Che cos’è successo, nel Lincolnshire britannico, ai primi di febbraio? Nulla che non fosse nel maledetto ordine delle cose. Incalzati dall’emergenza generale determinata dalla crisi (disoccupazione per il crollo della produzione e degli investimenti), gli operai inglesi sono entrati in uno sciopero spontaneo (illegale) contro l’uso di lavoratori stranieri: uno sciopero di protesta (partito dalla Lindsey Oil della Total, nel Lincolnshire, dopo l’assegnazione di un appalto per una nuova raffineria all’impresa italiana Irem), che ha coinvolto l’intero comparto delle costruzioni del settore energetico e ha avuto la solidarietà di altri lavoratori, richiamando sul luogo avvoltoi sindacali delle più diverse single, imprenditori e ministri. Per cinque giorni, il cantiere è rimasto fermo, e gli operai (ottanta italiani, dieci portoghesi, ma anche una ventina di inglesi) sono rimasti a riposo negli alloggi.

Subito, le tante canaglie che da sempre, al servizio della borghesia, ammorbano l’aria con le teorie sulla “scomparsa della classe operaia” si sono unite al coro reazionario generale, trovando nello sciopero una ghiotta occasione e nuovo materiale aggiuntivo per rincarare la dose. Noi auguriamo loro di andare all’inferno e di trasportarvi pure maestri ed epigoni. Vecchia storia, per i rivoluzionari: immaginare che nella massa proletaria in quanto tale sia incarnato lo spirito della rivoluzione è prendere un grosso abbaglio idealistico – significa attribuire alla nostra classe una “moralità rivoluzionaria” che non ha nulla a che vedere con i suoi “compiti” storici.

Ma non è questo il problema: lo scopo di tanto battage dei media su questa faccenda è quello (dato che non ci si può dare un colpo di grazia!) di cogliere ogni occasione per mantenere la classe operaia nel suo ruolo subordinato e succube. Non è un caso che il partito di classe (l’organo che rappresenta la classe nel suo percorso storico, che conserva e trasmette la memoria delle finalità rivoluzionarie e incarna la direzione e i metodi della lotta di classe) sia rimasto in estrema minoranza, combattuto dalle forze controrivoluzionarie convergenti della socialdemocrazia ben prima del fascismo e dello stalinismo ben prima del nazismo. Negli oltre ottant’anni di questo isolamento, noi non abbiamo mai avuto dubbi che la classe proletaria sarà spinta per la sua stessa condizione materiale di esistenza ad attaccare il potere borghese in una lotta per la vita o per la morte; ma, nello stesso tempo, sappiamo che essa è nulla se non è rivoluzionaria e dunque diretta dal suo partito. Il suo numero e la sua organizzazione economica  sono condizioni necessarie, ma non sufficienti, per la rivoluzione, se non è presente la coscienza di classe, che solo il partito può possedere e darle – non un qualsiasi partito, naturalmente, ma quello che si sarà preparato da lungo tempo, e che non è nato da un convegno di intellettuali di buona volontà affascinati dal sentimento di ribellione contro le ingiustizie sociali.

Ma torniamo allo sciopero nel Lincolnshire. La falsa coscienza profusa a piene mani dai gazzettieri borghesi è che la “generale soddisfazione” della borghesia, delle classi medie e della aristocrazia sindacale nel mettere operai contro operai, nell’aizzare al razzismo e al protezionismo, è mascherata da imbarazzo e da un atteggiamento ipocrita che non ha l’uguale (si verrà poi a sapere che è stato lo stesso ministro laburista Brown, succeduto all’altro bel campione in misfatti antiproletari Tony Blair, ad aver inventato e lanciato lo slogan ripreso poi da alcuni sindacalisti: “british jobs for british workers”; cfr. Il Sole-24 ore, 5 febbraio). Il delegato sindacale della Unite infatti non poteva che appellarsi al fatto che “i lavoratori stranieri vengono usati per combattere l’unità sindacale e spingere al ribasso i salari”; e, parlando della disoccupazione, della perdita della casa per debiti, dei lavori intermittenti e precari dei lavoratori inglesi, non poteva che proporre che “i posti di lavoro devono essere dati agli inglesi e quelli che avanzano agli stranieri”; e, infine, non poteva che confermare il fatto di essere stati scavalcati dalla lotta spontanea: “certamente dal punto di vista tecnico si è trattato di uno sciopero illegale, a cui noi non ci possiamo associare completamente e per evitare che azioni come queste continuino ad essere illegali credo che sia necessario cambiare la legislazione sul diritto di sciopero, per permettere alle persone di non incorrere in sanzioni, quando quello che intendono fare è semplicemente difendere il diritto al lavoro”. E per finire: “noi, come sindacato, non siamo nazionalisti, ma internazionalisti” (!!).

Mentre il malcontento sociale provocato dalla crisi si manifesta e generalizza proprio nel cuore della più antica economia capitalistica, si scopre che la “nazionalizzazione della classe operaia” (già presente ai tempi di Marx in Gran Bretagna: pagine e pagine colgono la nascita di un ceto operaio opportunista, dal punto di vista sia della lotta sindacale sia di quella politica, nutrito dai proventi dello sfruttamento coloniale e imperialista) partorisce i suoi figli odiosi, dopo una lunga gestazione nutrita dalla pretesa superiorità dell’operaio inglese nei confronti dell’operaio irlandese, indiano, pakistano e via discorrendo. Non sfuggiva a Marx e ad Engels, nel lungo esame delle condizioni proprie della classe operaia inglese, che essa solo formalmente è “classe nazionale”, ma che, nello sviluppo della sua lotta suscitata dalle stesse condizioni di vita e lavoro proprie del capitalismo, essa è costretta a superare questo quadro limitato, è spinta a diventare, anche in ambito borghese, l’unica classe che può superare lanazione” borghese: una classe universale e quindi internazionale.

Essa è dunque classe nazionale, perché la sua lotta economica si svolge nell’ambito immediato della nazione; ma, già nella sua stessa condizione economica, essa coglie una contraddizione dialettica: il proletariato è risorsa economica nazionale (esercito industriale attivo, esercito industriale di riserva, esercito fuori produzione), e tuttavia, nello stesso tempo, è forza potenzialmente eversiva per il numero crescente (per le possibilità organizzative, quando riesce a sciogliersi dai legami che lo legano alla fabbrica) e per la sua condanna ad essere forza-lavoro, libera di vendersi o di essere comprata sul mercato mondiale.

Nemmeno il tempo di gridare un hurrah per la “vittoria” (immaginate lo sconforto di un imprenditore nel mettere alla catena un inglese al posto di un italiano?), che i problemi si sono moltiplicati: la quota di italiani e portoghesi presenti non perderà il posto (ma chi li pagherà per questi giorni di sciopero?); e quelli che li dovevano raggiungere, che fine faranno? Perché solo il 50% dei posti agli inglesi e non il 100%?, chiede qualcuno; e poi, agli altri comparti nazionali con presenze straniere verrà esteso lo stesso contratto? E ancora: di che specie di contratto si parla? Si tratta (udite! udite!) di 102 operai inglesi specializzati su 198 totali, da impiegare per nove settimane nell’ambito di un contratto complessivo di quattro mesi: una vera sicurezza per il futuro!...

Che cosa si nasconde, allora, dietro questo allarme, che (scrive il Manifesto, campione di funambolismo opportunista) aprirebbe “profonde ferite nel movimento sindacale e schiaccerebbe ‘la sinistra britannica’ tra la solidarietà verso legittime rivendicazioni economiche e occupazionali e la preoccupazione per l’attitudine nazionalista che traspare dalle parole d’ordine usate durante le proteste”? Ma quali “profonde ferite”! ma quale “sinistra britannica”! Gli operai da una parte hanno  scavalcato tutte le sigle sindacali e hanno imposto uno sciopero che, per difendere le loro condizioni di esistenza, si è andato allargando oltre le intenzioni; dall’altra, si sono ritrovati nella condizione di vuoto politico e sindacale (presto riempito da slogan politici corporativi e dalle vecchie e logore indicazioni sindacali) e hanno cercato, come “classe per il capitale” e quindi nazionale, di ottenere risultati immediati, partendo da se stessi e dalla propria forza. Apriti cielo! “bisogna essere portatori di valori morali e culturali per il superamento della crisi”, dice il Presidente italiano: “la nostra comunità [nostra, di chi?] richiede il disinnesco di tendenze estremamente pericolose”.

Una classe di sfruttatori e di furfanti cerca di inchiodare ogni iniziativa di lotta, di bloccare ogni conflitto, ogni disubbidienza alla “loro” morale di comodo. Mentre la classe operaia è travolta dalla crisi e dai licenziamenti e si somministrano ammortizzatori sociali (casse integrazioni da quattro soldi) e social card per i più miserabili; mentre tutti i governi d’Europa attaccano le masse degli immigrati comunitari o extracomunitari, sottoponendole allo stato di polizia con controlli a tappeto ovunque, delegando alle mafie il trasporto e la soppressione fisica se non si sottomettono al caporalato locale con salari da fame e orari tremendi, e si creano lager di identificazione e di espulsione, chiamando tutto ciò “rinascita di una vera civiltà” (stato di sicurezza collettiva), di “vera tolleranza” (presenza a pagamento); mentre lo stato di precarietà e di miseria si diffonde, ecco che la borghesia si duole dello sviluppo di una azione indipendente partita in modo spontaneo e, pur essendo quell’azione, nei suoi contenuti, conservatrice e tutt’altro che socialisteggiante, comincia a sentire circolare nelle proprie vene un’indicibile paura: “Così mettono in causa i fondamenti del nostro vivere insieme in Europa”(!!!).

Non potevano poi mancare la voce del Bertinotti nazionale (uno dei responsabili della sconfitta operaia alla Fiat agli inizi degli anni ‘80, tanto per intenderci; e recentemente Presidente della Camera) e la sua condanna: “Occorre pensare subito ad un Piano europeo del lavoro, episodi simili possono generare una guerra civile latente, [...] è una competizione per la vita e per la morte e produce barbarie [...], la causa è la cattiva globalizzazione, nella fattispecie la direttiva Bolkestein che non promuove la libera circolazione dei lavoratori, ma produce dumping sociale, estende il contratto rumeno anche in Italia [...]. C’è stata una contrazione dei diritti, prima hanno fatto correre il lavoratore come una lepre e ora è diventato il ventre molle da comprimere nelle mani dell’impresa e del mercato”... E via di seguito, di stupidità in stupidità.

Pur fomentando una repressione quotidiana, la borghesia ha una paura fottuta dell’ignoto: pensare agli operai senza più pastori genera comunque l’angoscia del ripresentarsi della guerra civile, della “barbarie”, della lotta di tutti contro tutti. Il nervo è tanto scoperto che non si osa guardare oltre la perfida Albione. Negli Usa, mente la disoccupazione si porta a valori ufficiali del 8% (ma dati non ufficiali parlano del 18%), si grida in uno spot (Coalition for the future american workers) che “non si può consentire l’ingresso nel nostro paese a 1,5 milioni di lavoratori stranieri quando già 11 milioni di americani stanno cercando un lavoro, non considerando coloro che entrano ogni anno illegalmente [...], occorre chiudere le frontiere per difendere il posto di lavoro”. Ma dove sono i posti di lavoro? Non si creano e non possono nascere per virtù di decreti, ma per determinazioni economiche. La General Chrysler, in particolare, in blocco unico, offre 75 mila dollari e un buono da 25 mila dollari in tasca...

L’armata nazionale attiva, dunque, si liquefa e la massa industriale di riserva cresce a dismisura. I Lazzari della classe operaia si dividono le spoglie di una pattumiera statale, messa cinicamente a disposizione. Ecco la realtà borghese: mentre fallisce quel gigante (il Capitale) che si credeva invincibile (ma aveva i piedi d’argilla), si cerca di trasformare la classe operaia da forza-lavoro nazionale in carne da cannone nazionale, volta alla difesa degli interessi di quella stessa classe borghese che l’ha trascinata nella miseria e nella disperazione. Ma, per carità! che la trasformazione avvenga sotto controllo e nei tempi previsti e necessari.

Infine, che cosa hanno ottenuto i lavoratori inglesi in cerca di lavoro, dopo aver creato tanto imbarazzo alle anime belle della sinistra (che vedono ora sfumare parte del lavoro pesante fatto ai fianchi del proletariato, nei decenni passati di controrivoluzione, per creare una massa responsabile e legalitaria)? Non hanno ottenuto nulla. Dei duecento posti di lavoro, metà saranno inglesi per quattro mesi. E allora? La miseria, l’incertezza saranno per un po’ alleviate? “Più di così non potevamo fare”, hanno detto i sindacalisti agli scioperanti che avevano ripreso i picchetti davanti ai cancelli dell’impianto, non fidandosi di nessuno: “consigliamo ai nostri iscritti di tornare al lavoro”. E’ duro sciogliersi dall’abbraccio mortale di un’aristocrazia sindacale servile, che ha trasformato una delega operaia in un mestiere: ma non dubitiamo che la realtà stessa saprà scavare ancora più nel profondo. Noi comunisti ci aspettiamo ancora, e non solo in Inghilterra, episodi ambigui come questi: i colpi della crisi daranno luogo a risposte immediate ma scomposte, e all’inizio la nostra classe faticherà a ritrovare non solo i propri metodi, ma soprattutto i propri obbiettivi indipendenti e antinazionali. Questo non ci meraviglia e non ci spaventa: anzi, è lo sprone che ci incita al lavoro “a contatto” con la nostra classe, ben consapevoli dell’insegnamento leninista che la coscienza di classe si importa nella classe e si diffonde con la lotta che noi comunisti conduciamo nelle sue file, contro tutti i “piazzisti” dell’ideologia borghese.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2009)

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