Un secolo fa, ai primi di agosto 1922, il proletariato di Parma si oppose vittoriosamente, armi alla mano, all’ingresso in città dei fascisti comandati da Farinacci e Balbo. La vicenda è assai nota perché ci si debba tornare su in maniera dettagliata e cronachistica. Sappiamo bene, tuttavia, che ha offerto lo spunto per una vera e propria “epica” di stampo spontaneista e movimentista (oltre che d’origine stalinista) volta a presentare l’azione coordinata dei diversi gruppi di difesa proletaria, e in particolare degli Arditi del Popolo, come un’anticipazione della successiva Resistenza anti-fascista e a criticare l’atteggiamento (“settario”, è ovvio!) del PCd’Italia diretto dalla Sinistra, giustamente diffidente nei confronti di organizzazioni para-militari a dir poco equivoche e impegnato, in quegli stessi mesi, a rafforzare e radicare la propria struttura militare. La verità storica è, al contrario, che le “squadre comuniste” si batterono insieme ad altre formazioni proletarie, mantenendo tuttavia una propria indipendenza militare sul campo [1].

Di certo, senza comprendere ciò che, in quelle settimane, stava accadendo sul piano più generale della lotta di classe in Italia, si finisce per isolare e mistificare i “fatti di Parma”. Il proletariato era infatti reduce da un doppio tradimento da parte riformista e sindacale: quello dello sciopero dei metallurgici e quello del cosiddetto “sciopero legalitario”, proclamato dall’Alleanza del Lavoro senza alcuna preparazione reale e poi, mentre ovunque il proletariato si batteva con vigore e determinazione, sospeso precipitosamente [2]. Si trattò di un’ulteriore dimostrazione del fatto, sempre rilevato dalla Sinistra, che è proprio il riformismo democratico (politico e sindacale) a disarmare il proletariato e a consegnarlo poi alle grinfie della controrivoluzione: successe in Italia, come succederà di lì a poco in Germania e altrove.

Proprio a smentire le accuse di passività e sottovalutazione del “pericolo fascista”, sempre mosse al PCd’I diretto dalla Sinistra, è bene ricordare che i “fatti di Parma” non furono i soli a dimostrare, concretamente, come il Partito stesse organizzandosi illegalmente e militarmente per contrastare la repressione statale e l’avanzata dei fascisti: non però nell’ottica, comune alle altre formazioni “resistenti” (cioè di “ripristinare le libertà democratiche minacciate”), bensì di rispondere all’attacco con l’attacco, nella prospettiva di affermare le condizioni soggettive (il proletariato in lotta diretto dal suo Partito) per muovere contro il sistema capitalistico e tutte le sue articolazioni politiche, e certo non di ripristinare un illusorio “prima” fatto di idilliache “libertà civili”.

Non solo. Dai “fatti di Parma” come da altri eventi concomitanti, risulta con grande chiarezza come siano state le forze regolari dello Stato democratico italiano (carabinieri, polizia, esercito, marina) a far pendere la bilancia a favore della successiva repressione per mano delle squadracce fasciste. Ad Ancona e a Bari, per esempio, ci fu prima l’aperta repressione “legale”, condotta dallo Stato, e poi l’intervento delle squadracce che completarono l’opera; mentre a Parma, dove le “forze regolari” stettero a guardare, i fascisti andarono incontro a una sonora legnata. Una lezione che andrebbe imparata da tutti i “sinceri democratici” o “resistenti dell’ultima ora”, ma che per loro è troppo dura da digerire!

Ci sembra dunque utile riprodurre un capitoletto tratto dal volume V della citata nostra Storia della Sinistra Comunista, che ripercorre gli eventi di quelle settimane, con ampio materiale documentario.

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La disperata resistenza al dilagare fascista

Nonostante tutto, ancora una volta la classe operaia rispose all’invito di sciopero in modo straordinariamente compatto e deciso, aderendo con grande slancio alle direttive impartite dalle sezioni del PCd’I, dagli organi di stampa, dalle circolari e dai bollettini informativi e per il coordinamento dell’azione, che il partito diramava tutti i giorni. Esso segnalava il “soddisfacente collegamento” che assicurava l’unità di azione delle forze comuniste e invitava i proletari a non prestar credito alcuno alle “risibili notizie sparse nel silenzio della grande stampa”, sottolineando che “lo sciopero nazionale è riuscito: solo il modo della sua proclamazione ha determinato in alcune città un lieve indugio nella attuazione” (Bollettino del 1° agosto). Il giorno dopo, un altro Bollettino riportava “la sensazione del completarsi del movimento. Tutto il proletariato è in piedi […] l’ordine per i comunisti è la lotta fino all’ultimo, la lotta a fianco degli operai e contadini di ogni fede politica, che formano il fronte unico di fatto nel movimento diretto dalla Alleanza del Lavoro [AdL]. La nostra mobilitazione di partito è completa. Dai dirigenti all’ultimo gregario tutti sono al posto loro assegnato e fanno il loro dovere” [3]. Con la dichiarazione di cessazione dello sciopero, si scatenava la reazione fascista. A Milano, erano incendiati alcuni circoli comunisti, veniva assaltata e incendiata la sede dell’Avanti! e un manipolo di fascisti entrava a Palazzo Marino, dal cui balcone D’annunzio rivolgeva un invito al “genio della stirpe” affinché facesse scaturire nei presenti “la favilla che farà domani il grande incendio della bontà” (!) [4]. A Trieste, si registrava l’assalto fascista alla sede del Lavoratore; a Bologna, la Camera del Lavoro era data alle fiamme; in Piemonte, si registravano nuove forti concentrazioni di fascisti a Casale e a Torino.

Mentre le squadracce imperversavano, il governo chiedeva ai suoi “figli” di desistere da ogni azione violenta e il neo Ministro degli interni deliberava il passaggio dei poteri all’autorità militare nelle province di Genova, Milano, Ancona, Parma e Livorno. A Genova, l’obiettivo fascista era lo scardinamento del clientelare sistema delle cooperative del socialismo riformista, che controllavano tutte le attività lavorative del porto (carico, scarico, pulizie, turni di lavoro, organizzazione dei disoccupati, ecc.). Forti contingenti fascisti in arrivo da Toscana e Piemonte entrarono in città, ove si scatenò una battaglia cruenta; in molte vie si eressero barricate e per un paio di giorni gli scontri proseguirono ovunque; infine, il 5 agosto, dopo l’incendio della sede del Lavoro (il giornale dei socialisti riformisti), era ordinato lo stato d’assedio. Una corrispondenza del 6 agosto riportava la sensazione di “ribollimento e rabbia […] Gli operai hanno visto lacerati tutti i loro passi, rovinate tutte le loro organizzazioni, tutte le loro cooperative di lavoro […] ogni lavoratore guarda a queste rovine con sbalordimento e parla del Partito Comunista come di una Cassandra, che disse il vero e non fu creduta in tempo”[5].

La resistenza opposta dal proletariato di Parma è troppo nota perché sia necessario ripercorrerne nei dettagli la vicenda. Nella città, da anni roccaforte del sindacalismo rivoluzionario (Bianchi, de Ambris, Corridoni e altri avevano diretto la locale Camera del Lavoro), era stato organizzato un forte gruppo di Arditi del Popolo, sufficientemente armati e abbastanza esperti nella tecnica della guerriglia. Quando, il 2 agosto, Farinacci giunse in città alla testa di migliaia di fascisti, fu accolto a fucilate; né il successivo sopraggiungere di Balbo, con altre squadre, riuscì a produrre risultati se non la distruzione di una tipografia e di alcuni circoli di ferrovieri. L’arrivo di reparti dell’esercito fu accompagnato da alcuni casi di solidarietà tra insorti e soldati, e la forte resistenza opposta dal quartiere Oltretorrente convinse infine le autorità civili e militari (con l’indignazione dei fascisti, che preferirono tenersi al coperto) a sospendere ogni ulteriore tentativo e concludere le operazioni dopo due giorni di accaniti combattimenti. La resistenza proletaria di Parma, ricca di atti di eroismo salutati con entusiasmo dalla stampa del Partito [6], è stata il cavallo di battaglia per tutti gli storiografi di matrice stalino-gramsciana del secondo dopoguerra, che vi vedono la conferma delle critiche dirette alla “settaria direzione bordighista”, che aveva escluso una adesione comunista al movimento degli arditi: nessuno di questi storiografi ha voluto o potuto o saputo mettere in luce le finalità del “programma” arditista – posto che di ciò si possa parlare – in modo di farne una valutazione alla luce dei principi e dei fini del comunismo rivoluzionario. Poiché di questi argomenti la nostra stampa si è occupata lungamente, rimandiamo a essa il lettore [7].

Ad Ancona, la situazione, il 1° agosto, si presentava favorevole a una buona riuscita dello sciopero nonostante che le truppe e gruppi fascisti fossero rimasti in Romagna in occasione degli scioperi delle settimane precedenti; tuttavia, già nella mattinata si erano diffuse voci che contingenti armati di fascisti, in arrivo da Bologna, stavano penetrando in città, in sostituzione dei ferrovieri in sciopero; altri gruppi sarebbero giunti via mare. Dal momento che, effettivamente, era ripresa la circolazione di treni, condotti da ingegneri e motoristi di marina, il Comitato segreto d’azione ingiungeva al deputato fascista Gay, giunto con le camicie nere, di abbandonare immediatamente la città. Il giorno dopo, non essendo stato rispettato l’ordine, le squadre comuniste iniziarono l’assalto armato ai treni, per bloccarne l’arrivo in città. Ciò non impedì l’arrivo di numerosi fascisti, l’occupazione militare di alcuni rioni e la devastazione e l’incendio di sedi operaie. Ancora il 4 agosto, gli operai non avevano ubbidito all’ingiunzione dell’AdL di cessare lo sciopero: anzi, si segnalava ovunque una forte risposta proletaria armata. Nel pomeriggio di quel giorno, entrò in azione la polizia con un intervento di estrema violenza, incontrando ovunque un’accanita opposizione. Dopo ore di battaglia, la resistenza operaia si fece più debole; fu deciso allora di tentare un colpo di mano occupando il Forte Scrima (già teatro di violenti scontri durante la sollevazione militare del 1920), dove era custodito l’arsenale. Fallita l’operazione e giunto improvviso l’ordine del locale Comitato d’azione di cessare lo sciopero, si abbatté sui rioni proletari della città la vendetta fascista. Furono richiamate dalle città vicine oltre 5000 camicie nere, che riuscirono finalmente a entrare in Ancona procedendo alla consueta devastazione di decine di circoli operai, della Camera del lavoro e delle cooperative.

A Bari, il primo giorno di sciopero fu contrassegnato da scontri a fuoco con gruppi di fascisti, mentre esercito e guardie regie si tenevano a distanza. Il secondo giorno fu cruento: si organizzarono le difese costituite da un battaglione di Arditi e da due squadre comuniste. Dopo due ore di combattimento, i fascisti si ritirarono, ma tutta la Città Vecchia fu circondata, mentre veniva dato dalla direzione dell’AdL l’ordine di cessare lo sciopero. Infine, il giorno seguente, con una azione notturna, entravano nei quartieri popolari 800 uomini di fanteria, 300 guardie regie, 300 carabinieri e 5 autoblinde, mentre, al largo del porto, la torpediniera “Airone” teneva puntati i cannoni sulla città, pronta a intervenire.

Ovunque, la resistenza opposta dal proletariato alle violenze fasciste fu straordinaria e si protrasse, in alcune località, per tutto il mese di agosto. Il graduale isolamento delle lotte e l’evidente abbandono di queste da parte delle organizzazioni che avevano spinto il proletariato alla battaglia senza una preparazione tecnica sufficiente finirono per spegnere gradualmente le resistenze. La totale impreparazione prima, il tradimento poi da parte dei vertici sindacali nei confronti di una lotta duratura e violenta contro un nemico armato, meglio organizzato e che poteva servirsi della connivenza delle autorità locali per il reperimento di armi e mezzi di trasporto si coniugavano con le opposte valutazioni e motivazioni delle organizzazioni sindacali e dei partiti politici che si riferivano all’Alleanza. Quello che interessa qui sottolineare, nel periodo che va dalla nuova crisi ministeriale di fine luglio alla prima settimana di agosto, è il grado di improvvisazione con cui lo sciopero fu indetto dai vertici sindacali e il vergognoso tentativo con cui i partiti democratici cercarono di strumentalizzare le lotte proletarie per i propri sordidi motivi parlamentari. [...] Lo sciopero generale di inizio agosto 1922, con il suo esito fatalmente segnato dall’impreparazione prima e dal tradimento poi, e nonostante l’ampia partecipazione e la successiva strenua resistenza di ampia parte del proletariato, costituisce di fatto l’atto di consegna del potere alle nuove gerarchie borghesi rappresentate dal fascismo da parte dei precedenti governi democratici liberali – atto di consegna voluto dai riformisti che speravano di ottenere, come primo risultato tangibile, posizioni di riguardo in un’eventuale coalizione ministeriale con popolari e fascisti. Lo sciopero fu proclamato senza alcuna preparazione e in un momento di evidente arretramento nella volontà di lotta da parte di un proletariato che da mesi subiva le aggressioni fasciste e aveva appena conosciuto la sconfitta nell’ultimo poderoso sciopero, quello dei metallurgici, che i vertici dell’AdL e delle altre centrali sindacali non erano stati in grado di indirizzare, se non con un inutile e tardivo intervento [8]. Al tempo stesso, lo sciopero dimostrò che in molte città la resistenza operaia era ancora forte e avrebbe potuto ottenere risultati decisivi, se indirizzata in modo diverso da come fu orientato lo sciopero dai capi riformisti.

Due anni dopo, la Sinistra affidava l’esame di tutta la storia del giovane partito a una serie di “Tesi” da contrapporre agli enunciati della nuova direzione [di Gramsci e Togliatti – NdR]. Lo sciopero di agosto veniva interpretato come l’ideale terreno di verifica della tattica fino allora seguita dal partito. Si doveva intervenire in modo diretto, come PCd’I, in tutte le occasioni che si presentassero per prendere la guida del movimento, in modo autonomo e tale da impedire che altri si impadronissero di parole d’ordine, di uomini e mezzi. Là dove ciò era impossibile, il Partito avrebbe comunque partecipato alla lotta in modo da dimostrare la propria superiorità nell’azione rispetto a tutti gli altri, affinché le ragioni della eventuale sconfitta ricadessero per intero e con chiarezza su quei partiti e quei capi sindacali avvezzi al tradimento. Il proletariato sarebbe stato convinto, nel corso della lotta, e “alla luce dei fatti, che la dolorosa eventualità della sconfitta pesava tutta sulle responsabilità degli altri partiti e sarebbe stata evitata ove le proposte degli organi comunisti fossero state seguite e non sabotate. L’azione di agosto, pur rispondendo, e non potette essere altrimenti, per la equivoca politica dei riformisti e la complicità troppo tardi denunziata dei massimalisti, alla ipotesi della disfatta proletaria, mise in evidenza il partito comunista e polarizzò verso di lui la parte del proletariato che pur nella ritirata voleva fronteggiare il nemico e tenersi sotto le bandiere classiste e rivoluzionarie” [9].

 

[1] Sulla “questione” degli Arditi del Popolo e dei rapporti del PCd’I con essi, cfr. il Capitolo III: “L’apparato illegale del PCd’I, gli Arditi del Popolo, il Fascismo”, nel volume IV della nostra Storia della Sinistra Comunista. Dal luglio 1921 al maggio 1922, Edizioni il programma comunista, Milano 1997. Cfr. anche gli articoli “Il Partito di classe di fronte all’offensiva fascista. 1921-24: gli Arditi del Popolo”, il programma comunista, n.22/1967; e “Gli Arditi del Popolo”, il programma comunista, n. 3/2005.

[2] Su entrambi gli avvenimenti, rimandiamo al volume V della nostra Storia della Sinistra Comunista. Dal maggio 1922 al febbraio 1923, Edizioni il programma comunista, Milano 2017, dove i due scioperi sono ricostruiti nel dettaglio, con abbondanza di documenti dell’epoca.

[3] “I bollettini della Centrale del Partito Comunista d’Italia”, Il Comunista, 4 agosto 1922.

[4] “Come si squagliano i fortilizi riformisti”, Il Comunista, 5 agosto 1922.

[5] “Lo stato d’assedio a Genova. Come fu incendiato ‘Il Lavoro’”, Il Comunista, 8 agosto 1922. 77.

[6] Ad esempio, “Onore rivoluzionario ai lavoratori di Parma!”, Il Comunista, 10 agosto 1922; “Le eroiche giornate del popolo di Parma”, Il Comunista, 20 agosto 1922.

[7] Si veda ad esempio “Antifascismo”, Battaglia comunista, nn. 12 e 13/1952; “Le menzogne convenzionali”, Battaglia comunista, n. 13/1952; “Gli Arditi del Popolo”, il programma comunista, n. 3/2005; e la trattazione più ampia contenuta nel III capitolo del IV volume della Storia della Sinistra Comunista, cit., pp.119-186.

[8] Si veda Storia della Sinistra Comunista, Vol. IV, cit., pp. 328-330.

[9] “Schema di tesi sull’indirizzo ed il compito del PC in Italia presentato dalla ‘sinistra’ del partito”, Lo Stato Operaio, n. 16, 15 maggio 1924. Questo “schema” era firmato da A. Bordiga, B. Fortichiari, R. Grieco e L. Repossi.

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