Il banale argomento che nel tempo la disponibilità di prodotti da parte dei proletari è cresciuta (il che, per i borghesi, suona “miglioramento delle condizioni di esistenza”), nulla ha a che vedere con la legge della miseria crescente come venne formulata già nel 1847, in un momento in cui la lotta di classe e l'organizzazione economica erano in pieno sviluppo e non erano affatto ignorate da Marx. La ripresentiamo nelle stesse parole in cui apparve nel suo testo Lavoro salarialo e capitale, non essendo intervenuto, per il marxismo, nessun ”fatto nuovo” a invalidarle.
“Se cresce il capitale, cresce la massa del lavoro salariato, cresce il numero dei salariati – in una parola: il dominio del capitale si estende su una più grande massa di individui [dunque, aggiungiamo noi, i piccoli produttori cadono nel numero dei nullatenenti, che si gonfia sempre più].
“E supponiamo pure il caso più favorevole: se cresce il capitale produttivo cresce la domanda di lavoro, sale dunque il prezzo dei lavoro, il salario” [l'operaio… compra l’auto, il computer, il telefonino].

“Un aumento sensibile del salario presuppone un rapido aumento del capitale produttivo. Il rapido accrescersi del capitale produttivo provoca un'altrettanto rapida crescita della ricchezza, del lusso, dei bisogni sociali e dei godimenti sociali. Sebbene dunque i godimenti del lavoratore siano aumentati, la soddisfazione sociale che essi procurano è diminuita in confronto agli accresciuti godimenti del capitalista, che sono inaccessibili all'operaio; in confronto al grado di sviluppo della società in generale” [ossia, il proletario dispone di una quantità sempre minore del prodotto sociale totale!].

“I nostri bisogni e godimenti scaturiscono dalla società; noi perciò li misuriamo in base alla società, non in base all'oggetto della loro soddisfazione. Poiché sono di natura sociale, essi sono dì natura relativa. […] Qual è ora la legge generale che determina l'aumento e la diminuzione del salario e del profitto nel loro rapporto reciproco? Essi stanno in rapporto inverso. La quota del capitale, il profitto, sale nello stesso rapporto in cui cade la quota del lavoro, il salario, e viceversa. Il profitto sale nella misura in cui il salario cade, esso cade nella misura in cui il salario sale”.
Chiaro, no? Andiamo avanti:

“Un rapido aumento del capitale è parimenti un rapido aumento del profitto. Il profitto può crescere rapidamente solo se il prezzo del lavoro, il salario relativo, diminuisce con la stessa rapidità. Il salario relativo può diminuire, anche se il salario reale sale insieme al salario nominale, al valore in denaro del lavoro; ma non nello stesso rapporto in cui sale il profitto. Se, per esempio, il salario cresce, in un buon periodo d'affari, del 5 per cento, mentre il profitto aumenta del 30 per cento, il salario relativo, proporzionale, non è aumentato, bensì diminuito. Se, dunque, con la rapida crescita del capitale, aumentano le entrate del lavoratore, aumenta nello stesso tempo l'abisso sociale che separa i lavoratori dai capitalisti; si accresce nello stesso tempo la potenza del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale”.
Questa è la miseria crescente che è insieme pena di lavoro nel senso più vasto. Non si tratta di negare l'aumento della capacità d'acquisto dei proletari (che si realizza quasi sempre in una maggior disposizione di prodotti industriali), ma di mostrare come quanto più essi ricevono tanto maggiore è lo sfruttamento cui sono sottoposti.

Ma diamo di nuovo la parola a Marx:
“Se il capitale aumenta rapidamente, per quanto possa crescere il salario del lavoro, il profitto del capitale cresce in modo sproporzionatamente più rapido. La condizione materiale del lavoratore è migliorata, ma a prezzo della sua condizione sociale. L'abisso sociale che lo separa dai capitalisti si è approfondito”.
È questo il punto (anche a prescindere dalla considerazione generale che, calcolate le grandi crisi, le catastrofi economiche, le guerre, i disastri “naturali”, ecc., lo stesso aumento assoluto del “tenore di vita” si riduce a una miserabile beffa): l'“idealismo” borghese riduce l'esistenza umana – malgrado tutte le sue sbrodolate idealistiche – alla nuda espressione monetaria; il materialismo marxista la riporta al suo contenuto sociale, anzi umano: la giudica impoverita nella stessa misura di cui si impoverisce questo contenuto.

Per concludere:

“Quanto più rapidamente la classe operaia accresce e ingrossa la forza che le è nemica, la ricchezza che le è estranea e che la domina, tanto più favorevoli sono le condizioni in cui le è permesso di lavorare a un nuovo accrescimento della ricchezza borghese, a un aumento del potere del capitale, e di forgiare essa stessa le catene dorate con cui la borghesia se la trascina dietro”.

Su questa critica si fonda, per noi marxisti e per tutta la durata del capitalismo, la realtà dei rapporti fra lavoro e capitale, e quindi delle condizioni di esistenza dei proletari. Non ci interessano le continue rivelazioni sensazionali della stampa borghese, certi come siamo che sarà lo sviluppo del capitalismo, e quindi dei contrasti di classe, a dimostrare il corollario della legge della miseria crescente: la ripresa della lotta rivoluzionaria del proletariato.

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