Dal 19 luglio di quest'anno, una gragnuola di provvedimenti giudiziari ha colpito dirigenti e attivisti del S.I. Cobas, a partire dal suo coordinatore nazionale.

Oltre ai “tradizionali” reati legati alla conduzione delle lotte (violenza privata, interruzione di pubblico servizio, et similia), i giureconsulti di parte padronale intendono scrivere un nuovo capitolo. Siccome, durante le azioni sindacali, il blocco delle merci e della produzione causa danni economici e di immagine (com’è ovvio e necessario, nonostante il ricorso aziendale a ogni forma lecita e illecita di crumiraggio) e sebbene l'esito di alcune vertenze sia risultato, alla breve o alla lunga, sfavorevole ai lavoratori costretti ad aprirle e condurle con energia e durezza, oltre ai risvolti penali si procede alla causa civile per il risarcimento economico. A carico degli inquisiti, il danno e la beffa: non solo alla fin fine hanno perso il lavoro (e le ore di salario perse, durante gli scioperi), ma se il procedimento dovesse andare a buon fine dovrebbero pure risarcire dirigenti, padroni e padroncini dell'intricato bosco e sottobosco delle “cooperative” e “SRL” di appalti e subappalti! Un precedente che costituirebbe una nuova e pesante intimidazione per ogni lotta futura e un ulteriore ricatto con cui i sindacati tricolori (gli unici così “ricchi” da poter promettere e permettere una copertura finanziaria adeguata) possono tener calmi i lavoratori. Già, perché se questo precedente si verificasse, il S.I. Cobas, che, pur utilizzando la ritenuta sindacale diretta sulla busta paga delle troppo poche migliaia dei suoi iscritti per svolgere le proprie attività, verrebbe finanziariamente strangolato.

E non basta. Proprio perché queste lotte sono collettive, nella loro organizzazione si vuole vedere un’associazione a delinquere che, con il ricatto della sospensione delle attività, avrebbe “scopi estortivi e metodologie mafiose” – roba da “41bis”!

Questa new wave inquisitoria è stata poi applicata anche nelle persecuzioni giudiziarie ai danni di alcuni collettivi di quartiere che aiutavano famiglie indigenti o sfrattate a ottenere, con l'occupazione diretta di alloggi di proprietà pubblica tenuti vergognosamente vuoti, abitazioni decenti.

Con il procedere della crisi e l'approfondirsi dei relativi disagi, lo Stato, a partire da questi primi e  (purtroppo!!) minoritari episodi di lotta di difesa economica e sociale, si prepara a criminalizzare ogni movimento che si rifiuti di lasciarsi impastoiare dalla routine della concertazione consentita per legge.

Le avvisaglie di questa strategia, non certo nuova per la legislazione borghese, si sono viste fin dal trattamento che subirono, nei primi anni di questo nuovo millennio, gli attivisti del movimento No Global, con tanto di morti in Italia come in Svezia e mano libera alle forze dell'ordine nella più violenta repressione – attivisti, va detto per inciso, che non erano per niente rivoluzionari nella loro “radicale” richiesta di “un altro mondo possibile” nel quadro delle stesse regole della mediazione democratica borghese (non mettendo dunque sotto accusa il modo con cui, tramite lo sfruttamento del lavoro salariato e delle risorse naturali, si crea quella stessa ricchezza che si vorrebbe redistribuire!...). Come l’hanno subita e continuano a subirla gli attivisti del vasto movimento di opposizione allo scempio della Val Susa e quegli anarchici che hanno osato prendere a colpi di petardi qualche stupido simbolo della dittatura del capitale...

Per altro, queste ultime vicende di ordinaria, ultrademocratica, repressione giudiziaria scatenata ai danni di alcune avanguardie sindacali, dei combattivi lavoratori della logistica e di altre categorie sfruttate e sottopagate (con una significativa presenza di lavoratrici immigrate, spesso madri single), e di chi si è fisicamente schierato al loro fianco nei picchetti e nelle altre azioni di lotta, non fanno altro che confermare quanto l'analisi critica comunista ha constatato fin dal primo apparire della società borghese: le leggi di ogni Stato, quale che sia il suo ordinamento e la sua carta costituzionale, servono fondamentalmente a garantire non tanto e non solo una generica proprietà privata quanto e soprattutto quella particolare proprietà borghese esercitata da chi compra la forza lavoro per utilizzarla nei più svariati processi produttivi. 

Lo Stato, nella sua concretissima illusione di garante della mediazione tra le parti sociali, certifica che il prezzo della forza lavoro (pur variabile, in ossequio al dogma della domanda e dell'offerta, ma mai superiore al costo sociale medio nel momento storico dato della produzione e riproduzione dell'insieme dei lavoratori) è sempre quello giusto e che chi la compra la può e la deve usare come si conviene: cioè, per produrre (o favorire la produzione di) plusvalore (valorizzazione del capitale).

Chi si ribella a questo dogma, chi si ribella all'ordinamento mutevole e generale con cui lo Stato nella sua funzione di capitalista collettivo regola la contrattazione del costo del lavoro inevitabilmente cade nelle grinfie della sua giustizia – la quale è ben consapevole di avere il coltello dalla parte del manico (e non solo per i famosi due pesi e due misure, per cui comunque la legge è uguale per tutti, ma per alcuni è più uguale...), e quindi può permettersi i tempi lunghi della vendetta. Mentre i lavoratori lottano, lo Stato, pur applicando il monopolio della violenza quando utilizza le proprie forze di polizia per rompere i picchetti e, di fatto, lo sciopero (e guai a difendersi! se cerchi di “darle indietro”, o anche solo se non sei così veloce da evitarti le botte, incorri come minimo nel reato di “resistenza a pubblico ufficiale”...), lo Stato si offre col materno ruolo di mediatore: sembra darti ragione e, pur di far riprendere al più presto la produzione, garantisce e fa accogliere qualche richiesta. Ma lo fa ben sapendo che, prima o poi, inevitabilmente, la lotta smonta, che intervengono altre leggi o, molto più banalmente, la riorganizzazione dell'uso della forza lavoro (ristrutturazioni, spostamenti dei siti produttivi, ecc.), e allora scatta la sottile repressione postdatata.

A differenza del primitivo Stato liberale, il più evoluto Stato imperialista ha imparato che, al posto di usare solo aperte forme di repressione della lotta di difesa economica e sociale, è più utile ed efficace regolamentarle con tutta una serie di leggi e istituti che formalmente non vietano le forme di pressione proletaria sul padronato, ma le rendono innocue. La stessa organizzazione di difesa economica è stata progressivamente riconosciuta indispensabile per determinare il giusto prezzo del lavoro e gestire col minimo conflitto possibile la forza lavoro. E, più o meno velocemente, è stata trasformata da indispensabile e combattivo sindacato dei lavoratori in apparato che previene, regolamenta, anticipa la conflittualità e concorre con le altre istituzioni dello Stato a determinare il costo del lavoro più vantaggioso per lo sviluppo economico della comunità nazionale.

Che poi questo moderno sindacato concertativo, tipico nella sua funzione della fase imperialista del modo di produzione capitalistico, si presenti più o meno conciliativo e/o più o meno combattivo a seconda dell'ordinamento particolare di questo o quello Stato in cui opera e a seconda di come debba assorbire e smorzare la combattività di questo o quel settore dei lavoratori (da tenere ben separati, nel chiuso delle loro categorie, aziende e perfino tipologie contrattuali), dipende dalla tipologia specifica del personale che lo dirige, dalla sua capacità di abbindolare gli iscritti e dal grado di “incazzatura” dei lavoratori.

Ma il diavolo borghese, pur producendo questa funzionale pentola riformista, dimentica di fare il... coperchio: l'andamento dell'economia borghese, disordinata e divorata dall'ossessione dell'auto-valorizzazione del capitale per scontare la malattia congenita della caduta tendenziale del saggio medio di profitto, costringe comunque i proletari alla lotta, come minimo per adeguare i salari al costo della vita. Le leggi, i regolamenti, l'organizzazione del sindacato imperialista rallentano la capacità e la volontà organizzativa della nostra classe. Ma, parafrasando un noto motto,non possono fermare il vento: fanno solo perdere tempo!”.

Purtroppo, la ripresa di un vasto movimento di lotta non ha (e non avrà mai) un andamento meccanico e lineare, con un cumulo continuo di energia che arrivi al punto di rottura. Le lotte esplodono e implodono, settori proletari avanzano e poi rinculano, alcune lotte riescono a rompere gli steccati delle aziende e delle categorie. Ma l'esito stesso della contrattazione rappresenta il limite e la conclusione della lotta stessa: è il confine che la rivendicazione puramente economica pone alla lotta economica in quanto tale.

Eppure, nonostante questo limite, ogni lotta che comunque si sviluppa, rompendo le catene delle regole e della mentalità del sindacalismo più interessato alla situazione delle aziende e dell’economia nazionale, è importantissima per indicare la strada per la ripresa di un movimento generalizzato di rivendicazioni economiche. Movimento che costituisce uno dei principali terreni di scontro tra la conservazione riformista e la capacità del processo rivoluzionario di spingere la lotta di classe fino al suo esito più radicale.

Avanzate e rinculi: come nel caso del poderoso movimento dei lavoratori della logistica (e degli altri trascinati dal loro esempio), che ha visto i suoi più alti momenti di lotta con importanti vittorie normative e salariali dal 2012 al 2018 circa, per poi assestarsi e cominciare a subire i danni delle ristrutturazioni e delle riduzioni di personale, fino a quest’ultimo periodo nel quale non riesce più a dispiegare la forza originaria.

Non è questo il momento di spiegare le ragioni oggettive e soggettive di questo rinculo: ma esso è il pretesto e la ragione per cui proprio ora si può scatenare la repressione giuridica dello Stato e l'attacco a quel che rimane (e resiste) di un generoso momento di lotta.

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