Nel precedente articolo apparso sul n.2/2001 di questo giornale, avevamo evidenziato come la prossima nascita dell’Euro quale moneta unica di una realtà politica ed economica poliedrica (l’Unione Europea), composta di unità capitalisticamente concorrenti (gli Stati europei) benché temporaneamente alleati di fronte ad altri blocchi economici (Usa in primis), avrebbe sancito la nascita di un’inesistente unità produttiva, priva di quella autorità politica centralizzata che è la condizione indispensabile per il mantenimento di una moneta unica. L’intera costruzione dell’unione monetaria, infatti, si attua solo come conseguenza della generale crisi economica che, spezzando i precedenti equilibri interimperialistici fissati a Yalta alla fine della Seconda guerra mondiale, ha rimesso in moto tutti i fattori che a livello storico ripropongono la inesorabile e classica alternativa per la soluzione violenta della crisi: o guerra imperialistica o rivoluzione proletaria. Ora, la moneta è il punto d’arrivo – e mai di partenza – di un processo storico oggettivo, il riflesso e lo strumento dell’ordine economico, sociale e politico esistente: è insomma la ratifica materiale sul piano storico dell’entità statale capitalistica di cui è al contempo simbolo e strumento. Nel caso invece dell’Euro, la fragilità delle basi di tale costruzione evidenzia fin dall’origine come dietro la facciata unitaria si nasconda una incomprimibile concorrenzialità nazionale che può essere soppressa solo sopprimendo la base capitalistica di ognuna, e dunque solo abbattendo il capitalismo come modo di produzione. Anzi, proprio dietro le crepe dell’Europa Unita, che periodicamente emergono in superficie, maturano e si accentuano gli antagonismi interimperialistici e si delineano le future alleanze del conflitto militare di domani. Riprendiamo ora il discorso, s o ffermandoci sulle transazioni commerciali (e in particolare sulla dinamica dei flussi di importazioni ed esportazioni a partire dalla fine degli anni Sessanta fino ad oggi) tra le quattro grandi nazioni del blocco europeo – Germania, Inghilterra, Italia e Francia – e le nazioni dell’exblocco sovietico, Russia compresa. Questi dati serviranno ad evidenziare che tutto quello che accade oggi è la dimostrazione incontestabile che nulla di ciò che concerne gli attuali equilibri del capitale può essere rivolto o destinato ad una pace duratura fra le nazioni. Non è nostro fine quello di fornire una analisi quantitativa precisa e minuziosa dei rapporti tra le nazioni prese in esame, bensì di evidenziare il quadro di una evoluzione qualitativa delle vicendevoli dipendenze tra le nazioni europee prese in considerazione: e in particolare, dell’evoluzione e delle modificazioni delle influenze imperialistiche che si sono concretizzate in questi ultimi 50 anni.

 

Le cifre, ricavate dalle statistiche ufficiali, rappresentano in questo caso un’ulteriore dimostrazione dei potenti fatti materiali che confermano come la strombazzata e famigerata Europa Unita altro non sia che la foglia di fico dietro la quale in primo luogo le b o rghesia nazionali europee hanno tentato di nascondere i loro storici antagonismi. Il capitale tedesco, ringiovanito dalle distruzioni del secondo macello imperialistico e assurto al rango di diretto concorrente dell’imperialismo americano dominante, non poteva che ripercorrere necessariamente le linee di espansione verso est dettate dalle sue esigenze storiche di sviluppo capitalistico. Esso si è appoggiato alle altre nazioni europee per poter meglio agire sull’arena politica mondiale e sopperire al proprio deficit di forza politicomilitare che intanto si preoccupava di iniziare a colmare. Le altre nazioni europee si sono temporaneamente appoggiate al capitale tedesco per ottenere una maggiore forza d’urto e contrattuale sul mercato mondiale, rispetto alla forza del proprio capitale nazionale, ma con l’obiettivo di modificarla a proprio vantaggio. Non vi è possibilità alcuna di conciliare questi interessi, in quanto essi sono il frutto di particolari esigenze e necessità materiali delle maggiori economie nazionali europee.

La Polonia Nel 1969,la media dell’impexp in Polonia era la seguente: URSS 45,7%, DDR (Germania Est) 11,65%, Cecoslovacchia 10,6%. La RFT (Germania Ovest) si attestava su un esiguo 5,25%. Le tre economie inglese, francese ed italiana insieme coprivano 13,25%. Le restanti economie “socialiste” ungherese e romena il 7,2%. Nel 1975, la situazione era così mutata: URSS 33,65%, DDR 9,9%, Cecoslovacchia 8%, la RT F aumentava leggermente la sua influenza con un 7,55%, mentre le economie inglese, francese e italiana arretravano di poco, al 12.75% – una percentuale praticamente invariata che vedeva solo una ridistribuzione fra le tre economie, con l’Inghilterra in calo a favore della Francia. Nel ’75 vi fu poi anche la comparsa significativa del Belgio, con una massiccia importazione pari al 24,6%, ma con un’insignificante esportazione verso la Polonia (1,4%). Le economie “socialiste” ungherese e romena si attestavano sul 5,3%. Nel 1988, la situazione mutava ancora. In particolare, l’URSS manteneva praticamente inalterata la sua posizione (33,45%), e così la Cecoslovacchia (8,65%). Radicalmente diverso il quadro invece per ciò che concerneva la due economie tedesche: la DDR cadeva al 6,55% e – cosa più eclatante – la RFT balzava al 17,8%. Le altre tre economie europee mantenevano anch’esse la loro posizione con il 13,65%, mentre in pratica sparivano le altre due economie “socialiste” prese fino ad ora in esame. Arriva il 1996, e la situazione è la seguente: la Russia è al 10,8%, le altre economie “socialiste” escono da questa scala con percentuali inconsistenti, la Germania si attesta su un sostanzioso 46,8%, le tre economie europee sul 28,65% con un leggera predominio italiano: FIAT e preti hanno lavorato bene!

L’Ungheria Nel 1968, la situazione in questo paese era la seguente: URSS 46,35%, DDR 12,9%, Cecoslovacchia 11.95%, la RFT era attestata sul 5,5%, Inghilterra, Francia e Italia non raggiungevano il 10% (9,66%), le economie “socialiste” polacca e romena sfioravano anch’esse il 10% , fermandosi al 9,95%. Nel 1975, la situazione era praticamente immutata, ma con un primo accenno – anche qui – d’un processo messosi in moto: la RFT saliva infatti al 7,85%. Nel 1989, invece, la situazione era già mutata considerevolmente: URSS 36,5%, DDR 8,95%, Cecoslovacchia 7,9%, mentre la RFT si accaparrava il 21.5%, Polonia e Romania si attestavano sul 7,35%. La nostra fonte non ci dice nulla su Francia ed Inghilterra, ma non ne conosciamo il motivo: non sappiamo cioè se si tratta di semplice mancanza o di un’inconsistenza reale di queste due nazioni in quegli anni. L’Italia si assicurava un 6,25%. Infine, ai giorni nostri, il quadro è andato stabilizzandosi in questo modo: Russia 16,1%, Germania 46,05%, Italia 14,15%.

La Cecoslovacchia Nel 1968, la Cecoslovacchia aveva solo due patner economici importanti: l’ URSS con il 41,1% e la DDR con il 14,6%. Al contempo, manteneva rapporti con molti più paesi che non le altre nazioni definite “del campo socialista”, e cioè (riportiamo qui i più importanti): RFT 4,45%, Francia, Italia ed Inghilterra 6,85 %; infine, le altre repubbliche del blocco sovietico (Bulgaria, Polonia, Romania, Ungheria) raggiungevano il 24,3%, con una prevalenza per la Polonia (vicina al 10%). Nel 1975, la situazione non era mutata di molto, ma i maggiori patner cominciavano già a perdere colpi: URSS 36,65%, DDR 13,8%, RFT 6.7%, il trittico europeo 5,85%; le nazioni “socialiste” si assestavano sul 23,05%. Il fatto che, RFT esclusa, tutte le altre percentuali scendano e che tale discesa non sia compensata dalla crescita della quota RFT conferma il maggior grado di apertura della economia cecoslovacca in questa fase. Alle soglie degli anni novanta, con i dati antecedenti alla divisione tra Repubblica Ceca e Slovacchia, la situazione si era così trasformata: URSS 72,4%, DDR17,2%, RFT 21%, gli altri europei considerati fino ad ora 13,75%, Polonia 20%, Ungheria 10%, Romania e Bulgaria 9,95%. Ai giorni nostri, le due economie, ceca e slovacca, sembrano essersi scisse in corrispondenza ad una inconciliabile tendenza che vede la prima spinta nelle braccia della Germania e la seconda accucciata per ora nelle fragili mani della Russia.

La Bulgaria Fra tutte le nazioni “socialiste”, la Bulgaria era la più dipendente dalla “Madre Russia”. Nel 1968 la situazione era la seguente: URSS 65.3%, DDR 9,6%, RFT 4,45%, Francia e Italia si attestavano sul 5,9%, Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria sul 12,5%. Nel 1973, la situazione era praticamente la medesima. Nel 1986, ancora permaneva la sudditanza all’URSS che raggiungeva il 74%, mentre per l’Occidente (Germania compresa) il mercato bulgaro rimaneva sostanzialmente chiuso. Solo con gli anni Novanta e con gli avvenimenti ben noti, la situazione è cambiata, anche se permane in fondo una sudditanza alla Russia (30,9%): Germania 17,75%, Italia 11.4%. Gli altri dati a nostra disposizione ci indicano poi come l’economia bulgaria si sia fortemente regionalizzata, avendo nella Macedonia, Turchia, Grecia e Ucraina gli altri maggiori partner econom i c i .

La Romania La Romania appare come l’esempio inverso della Bulgaria. La sua era l’economia più aperta (insieme, a ben vedere, alla Cecoslovacchia ed in parte alla Polonia) fra quelle delle ex repubbliche “socialiste”. Nel 1968, la situazione era la seguente: URSS 37.5%, DDR 7%, RFT 11,45%, Francia, Italia e Inghilterra 19,15%, Cecoslovacchia, Polonia ed Ungheria 16,9%. Come si può notare, nel 1968, la penetrazione occidentale era già sostenuta. Due elementi significativi si evincono poi dai dati del 1968: la percentuale più bassa di commercio fra un paese “socialista” e l’URSS, la già significativa presenza della RFT (oltre che dell’Italia, che da sola raggiunge il 7,35%). Nel 1975, la situazione continuava ad essere molto fluida: URSS 31,45%, DDR 9,2%, RFT 15,96%, mentre rimangono simili gli altri dati. Il 1989 vedeva l’espandersi in Romania dell’imperialismo italiano, che si attestava sul 13,45%, rimanendo sostanzialmente invariati gli altri d a t i . Oggi, la situazione è: Germania 31,05%, Italia 28,5%, Russia 12,3% Francia 9 , 2 5 % . Ci fermiamo qui, tornando a sottolineare che in generale dai dati esposti (e non abbiamo potuto prendere in considerazione quelli relativi agli investimenti esteri diretti di capitale e ai prestiti esteri, che comunque, per quanto riguarda gli anni recenti, confermano le gerarchie individuate) si evince quale sia stato il radicale cambiamento nei rapporti interimperialistici in Europ a .

La Russia Dai dati sopra riportati, si nota come l’exUnione sovietica prima, l’attuale Russia dopo, abbia perso gran parte della sua influenza sull’area dei paesi dell’Est europeo. Il crollo dell’economia russa è stato verticale e profondissimo, come abbiamo mostrato (e mostreremo) in altri studi approfonditi di questo stesso giornale. La crisi, e le successive difficoltà dell’economia russa nel rimettersi in piedi in questi ultimi dieci anni, hanno fortemente minato le capacità di questo paese di svolgere la sua storica funzione imperialistica, almeno sulla scala mondiale precedente, retrocedendo invece su una proiezione di potenza regionale. Di fatto, solo la Bulgaria, per motivi storici e geopolitici, ha mantenuto rapporti significativi con la Russia: e peraltro non si può parlare più di influenza imperialistica dominante, avendo di fatto la Bulgaria legato attualmente la sua sorte al marco tedesco, e dunque alle sorti della Germania, nel tentativo di frenare l’iperinflazione del decennio “postsocialista”. Il resto delle nazioni exalleate vedono attestarsi la Russia sempre al di sotto del 20% nella ripartizione dell’interscambio commerciale – una performance p r odotta più da una vicinanza geografica e da un retaggio del passato che non da una dipendenza paragonabile a quella pre1989. A dimostrazione di ciò, facciamo notare come tutte queste nazioni abbiano chiesto a varie riprese di poter entrare a far parte dell’alleanza militare NATO , e nella Unione Europea, proprio nell’intento di sganciarsi definitivamente dall’ ex controllore russo. La Russia, dal canto suo, dopo aver subito questa dinamica imposta dal mutamento nei rapporti di forza corrispondente al mutamento nello sviluppo economico e dopo anni in cui è stata costretta a reimpostare le coordinate più funzionali ai propri interessi nazionali, sta riallacciando intensi rapporti con le sue exrepubbliche: prima fra tutte, l’Ucraina, con la quale ha firmato importanti commesse di armi e trattati militari di difesa comune, ma anche (come dimostrano gli eventi recenti) con le exrepubbliche nei territori strategici dell’Asia Centrale e della Transcaucasia – delle quali ha avuto il mandato USA di occuparsi, come ringraziamento per l’appoggio servile fornito nella conduzione della guerra in Afghanistan, vera e propria “lotta per l’Asia C e n t r a l e ” . Nell’ultimo anno, la Russia sembra aver arrestato l’emorragia e di conseguenza invertito la rotta della propria economia, indirizzandola verso la ripresa. C’è da scommettere che, con l’aiuto del nuovo sacro (ma anche storico) alleato statunitense e con un economia in ripresa, la Russia si riaffaccerà ben presto sulla scena dei mercati dell’Est europeo, in chiave di contenimento prima e di aperto contrasto poi, rispetto al famelico imperialismo tedesco.

La Germania Non c’è dubbio che la Germania abbia sostituito la Russia nel ruolo di nazione dominante nell’Europa dell’est. Ma se guardiamo analiticamente i dati che abbiamo utilizzato si ricava la conclusione che le precedenti condizioni di dipendenza non si sono semplicemente trasformate nel ruolo attuale. Non c’è stata solo una modifica quantitativa. La morsa dell’imperialismo tedesco è molto più prepotente e ha una valenza qualitativa differente e potenziata. Infatti, il grado di penetrazione dell’attuale Germania unita non è la somma delle p e r f o r m a n c e s delle due Germanie separate: l’odierna Germania ha superato di gran lunga la penetrazione nei mercati dell’Est europeo rappresentata dalla somma delle quote delle due precedenti Germanie e ciò è avvenuto innanzitutto a scapito della quota sovietica, ma non solo. Si aggiunga a questo che l’attuale egemonia tedesca non è il prodotto di una guerra guerreggiata, non è affatto il risultato di una vittoria militare. Essa è il prodotto della necessaria ricerca di nuovi mercati della potente macchina produttiva tedesca, della ricerca di nuove zone d’investimento per i propri capitali in eccedenza, dell’esigenza imprescindibile dell’accesso alle materie prime, e dell’altrettanta fondamentale ricerca di manodopera a basso costo per alcune produzioni a scarso contenuto tecnologico: in una parola del rinnovato imperialismo tedesco. La Germania ha trovato campo libero a est dopo il tonfo dell’Unione Sovietica, e ha dispiegato le proprie ali imperialistiche sopra le nazioni a est dell’Elba. Stabilito il proprio predominio nel “giardino di casa” (in maniera analoga a quello che hano fatto gli USA con l’America Latina), la Germania è ora impegnata a conquistare le storiche aree geografiche da sempre perseguite strategicamente: Balcani, Macedonia, Medio Oriente, ecco le nuove vie – obbligate – di espansione imperialista tedesca, ecco i punti di maggiore frizione e di scontro alla ribalta nella attualità della politica di potenza interimperialistica. Questo getta una luce nuova sui rapporti fra le varie borghesie nazionali europee e non, rapporti che per forza diventano precari ed instabili. Ciò che oggi, quando la crisi recessiva non morde ancora l‘osso della riproduzione e valorizzazione del capitale, è stato tacitamente accettato verrà domani rinfacciato e p e r s e g u i t o . Siamo allora all’alba di una terza guerra imperialista, attraverso la quale la Germania provi di nuovo, attraverso una vittoria militare, a stabilizzare la propria supremazia sull’Europa e su parte del mondo? No di certo. La Germania non è ancora pronta (economicamente e militarmente) a intraprendere una simile strada. In particolare, la crisi non è ancora così entrata nella fase della sua acutizzazione né – aspetto ancora più importante – la classe operaia si è presentata di nuovo alla ribalta della storia come classe in lotta contro la b o rghesia a difesa delle proprie condizioni materiali. Mancano quindi i presupposti che sono alla base dell’inevitabile trasformazione – dove l’inevitabilità è legata alle esigenze e alle leggi di funzionamento del capitale – della concorrenza economica fra stati imperialisti in un conflitto mondiale per la ripartizione violenta di mercati e aree di influenza. Rimane il fatto che le basi materiali, strategiche ed economiche, per lo scatenamento di questo conflitto sono state gettate: i suoi tempi saranno dettati dai tempi dell’evoluzione della crisi economica e dei suoi prolungamenti politici e sociali.

E gli altri? Al quadro sopra descritto, aggiungiamo ora il fatto che le economie degli altri paesi europei, e in particolare dei maggiori fra essi (Inghilterra, Francia, Italia), poco hanno beneficiato del crollo del blocco sovietico. In particolare, Francia e Inghilterra, pur avendo sempre mantenuto rapporti con le economie dell’Est e avendo avuto, prima della Seconda guerra mondiale, notevoli influenze su alcune di esse, in questo caso sembrano aver di fatto perso l’occasione di fine secolo. Il loro grado di penetrazione negli spazi lasciati liberi dalla caduta dell’URSS non è stato significativo. Esse hanno solo aumentato di qualche punto percentuale la loro presenza nelle economie dei paesi dell’exComecon e questo aumento è per giunta discontinuo da paese a paese: nulla a che vedere con la dimostrata potenza tedesca. La sensazione è che l’aumento percentuale sia più il frutto di una saturazione delle attuali capacità economiche tedesche che non il frutto di una propria strategia vincente. È vero che Francia ed Inghilterra hanno sempre avuto una visone strategica più “internazionale” e dunque non si sono solo occupate di razziare in Europa: ma è altresì vero che, in un mondo dove ogni angolo è stato occupato dal capitale, gli spazi a disposizione sono ormai finiti e solo una ripartizione forzata può garantire nuovi ambiti di valorizzazione al capitale finanziario di ogni Stato. Oggi, qualunque spazio di influenza imperialistica può solo essere sottratto a qualcun altro, e se uno Stato si assicura nuove influenze può solo farlo a doanno di un altro, suo concorrente. Per il capitale mondiale, ormai non v’è più nessun mitico Far We s t . Un caso a parte è quello dell’Italia, che fra le tre nazioni europee è stata quella che più ha beneficiato degli accadimenti di fine secolo. Essa ha saputo, in parte ma in modo evidente, ritagliarsi una piccola area di influenza, che va dai paesi confinanti Slovenia e Croazia e arriva

(passando dall’Albania attraverso lo stretto di Otranto) fino alla Romania. E’ bene anche sottolineare che già prima l’Italia era stata capace, grazie anche alla sua posizione geografica, di tessere rapporti continui e significativi con questi paesi ed in generale con tutto il blocco exsovietico (vedi la Polonia): tanto che, sia pure con uno spirito meramente “mercantile” (frutto cioè dell’intraprendenza delle singole aziende) piuttosto che non grazie a un piano strategico più generale e nazionale, ha saputo trarre il massimo vantaggio, allorché le si è presentata l’occasione. Questa nuova posizione italiana risulta evidente anche dagli ultimi accadimenti interni, oltre che dagli altalenanti rapporti con la Germania stessa. In particolare, l’attuale quadro borg h ese italiano sembra essere spaccato in due fra il partito filotedesco, maggiormente rappresentato nello schieramento della “sinistra” che punta a serrare le relazioni con la Germania per meglio sedimentare e stabilizzare i rapporti “imperialistici” attuali, e il partito filoamericano, maggiormente rappresentato nella “destra”, che si basa sull’ appoggio agli USA, sempre in funzione stabilizzatrice del ruolo (e dunque degli interessi) del capitale

nazionale, ma in netto contrasto con la Germania.

E gli Stati Uniti? Per quasi mezzo secolo, gli USA hanno contrastato l’URSS, spinti in ciò da tutto tranne che dalla tanto decantata “difesa della democrazia”. In gioco vi erano la spartizione e il controllo del mondo intero. In tal senso, sia i comportamenti di ieri che quelli di oggi sono qualitativamente differenti da quelli europei, in primis tedeschi. Gli americani erano e sono rimasti una potenza imperialistica di primo piano, con necessità e strategie mondiali: dunque, non solo continentali. Tutto ciò che gli USA hanno necessariamente fatto in questi cinquant’anni non è altro che la conferma del valore scientifico (cioè in grado di stimare necessariamente l’evoluzione di un sistema preso in esame) del materialismo dialettico. Loro malgrado, sono stati costretti, nella lotta interimperialista contro l ’ U R S S, a gettare le basi per la nascita della nuova Germania, loro prossima nemica. Ma ciò non è avvenuto solo come un ritorno al passato e a una situazione precedente la Seconda guerra mondiale. Tutt’altro. La Germania di oggi è potenzialmente, e sulla carta, molto più forte di ieri.

Le cifre ci indicano che (con l’eccezione della Polonia) la penetrazione americana nei paesi dell’Est è praticamente trascurabile. Dalla “caduta del muro”, gli USA hanno ricavato ben poca cosa, ancor meno degli europei, e in fondo hanno dovuto assistere (anch’essi come le altre nazioni europee) alla rinascita tedesca e alla saldatura del nuovo anello tedesco nel Centro Europa. A conferma di ciò, c’è proprio l’altalenante impegno degli Usa nella serie di crisi balcaniche susseguitesi negli anni ‘90 fino ai nostri giorni, nelle quali si sono comunque mossi prima in funzione antirussa e poi in funzione antitedesca. Il quadro dunque si tinge sempre più di tinte fosche per le illusioni di una “fine della storia” della borghesia mondiale. In questo quadro, il ruolo della tanto celebrata Europa, come presunta stabilizzatrice sia interna che esterna e salvaguardia della futura pace dei popoli, si fa piccino piccino, e invece si a ffermano sempre più gli elementi di instabilità, di frizione, che preludono a un futuro scontro aperto. La situazione è ancora estremamente fluida e gli eventi eclatanti succeduti all’attacco terroristico dell’11 settembre hanno innescato due processi paralleli. Innanzitutto, gli Stati Uniti hanno avuto l’occasione per scatenare una guerra avente tre ben chiari obbiettivi: raff o rzare la propria influenza su una zona del mondo di rilevante valore strategico per ciò che concerne i rifornimenti e il controllo delle vie del petrolio e del gas; chiudere la strada, alleandosi con la Russia e stringendo un repentino patto di ferro diplomatico globale, alle mire espansionistiche europee e in primo luogo tedesche (mire la cui necessità materiale è bene evidenziata dall’urgenza con cui il governo socialdemocratico tedesco s’è affrettato a chiedere il voto di fiducia sull’invio troppo ritardato per i suoi disegni del proprio contingente militare); distrarre momentaneamente e immobilizzare ancora le masse mediorientali, spingendole ancor più nell’abbraccio fetente e mortale del nazionalismo più retrivo.

Nell’ultimo articolo, oltre ad analizzare l’attuale situazione del proletariato europeo, dimostreremo come solo la classe proletaria, in quanto classe portatrice di un nuovo e superiore modo di produzione, ha la possibilità di annullare, con la rivoluzione comunista, gli antagonismi che sono connaturati alla società del capitale, realizzando infine non un’unione di popoli, stati, nazioni, ma l’unità della specie umana.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2002)

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