Le vicende relative alle rivolte sprigionatesi nelle banlieues francesi tra fine giugno e inizi luglio scorsi, dopo l’assassinio a sangue freddo da parte degli sbirri di un giovane proletario nelle strade di Nanterre, sono abbastanza note perché si debba tornare a farne la cronaca: non basta infatti accumulare cifre, notizie dell'ultim'ora, nomi, ed episodi, per capire quanto andava succedendo.

Ci sembra che sia molto più utile, ai fini di una valutazione politica che serva al futuro, soffermarci su alcuni punti che a nostro parere sono significativi.

Innanzitutto, va rilevato che le rivolte scoppiate negli ultimi anni non hanno interessato solo le “periferie dell’impero”, con minore capacità di controllo, prevenzione e repressione sociale, ma le stesse antiche metropoli al centro: si pensi anche solo a quanto è successo negli USA nel 2020. Insomma: si scrive Nanterre, ma si può leggere Minneapolis, e viceversa…

Restando però alla Francia, bisogna sottolineare che, per estensione a livello nazionale e per dinamiche negli scontri, quel che è successo in quei giorni segna indubbiamente un salto rispetto alle rivolte esplose a fine 2005 nella cintura parigina, anche allora in seguito alla morte di due ragazzi inseguiti dagli sbirri. A caldo, scrivemmo allora: “la rabbia dei giovani proletari delle periferie, sfruttati, ghettizzati, strangolati da un'economia sempre più in crisi, perseguitati da una polizia che è ben nota per la propria spietata durezza e per il proprio ottuso cinismo, è esplosa improvvisa e inarrestabile: a dimostrazione, una volta di più, del malessere sempre più profondo che cova dentro la società del capitale, della violenza che trasuda da tutti i suoi pori, della sua totale e organica incapacità di risolvere uno solo dei problemi che essa stessa suscita. È tutto un modo di produzione che dimostra nei fatti la propria bancarotta e che i giovani proletari delle squallide e soffocanti periferie hanno messo sotto processo in maniera istintiva e diretta – con la rabbia e con la ribellione” [1].

Da allora, almeno due fattori vanno tenuti presenti: lo scoppio, nel 2008, della grande crisi globale da cui il modo di produzione capitalistico non è mai uscito, macinando ulteriormente le vite dei proletari delle periferie di tutto il mondo (e non solo); e, nell’arco dei diciotto anni trascorsi da allora, un significativo passaggio generazionale. Così, la miseria, l’alienazione, l’emarginazione e la rabbia sono dilagate in maniera esponenziale, e si sono scontrate, si può dire quotidianamente, con la repressione poliziesca, armata delle più moderne armi di distruzione di massa sviluppate a livello internazionale. È in questo scenario che è cresciuta la generazione dei petits, come sono stati chiamati i ragazzini e i giovani (fra i 13 e i 18 anni) protagonisti degli scontri recenti. Sotto la pressione materiale di questi fatti, le stesse banlieues si sono via via trasformate: una frattura di classe s’è evidenziata sempre più al loro interno, fra un proletariato destinato al precariato, alla disoccupazione, alla magra sopravvivenza giorno per giorno, e una piccolissima borghesia fatta di bottegai, ministri del culto, gestori di grandi magazzini, e via di seguito.

Questa frattura, già evidente nel 2005 [2], s’è allargata durante i giorni di rivolta. Come sempre, l’ipocrita canea dei benpensanti s’è scandalizzata per gli assalti ai supermercati e ai negozi all’interno di questi veri e propri ghetti. Ma quegli assalti che cosa mostrano se non proprio quella frattura di classe dentro le banlieues di tutta la Francia? Da una parte, proletari giovani e giovanissimi, rabbiosi, incazzati, senza futuro e senza speranze, e, dall’altra, un mondo che, in piccolo, non può che riprodurre le strutture dominanti e caratterizzanti l’universo borghese e piccolo-borghese.

Questa situazione ha riflessi interessanti, almeno nella loro potenzialità. In uno dei rari interventi relativamente lucidi che ci è capitato di ascoltare, un sociologo di fama come Marc Lazar ha dichiarato in modo esplicito che i petits non si sentono “né francesi” (perché “l’integrazione” non ha funzionato: guarda un po’!) “né algerini o marocchini o tunisini”. Ora, noi non abbiamo la possibilità di verificare la reale consistenza di quest’affermazione: d’altra parte, è molto probabile che così sia, poiché, per la loro giovanissima età, i petits sono ormai ben lontani tanto dalle generazioni protagoniste delle “lotte per l’indipendenza algerina” degli anni ’50 e ’60 del ‘900, quanto dalle sovrastrutture religiose che per decenni hanno soffocato o incanalato in vicoli ciechi l’insofferenza e la rabbia (come il radicalismo islamico nelle sue varianti). Se così fosse, ci troveremmo effettivamente davanti a giovani che sopravvivono e si muovono in una terra di nessuno sociale e, nel loro agire, proclamano, inconsapevolmente, la propria condizione di proletari puri [3].

Fin dagli inizi, il comunismo ha sempre sottolineato come il capitale sia costretto a produrre i propri becchini. Nel Manifesto del partito comunista (1848) si mostra come lo stesso sviluppo dell’industria produca un proletariato sempre più numeroso: il capitale ha agglomerato la popolazione, e il proletariato viene addensato in masse più grandi. Dal 1848 passiamo all’oggi: che cosa sono infatti le banlieues? Un enorme concentrato di popolazione proletaria, che si conta a milioni. Dialetticamente, gli elementi su cui si basa l’accumulazione allargata del capitale francese, ossia gli extraprofitti dello sfruttamento delle ex-colonie e del proletariato a basso costo che ne proviene, si ritorcono contro lo Stato borghese. L’area metropolitana di Parigi ha una popolazione complessiva di 12 milioni di persone: di questi, 10 milioni abitano nelle banlieues, e di questi più della metà sono proletari puri, con un tasso di povertà che supera spesso il 40%. I sociologi borghesi parlano di “territori persi dalla Repubblica” [4].

Non si parli quindi, genericamente, di razzismo. Il razzismo (della politica, della cultura, dei media, delle “forze dell’ordine”, e via di seguito) è una delle modalità operative con cui si manifesta e si applica la repressione anti-proletaria, come unica e vera religione di Stato [5]. Si tratta invece di una guerra di classe, di cui le giornate di scontri nelle banlieues francesi costituiscono il capitolo più recente, da aggiungere ai molti episodi di rivolta verificatisi nel tempo: ad esempio, negli Stati Uniti, e in circostanze assai simili.

***

Ma passiamo a un altro punto, molto dibattuto in quei frangenti, in Francia come altrove. Ogni giorno, in tutte le periferie del mondo, la violenza poliziesca colpisce i proletari, giovani o meno: e anche solo suggerire, come spesso si sente fare, la necessità di “riforma della polizia”, di una sua “formazione più adeguata”, di un “defunding” (taglio dei fondi) o addirittura di un “disarmo” delle “forze dell’ordine” è un modo ingenuamente criminale per chiudere e far chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Nel comunicato che abbiamo diffuso in rete, lo dichiaravamo a chiare lettere: “Ogni organizzazione di gendarmi, quale sia il pittoresco titolo che le dà ogni Stato, è il corpo preposto a difendere la proprietà borghese: cioè il ‘privilegio’ di appropriarsi e spartirsi ‘l'appropriazione privata’ di quel che noi proletari produciamo socialmente (vale a dire, tutti insieme) mentre siamo usati dalle forze produttive monopolizzate e difese con le unghie e con i denti dall'impersonale classe borghese, nelle sue aziende, nei suoi magazzini, nei suoi empori, nelle sue scuole... E preposto a difendere l'‘ordine pubblico’ che non è la serenità che tutti desideriamo di vivere in un ambiente sociale tranquillo e beneducato, ma il clima sociale in cui le nefandezze della società del Capitale (dalla violenza della libera concorrenza del tutti contro tutti alle innumerevoli manifestazioni della alienazione e reificazione di noi umani ridotti a venditori di forza lavoro) possano proseguire indisturbate, tollerando solo la critica del borbottio, del piagnisteo e tutt'al più dell'indignata e perfino violentemente reclamata proposta di una riforma...” [6].

Di fronte alla inarrestabile rabbia dei giovanissimi proletari, lo Stato francese, “modello di libertà e democrazia”, ha schierato 45 mila sbirri, comprese le teste di cuoio, e nonostante questo, non riuscendo a fermare i pericolosissimi ragazzini proletari, ha pensato di ricorrere alla censura dei social. Infatti, come abbiamo visto in altre situazioni analoghe in anni recenti, i manifestanti per coordinarsi hanno utilizzato strumenti che la borghesia vorrebbe utilizzare per il controllo sociale ma che le si ritorcono contro! Di fronte alla ribellione dei giovani delle banlieues (una ribellione, ci importa sottolineare, ancora molto istintiva, individuale, marginale: ma come altro poteva essere, nelle condizioni attuali?), la dittatura democratica borghese mostra la sua vera essenza [7].

Eppure, a Parigi e – pare – soprattutto a Marsiglia, oltre che in varie altre città e paesi della Francia più o meno profonda, i petits hanno tenuto in scacco una delle polizie notoriamente più agguerrite, feroci, armate ed esperte nel controllo e nella repressione (un’esperienza che viene da lontano, fin dal passato coloniale), mostrando un’invidiabile capacità organizzativa e tattica.

Ma ciò può bastare? Sempre nel comunicato di cui sopra, sottolineavamo che noi comunisti “non ci accontentiamo di salutare con entusiasmo il rogo dei simboli del potere”, ben memori di quanto è parte integrante della strategia rivoluzionaria dei comunisti, sinteticamente così riassunta da Marx nell’Indirizzo del 1850 del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti: “Ben lungi dall'opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su persone odiate o su edifici pubblici cui non si connettono altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve prendere in mano la direzione” [8].

Ora, questa direzione non può essere altro che quella del Partito rivoluzionario, che riproponga con forza il problema cruciale del generale riarmo (teorico, politico, organizzativo, tattico-strategico) del proletariato, senza il quale non c’è generosa rivolta che possa portare all’abbattimento del potere borghese. Nei giorni della rabbia e in quelli successivi, al di là dei prevedibili inni romantici alla rivolta (se non, addirittura, all’insurrezione, o a una “guerra di classe” che, purtroppo, sta ancora nei sogni dello spontaneismo di ogni origine e diramazione, visto che per il momento la “guerra di classe” la conduce la classe dominante contro il proletariato) e degli immancabili appelli alla necessità di “ricalibrare la teoria comunista” (sì, perché non ci si sarebbe accorti della nuova... “composizione di classe” di un proletariato non più... chiuso nella fabbrica – bum!), qualche timido accenno alla necessità della direzione politica rivoluzionaria s’è affacciato, qua e là, ma in maniera talmente flebile da risultare un appello fine a se stesso: la “questione dell’organizzazione “, “il ruolo della sintesi politica (del programma)”, “il radicamento reale d’una frazione di comunisti in seno alla classe”... Ma perché non dire apertamente che quello che manca e a cui bisogna lavorare (duramente, in profondità e in estensione, senza illusioni di scorciatoie o di accelerazioni volontaristiche) è il Partito, fondato sulla catena i cui anelli non possono essere staccati o isolati: teoria-principi-programma-tattica-organizzazione? Perché non dirlo apertamente, e al contempo rimboccarsi le maniche e lavorare seriamente a esso?

In un altro articolo, uscito a ridosso delle rivolte nelle banlieues del 2005, scrivevamo: “Il percorso che va dalle rivolte (cieche, spontanee, istintive, distruttive, come tutte le rivolte, sempre) alla rivoluzione è lungo e tortuoso. Soprattutto, non è lineare, non è progressivo. È illusorio immaginare una ripresa classista che avanzi liscia come l’olio, grazie a una rinnovata (non si capisce come e perché) consapevolezza della classe operaia, che sa, conosce, sceglie, e torna finalmente a muoversi, sciogliendo tutti i nodi, superando tutte le contraddizioni, procedendo per un accumulo geometrico di forze numeriche e politiche. La lotta di classe non è questo. Chi illude e si illude che lo sia rende un pessimo servizio al proletariato. La lotta di classe (e soprattutto la sua ripresa, dopo ormai più di settant’anni di controrivoluzione [oggi, i settant’anni sono diventati quasi novanta – NdR] è ben altro: è un cammino contraddittorio, fatto di impennate e ricadute, di avanzate e arretramenti, lungo il quale la classe proletaria (gravata di tutte le inerzie, di tutte le porcherie, di ‘tutta la vecchia merda borghese’, come la chiamava Marx) tornerà a battersi per i propri interessi immediati e storici – e lo farà scontrandosi con tutte le forze che le sono avverse, ma anche con tutte le contraddizioni che si porta dentro e dietro, e che l’avvolgono, premono e minacciano da ogni parte. Non una classe proletaria astratta, mitica per purezza e omogeneità, incorrotta e incorruttibile, che sa già per che cosa lotta, che conosce i propri nemici, che ha chiari i propri fini,  che avanza compatta, dalla fabbrica alla strada, dalla strada al potere. Ma la classe proletaria prodotta dal capitale, che è sì portatrice di un nuovo modo di produzione, ma lo è solo in quanto si riconosce nel partito rivoluzionario: e non per un’improvvisa illuminazione, ma grazie al difficile, complesso lavoro che questo partito ha saputo svolgere a contatto con essa, nel lungo periodo controrivoluzionario prima e nel pieno della crisi economica poi. Questo lavoro non può essere aggirato o accorciato con atti di volontà, siano essi generosi o avventuristi – va fatto e basta. Solo allora il partito potrà ‘rivelare la classe a se stessa’ e la classe riconoscere nel partito la propria avanguardia. Solo allora la crisi di direzione della stessa borghesia, da sterile (e anzi putrescente e ammorbante) situazione di stallo, diventerà un’altra fertile precondizione rivoluzionaria. Solo allora le condizioni oggettive e quelle soggettive tenderanno sempre più a convergere e le rivolte prenderanno un segno non più soltanto disperato. Solo allora l’insurrezione e la presa del potere saranno, finalmente, all’ordine del giorno” [9].

A distanza di diciotto anni e nel contesto di un aggravamento e approfondimento della crisi del modo di produzione capitalistico (guerre, dissesti economici e finanziari, distruzione dell’ambiente, abbrutimento della vita sociale, ecc.), questa necessità risulta oggi ancora più impellente. Lavorando per essa, potremo allora strappare i petits e ogni altro ribelle istintivo alla disperazione, alla frustrazione, alle illusioni di ogni genere, e alla feroce repressione e militarizzazione dei quartieri proletari definiti “problematici”.

[1] “Dal disastro di New Orleans alle periferie in fiamme di Parigi, altre verità semplici per il proletariato”, il programma comunista, n.5/2005.

[2] “i comunisti devono affermare con forza che i ribelli delle banlieues sono proletari, contro tutte le manovre in atto volte a presentarli semplicemente come ‘immigrati’ o come appartenenti a questo o quel gruppo etnico o nazionale o religioso”, in idem.

[3] L’esclusione è scritta fin nella parola banlieu, risultante dall’unione dei termini “ban”, cioè mettere al bando, e “lieu”, luogo. Banlieues, dunque, sono dunque “i luoghi messi al bando”. D’altra parte, "non scoppiano forse tutte le rivolte, senza eccezione, nel disperato isolamento dell'uomo dalla comunità [Gemeinwesen]?” (Karl Marx, “Glosse marginali di critica all'articolo Il Re di Prussia e la riforma sociale”, 1844).

[4] Sempre a proposito di concentrazione della popolazione: quasi il 20% dei francesi abita nella regione parigina.

[5] Vedi “Repressione e militarizzazione della società, unica e vera religione di Stato”, il programma comunista, n3/2023, uscito pochi giorni prima dello scoppio delle rivolte.

[6] “Francia: Mentre infuriava la rivolta...”, https://www.internationalcommunistparty.org/index.php/it/165-flash/3385-francia-mentre-infuriava-la-rivolta.

[7] Passata la buriana, il 14 luglio, la grande festa della Repubblica Francese, massimo emblema della rivoluzione borghese contro l’ancien régime, si è svolta in una nazione blindata, un vero e proprio stato di emergenza: 130mila agenti schierati nelle principali città della Francia, forze speciali, elicotteri e blindati per la paura di un riaccendersi delle rivolte; nella sola capitale, circa 45mila poliziotti e gendarmi, unità d'élite, droni e anche veicoli blindati armati sono stati impiegati nel dispositivo di sicurezza. Questa la fraternité… della repubblica borghese, diventata essa stessa ancien régime.

[8] Il rimando a un altro nostro testo classico è d’obbligo: “Evviva i teppisti della guerra di classe! Abbasso gli adoratori dell’ordine costituito!”, il programma comunista, n.14/1962, scritto all’indomani di una delle molte esplosioni di collera proletaria (Torino, luglio di quell’anno), subito stigmatizzata, dalla stampa borghese e opportunista, come oprea di “teppisti”.

[9] “Ancora sui disordini nelle periferie francesi. Di fronte ai contraccolpi sociali della crisi economica, lo Stato borghese e l’opportunismo mostrano in pieno il loro volto”, il programma comunista, n.1/2006.

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