Una valutazione d’insieme

L’economia europea (cioè dei tre paesi principali, Francia, Germania, Italia, che rappresentano il 70% del Pil euro-peo) è in crisi e ha necessità urgente di uscirne: si tratta di una crisi che dura ormai da tre anni, subentrata in parallelo a quella americana, ma che negli anni ’90 non ha lasciato alcun segno d’espansione, attestandosi anzi su valori della produzione e del Pil estremamente piatti (1). A differenza dell’economia americana (che invece ha marciato, spinta dalla bolla speculativa sui titoli tecnologici e in parte dall’uso di nuova tecnologia, su alti indici della produzione nazionale, crollando poi rapidamente all’inizio di questo secolo, costituendo una delle concause della seconda guer-ra contro l’Irak, nella speranza di risalire dalla rovinosa caduta e di riuscire a controllare un’area di forte interesse strategico), la realtà europea non ha vie d’uscita prossime (si veda il forte rialzo dell’eu-ro fino a 1,19 all’inizio del mese d’ottobre, che deprime oltretutto le proprie esportazioni verso gli Usa). Nella situazione attuale, il Pil medio dei diversi paesi Ocse degli ultimi tre anni non supererà l’1,5%, a fronte del fatto che nei suddetti paesi europei gli indici sono pressoché negativi. Calo dei consumi, fre-nata degli investimenti, au-mento della disoccupazione sono gli elementi comuni in tutta Eurolandia. Non si sa quando la ripresa potrà riprendere (si parla della fine del 2004) e il dato percentuale del Pil previsto per quest’anno è lo 0,5% (nei primi tre tri-mestri la scansione è stata 0,2; 0,1; 0). La ripresa Usa, che farebbe da traino dell’economia mondiale, come era avvenuto dopo la prima guerra del Golfo (buona parte del cui costo è riuscita a scaricare sulle spalle europee e giapponesi), non ha quel grado di energia che si prospettava: anzi, la situazione di questo secondo dopo-guerra sta dimostrando che il circolo virtuoso innescato dagli investimenti bellici (la nuova tecnologia militare) non sta sortendo gli effetti sperati. I costi dell’impresa bellica e del mantenimento della situazione, divenuta sempre più incontrollabile anche politicamente, si dimostrano maggiori delle entrate rese possibili da un’attivazione totalitaria della ricostruzione dell’economia irakena, in cui sia compresa la ripresa del flusso di petrolio. L’impantanamento di fronte agli attacchi da parte di forze di guerriglia irakene è davanti agli occhi di tutti. La richiesta alla Francia e Germania di una seppur bassa partecipazione dietro le bandiere dell’Onu non ha ancora avuto risposte convincenti. Il comando militare Usa, pur riconoscendo la necessità della presenza Onu, non ammette altra direzione economica e militare che la propria. Il tentativo di rilanciare l’economia europea ha richiesto già da molti anni importanti interventi, tra cui l’abbassa-mento del tasso di interesse bancario, che corre oggi un po’ sopra quello americano (2 su 1,5) dopo una caduta di 2,75 punti dall’ottobre 2000, superiore nettamente a quello giapponese che sfiora lo zero. Ma gli investimenti sono rimasti a terra. I titoli di borsa del Nasdaq e del Dow Jones danno credito all’uscita dalla crisi, ma la maggior parte de-gli analisti finanziari dubita fortemente che dietro l’imme-diato ci sia una ripresa duratura. L’attuale instabilità dei cambi con al centro il debito americano, che spinge al rialzo le monete europea e giapponese (e cinese, ancorata ancora al dollaro, su cui si fanno fortissime pressioni perché ri-valuti, minacciando il blocco delle importazioni, innalzando barriere doganali, invocando il protezionismo), non crea uno spazio tale da evitare una crescita dei senza lavoro Usa (più di 3 milioni e mezzo sono i lavoratori che ricevono i sus-sidi e il tasso di disoccupazione è al 6%). All’inizio dell’anno, il tasso di disoccu-pazione in Giappone era del 5,5%, livello massimo dal dopo-guerra, e i dati del paese indicavano un avvicinamento alla recessione considerato che l’inflazione è vicina allo 0,7%. La realtà produttiva mondiale è dunque ancora bloccata, anche se si intravedono reali possibilità di crescita per Usa e Giappone: la sovrapproduzione industriale da una parte, la ristrutturazione lenta dei processi produttivi, la mancanza di una tecnologia industriale d’avanguardia capace di attivare saggi di profitto elevati, il basso tasso di profit-to generale, fanno sì che nuo-vi investimenti vengano respinti. I prezzi dei prodotti in-dustriali si mantengono bassi per la necessità di svendere, mentre salgono quelli agro-a-limentari; la deflazione in am-bito produttivo è considerata preoccupante; sale la disoccupazione un po’ dappertutto in attesa dell’inversione del ci-clo. A breve, la “situazione inter-nazionale” può naturalmente provocare scenari anche più negativi. Intanto, in Eurolandia, si tenta il rilancio utilizzando la leva fiscale (abbas-sando cioè la tassazione delle imprese) e rilanciando le infrastrutture sociali dirette dallo Stato (ferrovie, autostrade, ponti, opere pubbliche in ge-nere, su cui si può lucrare sen-za ritegno) o, come in Italia, svendendo il patrimonio statale (immobili pubblici, aree demaniali); oppure si attuano sanatorie sulle costruzioni abusive (per 3,35 miliardi di euro, sconto Irpef del 36% sui costi di ristrutturazione) o si agisce sulle spese sanitarie (il 40% dello sfondamento del tetto di spesa sarà pagato dalle regioni che dovranno recuperarlo attraverso ticket, tasse locali e meccanismi alternativi): il tutto per incassare dena-ro fresco ed evitare di scavalcare il patto di stabilità di Maastricht relativo al debito pubblico (rapporto percentua-le tra deficit pubblico e Pil: 3%), superato dalla Francia (a fine anno il rapporto indicati-vo parla del 4%) e dalla Germania (3,8%), mentre si avvi-cina allo stesso limite quello italiano (2,7%): patto che en-trambi i paesi intendono ridi-scutere e riconsiderare in que-sti periodi di magra. Gli ultimi accordi tra Francia e Germa-nia hanno messo un diktat sulla questione, invocando – per evitare le sanzioni – la necessità della crescita econo-mica e le circostanze dell’attuale crisi recessiva. L’Italia tiene il cordone su questa in-terpretazione flessibile del Patto di stabilità: ci si rende conto che “se i motori econo-mici di Francia e Germania non ripartono tutta l’Europa entrerà in recessione”. L’in-contro tra Chirac e Schröder per rilanciare iniziative comu-ni di progetti infrastrutturali é andato nel senso di “favorire la crescita” (i corridoi di collegamento europeo dei treni ad alta velocità), non quello di rispettare il patto. La ricetta generale ormai generalizzata consiste nel detassare gli investimenti stessi, diminuire le imposte, ottenendo lo stesso effetto dell’abbassamento del costo del denaro, che non ha avuto conseguenza alcuna sul rilancio dell’economia. Ma, una volta fatto questo, le en-trate generali dello Stato di-minuirebbero: come pareg-giare allora i conti? Ovviamente, dal lato delle spese: spese sanitarie e pensionisti-che, facendo sì che siano i la-voratori a pagarle; ma per la quota-parte pagata dai lavora-tori si tratta di una decurtazione dal monte sociale dei sala-ri, cioè la vecchia ricetta di sempre: abbassare il costo so-ciale del lavoro, uno sposta-mento dal lavoro necessario verso il plusvalore. Si spera nella risalita del saggio del plusvalore e quindi del saggio del profitto a parità di compo-sizione organica del capitale, dato che la produttività lan-gue, in attesa che il processo si riattivi dopo la ristruttura-zione delle aziende e l’inseri-mento di nuova tecnologia. Inoltre, si giudica tutta la situazione europea sotto una di-namica del lavoro ancora troppo rigida, che deve essere sciolta nella flessibilità dello stesso lavoro – flessibilità che da dieci anni è il leitmotiv do-minante della borghesia mon-diale. Di fronte alla crisi (di sovrapproduzione), il proble-ma è il risparmio generale sul costo del lavoro, l’eliminazio-ne di ogni rapporto contrat-tuale fisso, l’uso della forza lavoro just in time: mai più dunque un rapporto stabile e a tempo indeterminato, ma fles-sibile e funzionale alle vendi-te! Il precariato è la forma moderna del lavoro salariato, da cui non è possibile oggi pensare di uscire o immagina-re un’inversione di tendenza: un’uscita da questo stato di cose dovrebbe significare una crescita economica straordi-naria non più immaginabile, non solo sul terreno delle grandi economie, ma anche nel resto del mondo (cioè nei paesi in via di sviluppo- a par-te la Cina, la sola a presentare indici del Pil che sfiorano l’8-9% annuo- ma la Cina da sola certo non basta!). Inoltre, l’appetibilità del risparmio sul costo del lavoro preme sul centro Europa da est : e a essa si può andare incontro solo con la dislocazione produtti-va. L’aumento generale della flessibilità del lavoro, che ha generato una vasta diffusione del precariato, e l’attacco alle pensioni e all’assistenza sani-taria, in contemporanea, strin-gono in una dura morsa il pro-letariato europeo: come di-mostrano le lotte di resisten-za, oggi facilmente controlla-te dalle organizzazioni sinda-cali, in Francia, in Austria, in Germania, in Italia. La Spagna ha già da tempo introdotto modifiche sulla flessibilità, ma anche qui si pone il problema delle pen-sioni. In Italia, dopo la scon-fitta “programmata” da tutte le forze politiche nel corso del referendum sulla giusta causa per licenziamento – il famoso art.18 e le leggi sulla flessibi-lità (legge 30) – si é avviato un processo profondo di ri-strutturazione del mercato del lavoro, anche se andrà a regi-me solo nei prossimi anni. In Francia, l’attacco alle pensio-ni ha avuto un grosso impatto sociale: è stata equiparata la condizione dei lavoratori sta-tali a quelli privati, la contri-buzione viene portata da 38,5 a 40 anni, con un prosieguo successivo a 42 e oltre. Lo stesso è stato proposto in Ita-lia con l’innalzamento fino a 40 degli anni di contribuzione a partire dal 2008: il passag-gio al sistema contributivo abbasserà le pensioni fin qua-si al 50% dell’ultimo salario. In Germania, poi, Schröder, dopo aver tentato invano ne-gli ultimi anni di conquistare il consenso di tutti attraverso il “Bündnis für Arbeit” (l’Al-leanza per il lavoro), poi falli-to, ha organizzato un attacco in grande stile con l’Agenda 2010, che entrerà in vigore già dal 1 gennaio 2004. Si è concordato di anticipare di un anno la riforma fiscale con i suoi alleggerimenti: si parla di un taglio delle imposte che porterebbe l’aliquota massi-ma dal 48,5% al 42%, mentre l’aliquota minima scendereb-be dal 19,9% al 15%, nello stesso tempo in cui vengono attivate riforme strutturali sul welfare state con attacchi alle pensioni, alla sanità e al mer-cato del lavoro. Sulla sanità i lavoratori si sono visti addos-sare ticket sulle prestazioni (autoambulanze e taxi) e sui medicinali, scorporo di pre-stazioni assicurative (dentiere e indennità di malattia), men-tre il buco di 8000 miliardi trovato nelle casse pensioni-stiche dovrà trovare soluzione con la riduzione del prelievo contributivo sulle tredicesi-me, ridotte in molti settori a cominciare dal pubblico im-piego. Inoltre, si rinuncia all’adeguamento pensionisti-co dello 0,5%, per quanto ma-gro (la rivalutazione sarà fun-zionale al numero dei disoc-cupati – il cosiddetto “fattore di sostenibilità”), e le pensio-ni (altro risparmio) saranno pagate non all’inizio, ma alla fine del mese. Ai pensionati saranno addossati i contributi per l’assistenza ai disabili, trattenendo l’1,7% contro lo 0,85% attuale. Il grosso anco-ra sarà preso dalle casse pen-sionistiche (il 50% delle pen-sioni pagate in un mese era messo in riserva per essere al riparo da oscillazioni con-giunturali): la riserva dovrà o-ra ridursi al 20%. Inoltre, si prospetta un innalzamento dell’età pensionabile da 65 a 67 nel 2010, e nel frattempo si passerebbe dai 60 ai 63 anni, con misure che andrebbero in vigore dal 2006 al 2008. Ma per la Germania il fatto più eclatante è stata la sconfit-ta dell’Ig-Metall, che segue la sconfitta alla Fiat in Italia con la divisione ad opera sindaca-le del fronte di lotta nord-sud, episodi che si saldano al più generale attacco alla classe o-peraia.

1. I dati e le citazioni che seguono sono tratti dal Sole-24 ore, sull’arco dell’estate 2003.
2. I dati e le citazioni che seguono sono tratti da Barbieri, I padroni di Germania, Rizzoli 1990.

La DGB (Deutscher Gewerkschaftsbund)

Prima di esaminare le cause della sconfitta subita dai me-talmeccanici tedeschi nel giu-gno 2003 conviene definire l’identità del sindacato, l’Ig-Metall, che li ha condotti alla lotta con metodi a dir poco di-sfattisti2. La Ig-Metall (Industrie Ge-werkschaft-Metall, il sindaca-to dei metameccanici) fa parte della Confederazione dei sin-dacati tedeschi DGB, la mac-china sindacale più perfetta d’Europa. Al suo interno “non c’è alcuna divisione po-litica o ideologica”, e per que-sta sua unità statutaria essa è la più solida ed elastica cin-ghia di trasmissione del pote-re borghese. La sua struttura unitaria è il lascito di tre ma-trici storiche convergenti: quella liberale, quella social-democratica e quella nazio-nalsocialista. La sua ricostru-zione è avvenuta nel 1945 nel settore occidentale di Berlino, ed è stata favorita dagli ingle-si durante gli scioperi per il carovita. “Noi della Ig-Metall tuteliamo e difendiamo i prin-cipi fondamentali di libertà e democrazia stabiliti nella Co-stituzione della Repubblica federale tedesca”-dice lo sta-tuto. L’apporto successivo della componente sindacale della parte orientale non ha a-vuto bisogno di cercare una sua collocazione dopo la ca-duta del muro nell’89 perché vi si è integrata in modo natu-rale. Il passaggio alla fusione delle organizzazioni non con-vinceva molti: “Chi ci assicu-ra che questi dirigenti sinda-cali non siano ex agenti della Stasi?” Ma come è possibile applicare gli stessi contratti in vigore all’Ovest, se la produt-tività al di là dell’ ex muro è inferiore del 30, addirittura del 40%”? “Va bene le ragioni di solidarietà e di giustizia, ma l’economia se lo può per-mettere? [Sagge domande di un sindacal-imprenditore!?]”. Secondo gli statuti, la DGB si presenta come organizzazio-ne neutra, cioè non segue la li-nea di alcun partito (quindi, è ben integrata nello Stato!), il suo ruolo è universalmente accettato e non contestato in quanto organo di rappresen-tanza dei lavoratori. I sindaca-ti della Confederazione sono integrati di fatto nella società e dispongono di un numero non trascurabile di diritti di partecipazione istituzionaliz-zati in settori che non hanno nulla a che vedere con il mer-cato del lavoro. Sono più o meno strettamente associati a comitati che si occupano di problematiche di istruzione e cultura, a comitati che rappre-sentano i mass media, ad isti-tuzioni che si occupano di questioni economiche e di si-curezza sociale e al sistema di giurisdizione del lavoro. No-nostante un debole tasso di sindacalizzazione, i sindacati tedeschi sono potenti per l’importanza della loro parte-cipazione in numerose impre-se (assicurazioni, edilizia, so-cietà di risparmio, ecc.) e complessivamente per il loro peso economico. Ancor più importante é che essi hanno i mezzi economici per sostene-re le loro azioni rivendicative, infatti hanno mostrato più volte fino a che punto sono capaci di mobilitare i propri membri nel quadro di azioni disciplinate ed efficaci. Il pas-saggio dalle 40 ore settimana-li fino alle 35 è stato un lungo e graduale processo di vitto-rie, anche se non facili. Ciò è stato possibile anche per il fatto che i lavoratori tedeschi sono “sovvenzionati” dalla loro organizzazione durante gli scioperi: buona parte del mancato salario dovuto alla trattenuta in busta paga viene rimborsato dallo stesso sinda-cato. Nel 1988, una settimana di astensione dal lavoro costa-va alle casse del sindacato per ogni iscritto circa 300 marchi (230.000 lire): in totale, dal 1950 al 1988, la Ig-Metall ha pagato ai suoi membri in scio-pero oltre settecento milioni di marchi (515 miliardi di li-re). Nel 1986, in risposta agli scioperi, la legislazione sul la-voro ha legalizzato la serrata di un’azienda o di un reparto che non siano in grado di fun-zionare a causa di un’asten-sione dal lavoro in un altro re-parto o in un’altra azienda “produttivamente collegata” il che ha elevato le spese sindacali. Oltre “all’indennità di lotta”, la Ig-Metall paga per incidenti avvenuti nel tempo libero, versa denaro agli i-scritti anziani e invalidi e agli eredi di iscritti deceduti – e fi-no al 1975 ha pagato anche contributi di malattia. Un’al-tra caratteristica del sindacato tedesco è la partecipazione ai consigli di sorveglianza (Auf-sichtrat), dove si concretizza la “compartecipazione” (Be-stimmungsrecht), la più po-tente leva di controllo della classe operaia. In questo contesto, le masse operaie sono state letteral-mente conquistate al riformi-smo e all’opportunismo. E pensare che il processo di sganciamento nel corso della ripresa della lotta di classe avvenga semplicemente per un approfondirsi della crisi è illusorio: non avvenne nem-meno nel corso della crisi po-litica e sociale del primo dopoguerra in Germania, in cui la parte occupata della classe diretta dal sindacato social-democratico divenne un mu-ro reazionario nei confronti della parte precaria e disoc-cupata! Nell’89, mentre si lottava per le 35 ore, il presidente dell’Ig-Metall Steinkuhler dichiarava: “Non si può più tollerare che, a causa dei rit-mi produttivi, il 56% di colo-ro che vanno in pensione sia-no invalidi e che per una tale situazione di salute siano co-stretti ad uscire a 56,5 anni; se è vero che l’orario settimana-le è più basso (37,9 ore contro 42 del Giappone, 41 della Svizzera, 40 di Italia, USA e Olanda, e dunque il costo ora-rio per addetto è maggiore), tuttavia la quantità di merci e-sportate dalla Germania è la più alta del mondo”. Il potere politico dagli anni ‘50 non ha potuto mai pre-scindere dalle prese di posi-zione dei sindacati sulle que-stioni economiche e sociali (il sistema di concertazione). Dal mondo dei media, la DGB è considerata come uno dei pilastri del potere domi-nante, insieme ai banchieri e agli industriali: insomma, ha un suo posto tra i “padroni di Germania”. Il sistema tede-sco di negoziazione colletti-va (Tarifverhandlungen), nel quale i datori di lavoro e i sindacati si considerano co-me effettive parti sociali, ha svolto e svolge un ruolo deci-sivo nel mantenimento della “pace sociale” e nello svilup-po capitalistico. I contratti collettivi costituiscono la ba-se dei rapporti di lavoro e so-no applicabili e obbligatori per i membri delle parti con-traenti. Durante il periodo di validità del contratto colletti-vo, i sindacati sono tenuti a non contestare i termini dell’accordo: solo le federa-zioni affiliate hanno il diritto di negoziare, mentre la DGB in qualità di confederazione non ha il diritto né di nego-ziare né di siglare contratti collettivi.

3. Il passaggio dalle 40 ore alle 38,5 nel 1984 ha richiesto ben sette settimane di scioperi duri dietro lo slogan: “meno orario, più salario”; nel 1987, si passa “senza lotta” alle 37 ore settima-nali a parità di salario, a regime nell’89; si passerà poi a 36 nel 1993 e a 35 nel 1995.

La sconfitta di giugno

La sconfitta di giugno dell’Ig-Metall è uno scacco storico di notevole portata, i cui effetti destabilizzanti si faranno sen-tire a lungo in Germania. Per la lotta di classe, in fase di ri-presa futura, tali effetti po-trebbero anche essere positi-vi, venendo meno il controllo mortale del sindacato sulla classe operaia tedesca: ma in-tanto la sconfitta verrà pagata dal proletariato e non certo dall’Ig-Metall, che ha comin-ciato a riordinare le sue file per evitare un vero e proprio tracollo, annunciato dalla perdita ormai a cascata dei suoi iscritti. “Per la prima vol-ta in mezzo secolo i potenti sindacati tedeschi hanno alza-to bandiera bianca, una svolta nella tradizione politica e so-ciale della democrazia post-bellica”. La direzione della Ig Metall ha annunciato la revo-ca dello sciopero indetto nei cinque Länder orientali per imporre l´estensione anche all´ex-Ddr della settimana la-vorativa accorciata a 35 ore a parità di salario3. In questa si-tuazione la revoca (quasi sen-za precedenti) segnala la pre-senza di un’acutizzarsi delle contraddizioni sociali nel cli-ma politico e sociale tedesco. La divisione dei compiti fra governo, sindacati e confin-dustria è evidente: la Germa-nia è in recessione, la disoccu-pazione è ai massimi degli ul-timi quattro anni e mezzo, il governo tenta di riprendere l’iniziativa proponendo una combinazione di tagli al wel-fare e fiscali per rilanciare la crescita e ridurre le spese. Oc-correva stroncare lo sciopero richiesto dalle masse operaie dell’est e indetto incautamen-te: il colpo congiunto è riusci-to pienamente e la svolta ha fatto tirare un sospiro di sol-lievo all’industria dell’auto, vitale per l´export e la con-giuntura, aiutando il Cancel-liere a imporre al proletariato le contestate riforme di welfa-re, mercato del lavoro, sanità e pensioni. La settimana lavo-rativa di 38 ore compensava in parte, secondo gli impren-ditori, la minor produttività ri-spetto all’Ovest e la rivendi-cazione delle 35 ore settima-nali avrebbe fatto salire i costi dell’ 8-10%. La revoca degli scioperi e la mancanza di un accordo sono stati un colpo per i proletari dell’Est, che reclamavano le 35 ore. Dopo aver disarmato la lotta, il sindacato ha ag-giunto spudoratamente che lo scenario sarebbe stato peg-giore in caso di vittoria, per-ché la conflittualità sarebbe cresciuta insieme alla disoc-cupazione. Da parte loro, gli imprenditori arroccati sul no più netto hanno replicato: “non ci sono soldi, la produtti-vità all’est è inferiore”. Lo sciopero iniziato all’inizio di giugno viene revocato il 28. Com’è pratica consolidata era stato indetto non a livello nazionale, ma solo in alcuni Länder dell’est: ma fin dall’i-nizio lo scollamento e l’ab-bandono sono stati tali che in alcune località gli scioperi so-no stati sospesi e si è tornati a lavorare già prima – il segnale di una rottura del fronte senza precedenti all’interno dell’Ig-Metall. Al tempo stesso, s’era creata un’ostilità generale verso i lavoratori “in quanto si stava bloccando l´industria dell’auto anche all’ovest”. L´agitazione aveva comincia-to a creare gravi danni per l’industria automobilistica, che non riceveva più forniture di parti, segno che la lotta sta-va producendo i suoi effetti. La Bmw aveva dovuto inter-rompere la produzione della “serie 3” con una serrata in due dei tre impianti occiden-tali; si era fermata Wolfsburg, l´immensa città-fabbrica dove la Volkswagen produce Golf e Lupo, i modelli di punta, per mancato afflusso di compo-nenti dalle fabbriche dell’est (la prima volta da vent’anni, a causa di uno sciopero); per lo stesso motivo, era stata fer-mata l’attività in due stabili-menti della IBM. Le agitazio-ni hanno coinvolto circa 8000 lavoratori, compresi quelli dell’impianto Volkswagen di Dresda, dove viene assembla-ta l’ammiraglia Phaeton. Nel piano di lotta, abilmente pro-grammato, rientrava anche la possibilità alternativa di repli-care l’accordo sulle 35 ore graduali (quindi non subito!) ottenuto per l’industria side-rurgica nella parte est: la gra-dualità richiesta per i 310mila dipendenti dell’industria me-talmeccanica avrebbe dovuto portare all’equiparazione dell’orario nel 2009. Ma an-che su questo punto gli im-prenditori non hanno mollato: hanno messo in campo le con-dizioni di un’economia che stentava a ripartire, ma anche il fatto che la lotta mostrava e-videnti defezioni tra le azien-de, come alla ZF Friederich-shafen, fornitrice di scatole di cambio per la BMW, e nel sindacato, non più compatto. Gli scioperi venivano presen-tati dappertutto come nocivi all’industria automobilistica, che aveva investito molto nell’area grazie a una mag-giore flessibilità del lavoro e agli incentivi statali ed era pronta a riconsiderare l’inve-stimento della BMW di 1,3 miliardi di euro a Lipsia, dove dovrebbe essere prodotta la nuova “serie 1”. Per tutta la durata della lotta, è stata agi-tata la minaccia di andare an-cora più ad est nell’Europa centro-orientale, “dove la produttività è circa il 50% di quella tedesca, ma il costo del lavoro è di circa un quarto”. Lo sciopero veniva propagan-dato dai media e da una parte crescente della stessa base sindacale come una pericolo-sa avventura. La fine dell’agitazione ha se-gnato quindi l´inizio del tra-monto della compattezza all’interno del più forte sinda-cato d´Europa. La clamorosa capitolazione – riconosciuta come tale anche dalla stesso IG-Metall – è il primo falli-mento dal 1954. Si è trattato di uno sciopero, nei confronti del quale la massa piccolo-borghese e la forte aristocra-zia operaia hanno chiesto l’in-tervento del Cancelliere, per-ché venisse sospeso. La pro-paganda è stata capillare: l’in-dustria automobilistica avreb-be avuto costi di produzione più che raddoppiati, avrebbe dovuto ridurre la sua competi-tività, i nuovi investimenti sa-rebbero stati scoraggiati in un’area del paese già depres-sa, con un tasso di disoccupa-zione doppio di quello della media nazionale. La sconfitta giunge in un mo-mento in cui il calo degli i-scritti è notevole: oggi l’Ig-Metall ne conta 2,58 milioni (con una perdita di 47mila nella prima metà di quest’an-no), mentre nel 1991 ne aveva 3,6 milioni. Questa debolezza è già visibile nell’accordo sin-dacale del maggio 2002, quando, partendo da una ri-chiesta del 6,5%, il sindacato ottenne un aumento medio del 3,4%. Anche il suo potere contrattuale si è eroso tra la fi-ne degli anni ‘60 e l’inizio de-gli anni ’70: allora riusciva a portare a casa l’80% di quello richiesto, ma già all’inizio de-gli anni ‘90 otteneva in media meno della metà. C’è poi da aggiungere la crescente cadu-ta della copertura contrattua-le: tra le aziende di beni di in-vestimento, soltanto il 60% degli addetti è coperto da con-tratto nazionale, contro l’81% di metà degli anni ‘90.

L’est della Germania è mobile

Il tanto vantato processo di convergenza economica tra i Länder dell’Est e dell’Ovest in effetti è durato un paio di anni: è servito per dare un “al-to” significato alla riunifica-zione nazionale, ma si è arre-stato all’inizio degli anni ’90, dopo una crescita rapida e il-lusoria soprattutto con il boom dell’edilizia. Scoppiata la bolla speculativa dell’im-mobiliare, il mercato si è tro-vato con un eccesso di offerta e l’industria delle costruzioni è entrata in una recessione dalla quale non è ancora usci-ta. Oggi, il tasso di disoccupa-zione all’Est è più del doppio rispetto alla media nazionale (19%, con punte del 22% in alcuni Länder). Gli stessi Länder tedesco-orientali in questi anni stanno rischiando contraccolpi negativi con l’al-largamento a est dell’Unione europea: la tentazione di mol-te imprese di aggirare le con-tee orientali e andare a pro-durre dove il costo del lavoro è molto più basso di quello te-desco e la flessibilità è supe-riore (Polonia, Romania, Un-gheria ecc) è già un fatto. L’impossibilità di equiparare i salari è il segnale che l’unifi-cazione ha finito di esprimere la sua illusoria carica ideolo-gica. Nell’immediato, la giu-stificazione politica aveva so-spinto in secondo piano gli a-spetti economici e sociali dell’integrazione. La Germa-nia orientale oggi è un ibrido fondato su alcune variabili che ne hanno distorto lo svi-luppo, dice la borghesia: il trasferimento finanziario del 4% del Pil non ha ottenuto gli effetti sperati, anzi ha radicato una “mentalità assistenziale” e accentuato “il senso di di-pendenza dallo Stato”. La crescita dei salari del 20-40% all’inizio degli anni ‘90 (supe-riore a quello della produtti-vità), il cambio alla pari del marco dell’Ovest e dell’Est (che ha privilegiato i dipen-denti pubblici), la riduzione del 10% della popolazione re-sidente (con la fuga all’Ovest della forza lavoro più giovane e professionalizzata) hanno suonato un allarme pericolo-so, che occorreva arrestare. La sconfitta delle 35 ore se-gnala dunque che il processo di convergenza a Ovest si è e-saurito: negli stati più poveri, come la Sassonia-Anhalt, la disoccupazione supera ormai il 20%, con una competitività un quarto di quella dell’Ove-st. La più colpita è l’industria automobilistica. Nei Länder orientali si assiste in questi anni a una riduzione delle grandi associazioni imprendi-toriali dal 36% al 16% fra il ‘93 e il 2000 – il che può si-gnificare come sia calata l’ap-petibilità della parte Est (un proletariato disposto a orari di lavoro più alti e salari più bas-si) e si preferisca investire al-trove. La percentuale dei di-pendenti assunti dalle grandi associazioni imprenditoriali è passata dal 76% al 34%, men-tre la percentuale di aziende che pagano salari inferiori a quelli negoziati collettiva-mente è aumentata dal 35% al 40% e la percentuale dei di-pendenti che riceve salari in-feriori a quelli negoziati è passata dal 12 al 29%. La disoccupazione dunque cresce in Germania con un al-to tasso nelle regioni orientali. Alla fine dell’anno si preve-dono 4,5 milioni di disoccu-pati. I dati sulla disoccupazio-ne (dicembre 2002: 28.000 senza lavoro in più, dopo i 35.000 di novembre) portano il totale a 4 milioni e 225mila, pari al 10,1% della popolazio-ne attiva. La situazione po-trebbe peggiorare nei primi sei mesi dell’anno prossimo, per poi schiarirsi (si dice) a partire dalla seconda metà. Tutto dipende, com’è ovvio, dalla “ripresa” sempre evoca-ta e da tre anni rinviata. Nello stesso pacchetto di misure, si discute della riduzione degli assegni di disoccupazione e di alcuni sussidi e si impone ai lavoratori qualificati senza la-voro di accettare un’occupa-zione a uno stipendio inferio-re a quello precedente.

Il contratto del pubblico impiego

Quest’anno si è svolta anche la trattativa per i contratti del pubblico impiego. Anche qui la crisi economica ha dettato le sue condizioni ferree in pie-na collaborazione con il di-sfattismo della confederazio-ne sindacale. Governo federa-le, Länder e comuni avevano offerto un aumento del 2,2% nel 2003 e dello 0,6 nel 2004: la confederazione sindacale ha chiesto il 3%. Il sindacato si era proposto anche di assi-curare l’avvicinamento dei salari dei lavoratori dell’Est a quelli dei lavoratori dell’Ove-st (stipendi diversi, ma prezzi delle merci ormai uguali). La rottura è venuta dai “datori di lavoro”, che hanno giudicato “troppo vicina alle richieste sindacali” la proposta di com-promesso. La confederazione rinuncia allora a un giorno di ferie e si dice disposta a ritar-dare per un anno l’inquadra-mento “regolare” dei nuovi assunti e di rinviare al 2007 l’equiparazione salariale tra Est e Ovest. Il governo chiede ancora un prolungamento del-la durata del contratto dai 18 mesi fino a un massimo di 24. Si arriva alla fine a un aumen-to medio soltanto del 2%. “In caso di mancato accordo, 2,8 milioni di lavoratori dei servi-zi pubblici, minacciava il sin-dacato, sono pronti a uno sciopero a tempo indetermi-nato”. Parole! Il patriottismo sociale alla fine ha vinto: per evitare che l’economia tede-sca, al limite della crescita ze-ro, precipitasse in recessione, l’accomodamento c’è stato. A conti fatti, gli impiegati dello stato, delle regioni e dei co-muni hanno avuto poco più del tasso di inflazione, stima-to per il 2002 all’1,3 per cen-to. La provocatoria proposta iniziale (aumento dello 0,9%: che avrebbe decurtato i salari al netto dell’inflazione) è stata battuta, ha gridato al sindaca-to. Non dice che il prezzo più pesante è la durata lunghissi-ma del contratto, che lega le mani ai lavoratori per 27 me-si. In quest’ arco di tempo so-no previsti tre scatti salariali: del 2,4% dal gennaio 2003 e due altri incrementi, ciascuno di un punto, a gennaio e a maggio del 2004. L’aumento lordo medio, su base annua, sarà appena del 2% - da cui si dovranno poi detrarre una se-rie di compensazioni: rinun-cia a un giorno di ferie; paga-mento dei salari non più a metà mese, ma alla fine; scat-ti d’anzianità dimezzati nel 2003 e nel 2004. E per finire solo nel 2007 i lavoratori dell’Est avranno finalmente le stesse paghe di quelli dell’Ovest... ma dovranno versare un contributo aggiun-tivo nella cassa pensioni (pari a due decimi di punto).

L’attacco generale in Francia

Le manifestazioni in Francia hanno mostrato la stessa difficile situazione. A metà giu-gno hanno scioperato scuole e ferrovie. Gli insegnanti erano in lotta contro lo smantella-mento del servizio pubblico, che si traduceva in un calo delle assunzioni di professori ed educatori di sostegno, oltre che nel trasferimento di pub-blici dipendenti con il decen-tramento, che assegna alla competenza regionale e di-partimentale 110mila lavora-tori. Si sono aggiunti i ferro-vieri, i quali hanno scioperato per protestare contro la libera-lizzazione imposta dalla Commissione europea, che i-nizia con il trasporto merci, ma che è destinata ad esten-dersi anche al trasporto pas-seggeri. Dietro le rivendica-zioni specifiche vi é il pro-gressivo smantellamento dei servizi pubblici (accelerato dal rallentamento economico fino alla recessione attuale e dalle minori entrate fiscali) e l’azione di equiparazione delle contribuzioni sulle pen-sioni pubblico-private da 38,5 a 42 anni. In discussione viene messa anche la legge sulle 35 ore di lavoro nell’industria. Si af-ferma che le 35 ore sarebbero state la causa del deficit pub-blico, che avrebbero frenato la competitività del paese. Si vogliono quindi rivedere i meccanismi della legge, la-sciando alle diverse catego-rie e alle aziende di ridiscute-re gli accordi sull’orario di lavoro, chiedendo nuovi am-morbidimenti dopo gli inter-venti del 2002 e in particola-re un aumento del numero delle ore di straordinario, og-gi limitate a un massimo di 180 ore l’anno. Tra l’altro, è stato firmato da tutti i sindacati, compresa la Cgt, l’accordo sulla forma-zione professionale con la Medef ( la Confindustria francese). Una parte della formazione professionale pe-serà non più sulle aziende, ma sui lavoratori per 50-80 ore l’anno durante il tempo libero del dipendente, fuori dunque dall’orario di lavoro. Le forti resistenze dei lavora-tori chimici e degli agroali-mentari non hanno potuto impedire la firma. La giusti-ficazione? Con l’innalza-mento dell’età lavorativa e dell’età pensionabile e le spinte della competitività, i lavoratori devono mantener-si in formazione continua e in esercizio. Dunque, nem-meno il tempo libero viene lasciato ai lavoratori: 50-80 di queste ore all’anno appar-tengono all’azienda e devono essere fornite fuori dall’ora-rio di lavoro! Nel campo delle riforme strutturali per ridurre il defi-cit della previdenza di 10 mi-liardi di euro nel 2003 e di 14 miliardi nel 2004, si aumenta il ticket ospedaliero dagli at-tuali 10 euro fino a 12-13, in attesa della riforma del siste-ma sanitario che sarà propo-sta il prossimo anno. Il bud-get della finanziaria è stato costruito su una crescita del 1,7% (a cui non si arriverà in nessun modo, a fronte degli ultimi dati economici), sul congelamento delle spese e sulla riduzione delle imposte sul reddito del 3% (per un to-tale del 10% in tre anni). Chi pagherà il mancato introito di queste imposte per 1,7-1,8 miliardi? Un primo segnale è lo sfoltimento dell’ammini-strazione pubblica con un ta-glio di 50.000 posti di lavoro e l’aumento delle imposte locali.

E come si sta in Gran Bretagna?

In Gran Bretagna, la condi-zione dei lavoratori è divenu-ta così penosa che le Trade U-nions hanno lanciato una campagna in difesa di un di-ritto fondamentale dei lavora-tori, quello di fare la pipì! Il ri-schio è di vedersi decurtato il salario di quasi 9 euro dalla busta paga – cioè un’ora di la-voro – per il tempo trascorso al bagno. Il sindacato si è fatto portavoce anche della pausa-pranzo: infatti, la maggior parte dei lavoratori consuma il suo pranzo nel posto dove lavora senza potersi allonta-nare. Per quanto riguarda il tempo di lavoro, quello setti-manale medio è di 43 ore, ma sono quattro milioni i lavora-tori che hanno ancora una set-timana di oltre 48 ore (350mi-la in più rispetto a dieci anni fa), mentre il 4% lavora alme-no 60 ore alla settimana. Le conseguenze più evidenti so-no l’aumento dello stress, il peggioramento delle condi-zioni di salute, l’aumento di ogni tipo di tensioni familiari. Le donne sono le più discri-minate: sono soprattutto loro a lavorare part-time, guada-gnando molto meno degli uo-mini. Inoltre, il salario mini-mo (introdotto dal governo New Labour) continua ad es-sere estremamente basso. An-che per questo (per riuscire cioè a racimolare uno stipen-dio sufficiente per affrontare un altissimo costo della vita), i lavoratori sono costretti a o-rari simili a maratone. I lavo-ratori di diverse categorie pre-mono dunque per l’aumento della paga oraria minima, che dovrebbe salire almeno fino a 5-6 sterline (circa 8-9 euro). Si discute intanto la possibi-lità di smantellare il servizio sanitario nazionale: accanto agli ospedali pubblici, si pen-sa di costituire un servizio pri-vato ospedaliero che snellisca il servizio pubblico e lo sem-plifichi riducendo le liste d’at-tesa – creando insomma poli di eccellenza per pochi e ac-crescendo la miseria dei mol-ti. Dopo questa trasformazio-ne i grandi ospedali potranno ottenere lo statuto autonomo di fondazione e rivolgersi al mercato per finanziarsi. Sul piano delle grandi trasfor-mazioni, dal 1° gennaio la London Underground ha dato in gestione a imprese private tre linee: Central, Nord e Pic-cadilly. Nonostante i ripetuti scioperi dal 1998 in poi, entro primavera il governo Blair firmerà l’accordo per la priva-tizzazione delle restanti otto linee della metro. Nelle 11 li-nee con 507 treni e 253 sta-zioni, lavorano 16.500 dipen-denti, più di 4.000 colletti bianchi, con una presenza an-nua di passeggeri di oltre 3 milioni – un giro d’affari di miliardi di sterline che, secon-do gli accordi sottoscritti dal New Labour, verrà affidato a imprese private per 30 anni, con un profitto annuo accerta-to pari a 2 miliardi di euro. L’impostazione thatcheriana, che aveva spezzettato le fer-rovie in tante aziende e picco-le imprese, avrà adesso il suo seguito e porterà licenzia-menti a catena. La lotta dei la-voratori contro i licenziamen-ti avrebbe dalla sua la conta-bilità: per ogni giornata di blocco, si perderebbero circa cento milioni di sterline. Le Unions metteranno invece al centro della contrattazione e della lotta la “sicurezza dei trasporti”: in breve, il sinda-cato laburista si prepara a “ri-vendicare” il divieto degli scioperi.

La situazione in Italia

In Italia, secondo le statistiche ufficiali, l’occupazione sareb-be aumentata e il tasso di di-soccupazione sarebbe sceso (con la nuova contabilità ri-guardante gli occupati) fino all’8,6%. Questo aumento non riguarda tuttavia i salaria-ti dell’industria, diminuisce l’occupazione dei lavoratori agricoli e cresce quella dei servizi per il 70%, mentre l’occupazione si concentra nella fascia di popolazione tra i 50 e i 59 anni, aumenta l’oc-cupazione femminile mentre la disoccupazione giovanile sfiora il 25%. Nel Meridione, la situazione è rimasta quasi i-dentica alla precedente rileva-zione, il tasso di disoccupa-zione giovanile è superiore al 60% in molte aree. Per quanto riguarda le pensio-ni, la nuova legge finanziaria pensa di innalzare dal gennaio 2008 gli anni di contribuzione previdenziale da 35 a 40: lo scopo è quello di far sparire la pensione di anzianità a favore di quella di vecchiaia. Tutti coloro che si trovano nella condizione di voler lasciare il lavoro dai 57 anni in su con 35 anni di contributi verranno stimolati a rimanere, con in-centivi del 32,7% defiscaliz-zati; gli altri verranno penaliz-zati di tanto quanto manca ai 65 anni. Non serve a nulla che il “Rapporto sullo Stato So-ciale” a cura dell’Inpdap – l’I-stituto nazionale di previden-za dei dipendenti dell’ammi-nistrazione pubblica – sosten-ga invece che il sistema previ-denziale è perfettamente in e-quilibrio ed è anzi prevedibile per i prossimi anni una dimi-nuzione della spesa per le pensioni sul totale delle spese, e che la spesa sociale italiana (pensioni, assistenza, sanità pubblica) sia tra le più basse d’Europa. Così si legge nel rapporto: “Con il sistema con-tributivo, a regime, e con i fu-turi coefficienti di trasforma-zione corrispondenti alle atte-se demografiche, il tasso di sostituzione [il grado di co-pertura della pensione rispetto alla retribuzione che si perce-piva] per un lavoratore dipen-dente con 35 annualità contri-butive sarà compreso tra il 45% e il 56% in base all’età di lavoro. Con il precedente si-stema retributivo il tasso era del 67%, indipendentemente dall’età di pensionamento”. Ciò vuol dire che le riforme delle pensioni degli anni pas-sati (Dini, Amato) hanno già modificato radicalmente il si-stema e hanno inserito le pen-sioni pubbliche nell’area di quasi povertà. Per tutti i lavoratori dipenden-ti, quando le riforme saranno pienamente applicate, la pen-sione da sola non sarà più suf-ficiente a sopravvivere. Per i lavoratori con contratto di la-voro coordinato e continuati-vo ( i co.co.co), sempre con 35 annualità contributive, il tasso di sostituzione oscillerà tra il 27% e il 34%. In parole povere, un lavoratore dipen-dente medio assunto a tempo indeterminato può solo spera-re di avere una pensione che sia almeno la metà del suo reddito attuale. Ma gli altri non avranno nemmeno questa “speranza”. Passando alle valutazioni d’insieme, il Rapporto osser-va che in Italia cresce la ric-chezza, ma cresce anche la povertà, sia quella relativa che quella assoluta (in condi-zioni di “povertà assoluta” nel 2001 sono stati censiti 3 mi-lioni di persone). Cresce an-che il valore della povertà re-lativa e crescono le disugua-glianze e le barriere, soprat-tutto in alcune aree e tra zona e zona. Le sperimentazioni del reddi-to minimo di inserimento e degli assegni ai nuclei fami-liari più poveri, con la Finan-ziaria 2003, sono state ampia-mente ridimensionate o addi-rittura cancellate. La situazio-ne di precarietà, l’estensione della flessibilità e dell’insicu-rezza dei nuovi lavori, spin-gono verso l’esclusione so-ciale e l’emarginazione. Per quanto riguarda gli ammortiz-zatori sociali (oggetto della trattativa per il Patto per l’Ita-lia), l’impatto dei cambia-menti ha fatto aumentare l’in-dennità di disoccupazione: nel 2001, è stata pari alla metà della spesa totale per gli am-mortizzatori sociali.

Che cosa bolle in pentola?

L’attacco politico-sindacale contro il proletariato, su sca-la europea e “in simultanea”, è dunque all’ordine del gior-no. La pressione economica obbedisce a quelle stesse leg-gi del capitale che hanno spinto in passato le potenti unità economiche di Usa, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Italia a unirsi e contrapporsi nella lotta per la spartizione del mercato mondiale. L’energia che le forze produttive hanno accumulato al fondo delle “zolle nazionali”, dopo mezzo secolo di relativo equilibrio, richiede oggi la trasformazione rivoluzionaria dei rapporti di produzione. Se la rivoluzione proletaria non è alle porte (come non lo è la guerra fra le grandi potenze impe-rialiste: si tratta per adesso del processo di costituzione delle alleanze prebelliche), lo è la necessità di un intervento straordinario sulle condizioni sociali delle masse operaie, sia nei riguardi dell’orario di lavoro e dei salari, sia sull’assistenza sociale e sulle pensioni, e lo è con un carat-tere d’urgenza. Il diktat che si dà agli interventi sulla classe, la divaricazione cre-scente in politica estera fra le grandi potenze, la creazione di aree continentali di inte-grazione economica (e l’illusione che l’accompagna) sot-to la pressione della crisi, che da più di un quarto di secolo non cessa di premere su di un contenitore non più adeguato a trattenere le forze produttive, tutto ciò induce a prospet-tare, certo non a breve, l’attraversamento della “zona delle tempeste”. In quella zo-na il proletariato sarà spinto a riprendere le armi di battaglia, teoriche, tattiche, orga-nizzative, conservate intatte dal suo organo-guida, il partito rivoluzionario di classe, attraverso il lungo e tortuoso cammino della controrivoluzione.

 

 Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2003)

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