Nello stesso giorno, 28 dicembre 2000, il “Corriere della Sera” e la “Repubblica” andavano a gara nel levare grida di sollievo, se non addirittura di trionfo, a proposito dell’andamento globale dell’occupazione operaia in Italia: i dati Istat, riferiti all’ottobre ma resi noti solo allora, permettevano infatti di stabilire (e, ovviamente, sbandierare) che in quei mesi tale occupazione aveva toccato qui da noi il vertice dei 21 milioni e 450 mila unità, equivalenti al 2,8% in più rispetto allo stesso mese dell’anno precedente e all’1,1% in più rispetto al luglio dello stesso anno, il che significava un calo del tasso complessivo di disoccupazione dell’1,1% (dall’11,1 al 10%), grazie soprattutto all’aumento dei posti di lavoro nei campi in sé limitati dei servizi e delle costruzioni (rispettivamente +4 e +3,1%) con particolare incidenza sul lavoro femminile rispetto al lavoro maschile e giovanile.

A queste constatazioni complessivamente ottimistiche ne vanno però affiancate altre di segno anche diverso, come, per semplificare, le seguenti: a) l’aumento dell’occupazione nel suo complesso nel periodo indicato derivò in particolare dallo sviluppo dei contratti atipici (sia a termine che a tempo parziale), cui si debbono circa i tre quinti della crescita complessiva degli occupati alle dipendenze; b) nello stesso periodo si ebbe una maggiore incidenza del part-time nei campi femminile (+2,7%) e giovanile (+2%) rispetto a quello maschile (un punto percentuale in più) con particolare riferimento al Sud, così da potersi affermare che, tutto considerato, “le nuove forme del rapporto di lavoro cosiddette atipiche (come osservava giustamente “L’Unità” dell’8 giugno scorso) superino il 30% (oltre 8 milioni) dei lavoratori occupati”, finendo per costituire, come categoria, “la sommatoria di diversi rapporti di lavoro dipendente, ad esempio part-time, i contratti a termine, i contratti di apprendistato, i contratti di formazione- lavoro, i contratti di lavoro interinale”.

È questo un fenomeno che comporta ovviamente una crescente difficoltà di definire il concetto stesso di lavoro dipendente, con molteplici riflessi sulla capacità di stabilire col massimo di rigore la fisionomia reale di quest’ultimo e di trarne le necessarie conseguenze per quanto riguarda il suo peso sull’insieme dell’occupazione, specie in particolari zone come il Mezzogiorno.

Guai, però, a dimenticarsi che le cose stanno inequivocabilmente in quei termini, contribuendo in vario grado a variegare il quadro non solo dell’economia, ma della politica e della stessa sociologia dell’intero paese, il che può arricchirne e, se si vuole, potenziarne gli aspetti, visibili e non, per chi lo consideri alla stregua di un paesaggio dalle molte facce, ma ne complica e ne appesantisce i rapporti interni, ne acuisce i contrasti, ne ritarda gli sviluppi, ne mette sovente in forse la continuità e la consistenza - tutti fattori da tenere ben presenti ai fini di una visione il più possibile concreta non solo dei problemi da affrontare in loco, ma di interventi adeguati nell’azione centrale e periferica, per tentare di risolverli in un corso più o meno lungo di anni a venire. Senza però dimenticare (è per noi ovvio) l’impossibilità di una loro soluzione integrale e definitiva sotto il segno del capitale e quindi del profitto.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2001)

 

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