La Legler è un’azienda tessile nata più di un secolo fa  nel bergamasco. Fino a poco tempo prima che negli stabilimenti fosse fermata la produzione – tra la fine del 2006 e l‘inizio del 2007 – , estorceva pluslavoro a 1400 operai: 500 nel bergamasco (Ponte San Pietro) e 900 nei tre stabilimenti sardi (Ottana, Siniscola e Macomer).

Gli investimenti in Sardegna, con grosse partecipazioni statali, risalgono ai primi anni ’70. Negli anni ’90, si ha la concorrenza dei prodotti asiatici e inizia un periodo di crisi che si ripercuote, ovviamente, sugli operai: licenziamenti, aumento dei ritmi di lavoro, cassa integrazione. Dal 2003, gli operai subiscono la cassa integrazione a rotazione. Nel frattempo, secondo un processo tipico di tutto il settore tessile, l’azienda decide di iniziare il trasferimento della produzione in Marocco, dove ottiene forti sovvenzioni statali, trova una mano d’opera più sfruttabile e non paga i dazi per l’esportazione nel mercato statunitense. 

Nel giugno 2005, davanti a una situazione senza prospettive per le aziende sarde e sotto la minaccia di una crescente combattività operaia, in un territorio già gravato da altissimi tassi di disoccupazione, la Regione Sardegna si propone di diventare azionista della Legler. Il piano prevede di convertire in azioni i crediti (50 milioni di euro) che la finanziaria regionale (SFIRS) vanta nei confronti dell’azienda. Secondo il piano di “regionalizzazione” dell’azienda, la sede legale verrebbe trasferita in Sardegna e lo stabilimento di Ponte San Pietro venduto per fare cassa. Da allora, tutta la vertenza viene incentrata e ingabbiata su questo punto. I sindacalisti vanno in fabbrica a promuovere questo progetto, presentato come la soluzione di tutti i problemi. Gli operai sardi si affidano alle istituzioni regionali ed entrano in concorrenza con gli operai di Ponte San Pietro: i quali, a loro volta, chiamano i politicanti borghesi lombardi a loro difesa. Nonostante questo inganno, che ha lo scopo di deviare la rabbia operaia, le pance operaie restano vuote. La lotta rinasce quindi spontanea per chiedere il pagamento degli stipendi arretrati e la garanzia sulla cassa integrazione. In questa fase, gli operai sardi si muovono compatti e nel marzo 2007 arrivano a bloccare gli inceneritori del nuorese. Davanti alla durezza delle lotte, viene data la notizia che l’acquisizione dell’azienda da parte della Regione Sardegna è cosa fatta. I capi sindacali vengono quindi mandati in assemblea a chiedere la smobilitazione, ma agli operai più combattivi questo risultato non basta. Continua il blocco degli inceneritori, ormai spenti. Allora, si promette un anticipo di 3000 euro sugli stipendi arretrati e la cassa integrazione, con i soliti inviti alla “ragionevolezza” e al “buon senso”. L’assemblea si divide, ma infine decide per la smobilitazione. Un mese dopo, ecco che esplode la notizia che l’acquisizione dell’azienda da parte della Regione era un bluff: la finanziaria regionale si sarebbe accorta che per investire negli stabilimenti in Marocco l’azienda si era esposta con le banche per altri 50 milioni di euro; e la Regione non vuole farsi carico di questo ulteriore debito. Gli operai apprendono la notizia dai giornali. I capi sindacali si lamentano di non essere stati informati e sono fortemente preocupati quanto alla propria capacità di frenare la rabbia operaia. “I sindacati temono che i lavoratori mettano in atto iniziative di lotta veramente dure, che temono di non riuscire a controllare. Molto infastiditi i sindacati di categoria dei tessili, che accusano la Regione di aver tenuto tutti all’oscuro, in particolare i lavoratori che sono i diretti interessati e rischiano di pagare sulla loro pelle il fallimento dell’iniziativa, per poi far uscire notizie che suscitano allarme e possono dare luogo a reazioni estremamente pericolose che le organizzazioni sindacali non sarebbero in grado di controllare. «Mi chiedo solo se questo è il modo di gestire una vertenza così delicata — dice Bobo Arbau, segretario dei tessili Uil, — mi stupisce che [si diffondano] notizie come questa mentre noi brancoliamo nel buio più assoluto. Se la protesta va fuori controllo e assumerà i contorni di un problema di ordine pubblico, la responsabiltà non sarà nostra» (La Nuova Sardegna, 22 aprile 2007). Serve aggiungere altro o è chiaro il ruolo da pompieri dei capi sindacali?

Ma al momento le paure dei sindacalisti sono, purtroppo, eccessive. Dopo la scoperta del bluff, è arrivata, tempestiva, l’annuncio della concessione della cassa integrazione. Mentre scriviamo, la vertenza si è ormai spenta, la Regione Sardegna è ritornata ancora sui suoi passi e ha fatto l’ennesimo annuncio di acquisizione dell’azienda, gli operai sono stremati da quattro anni di lotta, di delusioni, di sacrifici, di tentativi di mettere insieme il pranzo con la cena. Da parte loro, i capi sindacali hanno portato a termine il proprio compito: impedire che da questa esperienza di lotta nascesse un embrione di organizzazione con metodi e obiettivi classisti; far sbollire, tra promesse, smentite e frustranti rinvii, la rabbia operaia; isolare la lotta dei lavoratori della Legler dalle altre numerose vertenze del territorio. Anche le concessioni minime, promesse per soffocare le lotte, erano un bluff. Molti lavoratori, infatti, non hanno ancora ricevuto un euro della cassa integrazione. E gli stessi sindacalisti, con una bella faccia di bronzo, si ergono ora a paladini di questa causa: non sia mai che gli scappi di mano!

Ora, quelli che erano i 1400 operai della Legler sono senza prospettive per il futuro, e si vanno ad aggiungere all’esercito di riserva. L’unica “speranza” rimasta è che gli stabilimenti trovino un acquirente. Ma è una “speranza” che significa ristrutturazione aziendale, ossia licenziamenti e maggiore sfruttamento, in un nuovo ciclo infernale. Come se tutto ciò non bastasse, gli operai che hanno partecipato al blocco degli inceneritori hanno ricevuto gli avvisi di garanzia: sono accusati di “interruzione di pubblico servizio” e rischiano 5 anni di carcere. Anche se non si arriverà alla condanna, il senso di questi provvedimenti è di lanciare un avvertimento a tutti gli operai, in prospettiva dell’acutizzarsi delle contraddizioni rimaste irrisolte: guai a chi esce dalla prassi democratica!

Il compito di noi comunisti è quello di denunciare le manovre disfattiste dell’opportunismo e di non far andare perdute le lezioni di queste sconfitte. Noi diciamo ai lavoratori della Legler (come abbiamo fatto con un apposito volantino distribuito fra di loro in occasione di una delle ultime manifestazioni) che la delusione per le false promesse dei capi borghesi ed opportunisti deve trasformarsi in lotta per l’unità di tutti i proletari. Basta con l’inganno di un capitale sardo che farebbe gli interessi dei proletari sardi. Basta con la contrapposizione tra operai sardi e operai bergamaschi o marocchini. Bisogna con il frazionamento e isolamento delle lotte, anche e soprattutto sul territorio. La lezione da trarre dalla vicenda della Legler è che solo opponendosi con la forza della classe unita, che impara a diffidare di borghesi e opportunisti e crede solo in se stessa, si potrà porre un argine all’attacco continuo alle nostre condizioni di vita e di lavoro. Solo con l’esperienza di vere lotte di difesa classista, influenzate e dirette dai comunisti, si potranno costruire le condizioni oggettive e soggettive per la distruzione del sistema capitalistico. E quindi, solo allora, finalmente, porre termine alla tragica lotta quotidiana per il pane.

 

 

 Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2007)

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