Fra i luoghi comuni che l’ideologia italiota ha sempre coccolato a proposito delle migliori prestazioni dell’economia giapponese, il più cialtrone è sempre stato quello dello scambio nelle aziende nipponiche tra la sicurezza di un impiego garantito a vita e – ovviamente e non per caso – un salario basso, un patto che veniva propagandato ai proletari italiani come il modello da cui scaturivano tutte le altre mirabolanti virtù del modello giapponese (toyotismo contro fordismo, produzione just in time, etc.). La trasformazione metafisica di questo banalissimo patto sociale tirava poi in ballo la cultura del Sol Levante, la fedeltà e la dipendenza personale, l’onore e la responsabilità dello shogun rispetto al samurai e via cosi…

Quel che mai si è scritto e detto è che quel meraviglioso idillio è stato il frutto di una sconfitta terribile che il proletariato nipponico ha subito nel secondo dopoguerra nel corso di una lotta sociale paragonabile a quella del proletariato italiano nel medesimo periodo: con le analoghe sciagurate politiche degli stalinisti e dei socialdemocratici giapponesi e il coinvolgimento del sindacato nella politica di ricostruzione dell’economia nazionale.

Eppure, anche in Giappone la crisi (che lì ha picchiato più duro che altrove) costringe ai “cambiamenti”: apprendiamo infatti dall’Espresso del 31 gennaio 2008 che anche la “patria del lavoro a vita” sta diventando il regno della flessibilità e del lavoro precario e aumenta sempre più la disparità sociale. Questo progressivo attacco alla stabilità del posto di lavoro ha spostato la percentuale dei contratti (a termine) dal 15% degli anni ’80 al 33% degli anni ’90, coinvolgendo ormai un lavoratore su quattro.

Per l’economista Takashi Kadokura, il fenomeno è in continuo aumento e “sta trascinando il paese verso una povertà relativa sempre più diffusa e percettibile”. Anche l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica ci avvisa che il coefficiente che misura il grado di sperequazione sociale ha subìto un notevole incremento: dal 24% degli anni ‘80 (ben al di sotto della media europea che era del 34%) al 38% del 2007, raggiungendo le vette del mondo di più antica industrializzazione.

Per i nostri fratelli di classe, la vita è sempre più dura e accanto alle “tradizionali” malattie da lavoro (comprendenti anche i “traumi acuti”, i cosiddetti “incidenti sul lavoro”) compare adesso la conseguenza del progressivo immiserimento del proletariato. Un fenomeno ben noto a noi comunisti, che i sociologi borghesi (quelli stessi che, in pieno boom economico o in tempo di crisi incipiente, avevano “previsto” la fine della classe operaia e l’avvento dell’economia post industriale dove tutti sarebbero diventati... benestanti) hanno ribattezzato “working poor” e che in giapponese è diventata la sindrome sociale dei “waakingu-puaa”.

Già, “poveri al lavoro”; o meglio, “poveri pur lavorando”. E lavorando fin troppo. Come l’operaio Konichi Uchino, operaio “a termine” della Toyota, stramazzato al suolo a trentuno anni per infarto alla sua quarta ora di straordinario, dopo che nel mese precedente era riuscito a totalizzarne ben cento – un novello “stakanovista” o “martire del lavoro”!

In un nostro articolo del 1987, a proposito dell’economia giapponese, scrivevamo: “l’interdipendenza delle economie nazionali nel quadro di un mercato mondiale in subbuglio non poteva e meno che mai potrà nell’immediato futuro, non avere profonde ripercussioni sulla salute economica dell’Impero del Sol Levante. La sua situazione sociale e politica non può che risentirne.

Assisteremo tra non molto ad una ripresa della lotta di classe? Ce lo auguriamo”.

Non possiamo che rinnovare l’augurio, prima di dover avere troppi altri Konichi Uchino da ricordare e soprattutto da vendicare.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2008)

 

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.