco dei contratti. Con quali mezzi vorrebbero ottenere questi obbiettivi? Con gli sciopericchi, con i referendum, con le petizioni al Presidente? Ovviamente essi sanno benissimo che non c’è trippa per gatti nella situazione attuale, che ben altra forza organizzata occorrerebbe, che ben altra rottura dovrà crearsi all’interno del fronte proletario, separando la classe combattiva dei senza riserve dall’aristocrazia operaia. La riunificazione che noi auspichiamo, non è quella delle piccole corporazioni (popolari, piccolo borghesi), pronte a calarsi le brache, quella che fa da copertura, da procaccia-voti alla cosiddetta sinistra, che si trascina dietro di sé quell’aristocrazia di lavoratori nutrita a “diritti, reddito e pace sociale”. La riunificazione che intendiamo nascerà non da un confronto, da una discussione, da commissioni culturali ed elettorali, ma solo da un urto durissimo, che non lascerà alcuno spazio di conciliazione tra aristocrazia sindacale e i proletari decisi a difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro, fuori e contro ogni conciliazione interclassista.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2011

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