Nelle precedenti puntate (nn.5 e 6/2008 e n.1/2009 di questo giornale), abbiamo seguito lo sviluppo del quadro politico che andò gradualmente delineandosi all’interno dell’Internazionale comunista e delle sue sezioni nazionali tra il 1919, l’anno della sua fondazione, e il 1926, l’anno della sua definitiva capitolazione. Si trattò, come si è visto, di un processo graduale e non lineare, in cui, dopo i primi due o tre anni di entusiasmi per i successi ottenuti nella difesa della rivoluzione in Russia e per il processo di chiarificazione nei partiti occidentali (processo che fu tuttavia ben lontano dall’essere portato a termine e quindi foriero delle successive tempeste), le vicende storiche dei rapporti di classe cominciarono a diventare pesantemente sfavorevoli, riflettendosi inesorabilmente sulla compattezza tattica, organizzativa e infine strategica delle avanguardie rivoluzionarie. Attraverso le esitazioni sul significato da dare alla tattica del “fronte unico”; i continui ondeggiamenti verso il recupero di “forze sane” della socialdemocrazia da cui si era con così tanta difficoltà riusciti a separarsi; la proclamazione della conquista del potere mediante “governi operai” cui si potevano anche dare mandati parlamentari; lo snaturamento delle precedenti organizzazioni partitiche mediante il processo noto come “bolscevizzazione”, sciocca imitazione di una fase storica del vecchio partito russo in un contesto totalmente diverso (quello del regime poliziesco zarista) da quello occidentale; attraverso tutto ciò si doveva giungere infine – beninteso, attraverso vari zigzag, come quello della “teoria del socialfascismo” e di un vuoto “estremismo di sinistra” – all’abbandono delle prospettive rivoluzionarie mondiali, con le criminali decisioni prese nei riguardi dello Sciopero Generale del 1926 in Inghilterra e del grande movimento rivoluzionario in Cina e, supremo e definitivo tradimento dei cardini della nostra dottrina, con l’esplicita formulazione della “teoria del socialismo in un solo paese”, con cui Stalin sanciva, nel 1926, di fatto anche se non formalmente, la morte dell’Internazionale, ormai ridotta a mero esecutore delle direttive di Mosca, e attraverso la quale i suoi successori sarebbero conseguentemente giunti alla dottrina della “competizione/coesistenza pacifica”, cui tuttavia avrebbero dovuto soccombere quando fu chiaro che l’economia russa non avrebbe potuto far fronte alla crisi mondiale apertasi alla metà degli anni Settanta.

Dobbiamo ora occuparci di come lo “stalinismo” si impose nell’economia russa, cioè nei rapporti di classe e nei rapporti dello stato russo (che di sovietico ormai aveva perso qualsiasi connotato) con i paesi a capitalismo avanzato, nel corso di un bestiale processo di accumulazione di capitali che avrebbe dovuto portare la Russia, negli intendimenti delle sue sfere dirigenti, a occupare la prima posizione in termini di produttività mondiale: cosa che non riuscì né nell’industria né, tanto meno, nell’agricoltura, e che in ogni caso avrebbe dimostrato non la superiorità di un’economia comunista su quella imperialista, ma semplicemente che in Russia non si era pervenuti a nessun tipo di economia comunista. Ci avvarremo nella presente esposizione di alcuni nostri testi fondamentali, al cui approfondimento rimandiamo i lettori, e soprattutto i seguenti: “La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea”, in Russia e rivoluzione nella teoria marxista, ed. il programma comunista 1976; Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, ed. il programma comunista, 1976; “Dialogato con Stalin”, in “il programma comunista”, n.1-4/1952; “Dialogato coi morti”, in “il programma comunista”, nn.5-10/1956; “L’économie soviétique de la révolution d’octobre à nos jours”, in “Programme communiste” n. 15-20 e n. 22-23 (1961-1963).

 

 

14. I primi anni rivoluzionari

 

 

Un primo punto da fissare è che, dopo la presa del potere da parte del partito bolscevico, si pose con assoluta urgenza il problema di gestire l’economia in un contesto drammatico di guerra civile. Gli aspetti dominanti evidentemente non potevano essere quelli di una riorganizzazione graduale dell’economia disastrata dalla guerra e arretrata in quasi tutti i settori vitali, soprattutto quelli agricoli. Erano invece quelli militari, e tutti gli sforzi economici della neonata Repubblica dovevano tendere a sostenere le fragili strutture statali e soprattutto le necessità dell’Armata rossa; in secondo piano passava il sostegno alla classe operaia delle città. Benché tutto ciò non contenesse nessun elemento tipico di quella che sarà la società comunista, esso fu, in seguito, definito col nome di comunismo di guerra, dando origine a una leggenda che verrà ripresa, anni dopo, dai dirigenti russi stalinisti.

Terminate vittoriosamente le operazioni militari, tutto il problema della ristrutturazione economica si pose in maniera diversa e con assoluta urgenza, e venne impostato da Lenin con le coraggiose dichiarazioni sulla NEP, una politica economica che in nessuno dei suoi famosi cinque punti si prefiggeva di “costruire socialismo”, ma, nella migliore delle ipotesi, di riuscire gradualmente a gettare le basi del socialismo, che (spiega Lenin in Sull’imposta in natura, 1921), non possono essere altro che il superamento delle enormi resistenze opposte dal piccolo proprietario artigiano e contadino al controllo operato dallo stato. Si trattava perciò di lottare per superare la forma della piccola produzione mercantile, dominante in larghi strati sociali, e spostare via via l’economia verso una forma di capitalismo di stato – almeno in certi settori – sotto saldo controllo politico del partito. Fu dunque questa la preoccupazione principale nel quadro della riorganizzazione economica di quegli anni: il superamento della piccola produzione mercantile, anche a vantaggio del capitalismo privato. Entrambi sono nostri nemici, nelle parole di Lenin, ma il primo è un avversario ben più insidioso del secondo, perché è storicamente ancora più lontano dal socialismo, riflettendo un mondo precapitalistico. “Il capitalismo è un male in confronto al socialismo. Il capitalismo è un bene in confronto al periodo medievale, in confronto alla piccola produzione, in confronto al burocratismo che è connesso alla dispersione dei piccoli produttori” [1].

Sviluppare dunque il capitalismo contro la piccola produzione, afferma Lenin nel 1921, è il compito primario dei comunisti, e ciò è perfettamente coerente con quanto da sempre è stato sostenuto dal marxismo nei paesi a sviluppo capitalistico incompleto, quale, ad esempio, la Germania del 1848 (“Il partito comunista lotta insieme colla borghesia, ogni qualvolta questa prende una posizione rivoluzionaria contro la monarchia assoluta, contro la proprietà fondiaria feudale e contro la piccola borghesia reazionaria”) [2]. In Russia non si trattava più di appoggiare in modo autonomo la lotta di classe che la borghesia muoveva al regime feudale, poiché il potere era ormai saldo nelle mani comuniste; l’enorme problema che sorgeva allora, per la prima volta nella storia del movimento comunista, era: in che modo si sarebbe potuto lottare contro quelle classi arretrate e nemiche, senza correre il rischio di perdere il potere? L’unica risposta, da tutti condivisa in quegli anni, era: soltanto attraverso la conquista del potere nei paesi avanzati, la cui economia sviluppata avrebbe dato alla Russia quanto le serviva per superare rapidamente le tappe storiche della propria arretratezza.

Contro le chiare formulazioni di quegli anni, iniziarono grandi discussioni sul modo in cui realizzare la NEP. Alcuni vedevano in essa cedimenti di fronte all’ideale di un socialismo pienamente sviluppato, altri protestavano in nome delle libertà democratiche, altri ancora ritenevano che essa fosse un attacco alla classe operaia, la sola che avrebbe dovuto gestire il potere senza concessioni.

 

 

15. Contrasti nel partito russo

 

 

La prima di queste discussioni fu alimentata dalla cosiddetta “Opposizione operaia”, che rappresentava una tendenza allora assai diffusa in Europa e che si ripresenterà a ostacolare l’azione del partito nelle rivoluzioni future. Secondo la teoria da essa sostenuta, la direzione dell’economia spetta al congresso di produttori e ai sindacati di produzione: come si vede, una formula di sapore chiaramente proudhoniano, che potrebbe essere sostenuta oggi da certe correnti anarchiche senza-partito o anti-partito. Essa mette al centro dello sviluppo dell’economia l’azienda, cioè proprio quella cellula produttiva che il socialismo dovrà abbattere per sempre, nel quadro di una gestione realmente collettiva dei produttori associati [3].

Contro questa “Opposizione operaia” si ribadì, e converrà sempre tenerlo a mente, che è errato rimettere il potere nelle mani di produttori salariati, tra i quali si trovano elementi di avanguardia e altri che sono invece legati a concezioni piccolo-borghesi, di difesa di interessi locali o, appunto, aziendali. L’organizzazione partitica, riunendo tutti coloro che hanno superato i limiti angusti delle singole condizioni di lavoro, è l’unica a permettere la formulazione e a decidere l’esecuzione di un piano generale di attacco o di difesa, in rapporto con la situazione storica e in accordo con le prospettive finali di classe.

La seconda, ampia discussione, si aprì sul tema delle “forbici”, sollevato da Trotsky quando ormai Lenin era impossibilitato a intervenire a causa della malattia che, nel marzo del 1924, l’avrebbe portato alla morte: mentre i prezzi dei manufatti industriali continuavano a crescere, quelli dei prodotti agricoli scendevano. Ciò metteva in evidenza il conflitto tra i due principali settori dell’economia; era indispensabile bloccare quello scarto, in modo da riavviare la disastrata produzione agricola. Su questo tema, si scontrarono tre tendenze del partito, che dovevano precisarsi sempre più nel grande conflitto politico degli anni immediatamente successivi. Molto sinteticamente, e senza entrare nel dettaglio delle discussioni allora sorte, le posizioni erano le seguenti.

La sinistra, il cui primo esponente era Trotsky, e alla quale poi aderirono anche Kamenev e Zinoviev, era favorevole a uno sviluppo industriale controllato mediante un piano quinquennale, mentre la produzione agricola sarebbe dovuto essere sostenuta dalla formazione di imprese statali, limitando progressivamente i vantaggi dei contadini ricchi.

La destra, con Bucharin, era contraria sia all’industrializzazione, sia alla nazionalizzazione delle aziende agricole, lanciando la parola d’ordine “Contadini, arricchitevi!”.

Il centro di Stalin, non avendo una propria politica, appoggiò le posizioni della destra nelle campagne, deridendo quelle della sinistra nell’industria, bollate come “superindustrializzazione”. Fa parte della storia il fatto che, destri e sinistri, finirono poi sotto i colpi dei plotoni di esecuzione.

Come si vede, destra e sinistra affrontavano in realtà il grave problema delle campagne secondo un comune metro marxista: dal momento che ciò che rappresentava un ritardo storico della Russia era la piccola economia contadina, si sarebbe dovuto superarne i limiti stimolando la formazione di aziende a pieno sviluppo capitalistico – secondo gli uni, sotto controllo statale; secondo gli altri, non ostacolando lo sviluppo di una classe imprenditoriale (“contadini ricchi”) in grado di rilanciare l’economia agricola. Per tutti, la terra doveva essere nazionalizzata (misura utile in prospettiva, ma di per sé non socialista).

Non ripercorreremo ora le tappe del processo che portò alla catastrofe l’economia agricola russa, né il complesso delle vicende dei rapporti tra industria e campagna; tutto ciò è stato analizzato in modo molto approfondito in innumerevoli lavori del partito [4]. Bisogna tuttavia ricordare che la “questione agraria” è un problema che, storicamente, sono le forme capitalistiche di produzione a dover risolvere, nel senso di un passaggio dalla minima proprietà parcellare – o peggio ancora, da forme più antiche di servaggio – all’azienda capitalistica con partecipazione di capitale agrario e di lavoro salariato: essa allora è omologabile all’azienda industriale e i rapporti di classe sono perfettamente chiari. I più profondi economisti classici borghesi del XIX secolo avevano perfettamente compreso la questione, e avevano sostenuto la necessità che lo stato avocasse a sé tutta la rendita fondiaria. Marx dimostrò che ciò, entro i limiti dell’economia mercantile, non sarebbe mai avvenuto, e infatti ciò non ha potuto essere realizzato neppure nella Russia stalinista, che ha lasciato al colcosiano, oltre al ruolo di capitalista (in quanto possessore di almeno parte della strumentazione) e di salariato (in quanto possessore della propria forza-lavoro), anche quello di fondiario: “Il colcos come azienda collettiva è il vero padrone della terra in grande: vende allo Stato i prodotti, non gli paga un affitto agrario. Il colcosiano è il padrone del suo campo: mangia o vende i prodotti e non paga affitto né al colcos né allo Stato” [5].

La gestione dell’intera questione agraria da parte del partito bolscevico stalinizzato si risolse in un ibrido – passato impropriamente col nome di “collettivizzazione” – tra aziende nazionalizzate e piccola proprietà privata: la forma del kolchoz. Ai contadini, spinti dalla fame a entrare in massa nelle nuove strutture statali, veniva riconosciuta la proprietà privata di larga parte dei mezzi di produzione (compreso il bestiame) e parte anche del prodotto. Questo compromesso di fatto avrebbe ostacolato la formazione delle grandi cooperative statalizzate invocate da Trotzky e Bucharin, favorendo invece quella piccola proprietà contadina che sarebbe stata tanto più difficile da combattere. Se il compromesso con i kulaki si muoveva all’interno di una logica marxista, il cedimento nei confronti dei colcosiani segnò la capitolazione finale del movimento rivoluzionario in Russia.

 

 

16. Il mito del “socialismo” russo

 

 

Per sopravvivere per i pochi anni che - nelle speranze di tutti i marxisti dell’epoca, russi e occidentali – sarebbero passati prima di una rivoluzione europea e quindi mondiale, il nuovo stato doveva dotarsi di una struttura industriale che riuscisse almeno a ricostituire mezzi di produzione, materie prime, manufatti, che erano stati distrutti nel corso della guerra. È evidente che ciò non poteva avvenire se non all’interno di uno scambio mercantile interno ed estero. I primi difficili anni

furono dunque dedicati a questo compito, e Lenin stesso non riteneva grave il fatto di cercare prestiti esteri (concessioni). Vedere in ciò, come è stato talvolta sostenuto, una abdicazione ai principi internazionalisti e un ripiegamento della Russia su se stessa fin dai primi anni, significa non voler considerare la realtà della situazione: la rivoluzione andava difesa anche con questi mezzi, ben sapendo che alla lunga tutto ciò non sarebbe più stato sostenibile. Il soccorso non doveva venire dalla Russia arretrata, ma dall’Europa percorsa dalle fiammate della rivoluzione. In nessun bolscevico – è bene ribadirlo con forza – c’era l’idea che una Russia isolata potesse cominciare a “costruire socialismo”. A tutti era chiaro che una qualche auspicabile ripresa economica interna si sarebbe sviluppata in un contesto pienamente capitalistico, basato sullo scambio di merci, sulla formazione di capitali e di plusvalore operaio. Dieci anni dopo, invece, con i successi dei piani quinquennali, si proclamerà che “la Russia è socialista”.

In realtà, bisogna sgomberare il campo dall’equivoco che gli indici annuali della produzione industriale, che per un certo tempo crebbero a ritmi rapidi, dipendessero dalla socializzazione dell’economia russa e dal fatto che la “pianificazione socialista” mettesse i dirigenti in condizione di organizzare la produzione secondo un piano cosciente. Quei ritmi dipendevano dal fatto che il punto di partenza di tutti gli indici economici – coincidente con la guerra – era estremamente basso. L’analisi degli aumenti medi annui per i sei piani quinquennali dimostra infatti che questi avevano valori relativamente alti se confrontati con quelli delle economie europee o americane, ma che confermavano perfettamente, nella loro sequenza, la legge marxista della diminuzione dei tassi di crescita annua, esattamente come per tutti gli altri paesi a sviluppo pienamente e maturamente capitalistico.

Secondo il catechismo staliniano, in Russia si svilupparono in quegli anni due forme diverse e simultanee di economia. Una economia comunista si svolgeva nello “scambio” all’interno, tra campagna e città; ma, quando la Russia entrava in commercio con paesi stranieri, allora si verificava vendita di merci: la legge del valore non funzionava all’interno, ma solo nei rapporti con l’esterno. Per la critica marxista, lo “stato a economia stalinista” è un falso già solo a partire dalla considerazione del fatto che esso si pone fin dai suoi inizi all’interno della concorrenza mercantile mondiale; non può, per vivere, isolarsi ermeticamente dal resto del mondo.

Gli stalinisti hanno sostenuto che l’economia russa era socialista perché la produzione industriale aumentava a un tasso annuo secondo ritmi superiori rispetto al prodotto totale dell’anno precedente, in confronto a tutti gli altri paesi e a tutte le precedenti epoche storiche. I nostri lunghi studi sull’argomento (per esempio, il già citato “Dialogato con Stalin”) hanno servito a chiarire che: 1) anche se ciò fosse vero, non proverebbe in nessun modo che si tratti di una economia socialista; 2) è falso che quei ritmi elevati fossero esclusivi della Russia; 3) è falso che non ci siano stati altri casi simili nella storia. L’iperproduzione caratterizza solo l’accumulazione capitalistica, la produzione per la produzione che nasce dall’economia mercantile. Per noi, l’unità di misura tra capitalismo e socialismo non è il ritmo di incremento produttivo, ma il tempo di lavoro che deve essere ceduto da ogni lavoratore alla forma sociale della produzione. Nel socialismo, il tempo di lavoro per la produzione diminuirà enormemente. Oggi, qualcuno dei vecchi stalinisti, ormai da tempo convertiti alla democrazia borghese, potrebbe davvero sostenere qualcosa del genere per la Russia stalinizzata?

Tuttavia, più che gli aspetti specifici della storia russa, interessa qui stabilire dove e su cosa lo stalinismo tradì le aspettative della rivoluzione. Esso aprì la strada a tutti quei “socialismi reali” che da allora sono stati invocati ai quattro angoli della Terra, e che in effetti non rappresentavano altro che il vigoroso tentativo di avviarsi, entro una cornice nazionale e anche armi in pugno, verso uno sviluppo industriale capitalistico. Ma mentre in Stalin vi fu un tentativo di giustificare il tradimento mediante il ricorso a tesi provenienti da una lettura falsificata della teoria di Marx, gli epigoni odierni non si pongono più il problema: basterà l’affermazione che “tutto è nazionalizzato” per garantirsi il privilegio di sventolare qualche bandiera rossa, sempre accompagnata dai colori nazionali, e gridare al “socialismo realizzato”. A corto di qualsiasi argomento che non sia basato sulla peggiore forma di demagogia, capi e capetti nazionali che ieri e oggi sbandierano i propri “socialismi nazionali”, sono privati giustamente anche del diritto di richiamarsi alle tesi economiche di Stalin (il quale, quanto meno, faceva ancora ricorso a un vocabolario marxista, per quanto distorto o svuotato di significato).

Una prima tesi stalinista è quella secondo cui si può avere produzione di merci entro una società socialista a condizione che i mezzi di produzione restino nelle mani pubbliche, quindi dello Stato.

La tesi si smonta da sola, perché “nell’analisi marxista ogni volta che una massa di merci appare è perché i proletari privi di ogni riserva hanno dovuto vendere la forza di lavoro, e quando in passato vi furono quei (limitati) settori di produzione di merci, fu in quanto la forza di lavoro non era venduta “spontaneamente” come oggi, ma estorta colle armi a schiavi prigionieri o a servi legati da rapporti di dipendenze personali” (Dialogato con Stalin, Giornata prima). Inoltre, la teoria stalinista (oggi condivisa da tutti i democratici) secondo cui lo Stato è il rappresentate del popolo, è dimostrata falsa dal marxismo, che anzi ne rivendica il ruolo classista nella rivoluzione comunista contro le altre classi sociali, così come ne riconosce la funzione antiproletaria nella società borghese. È nell’abc del marxismo il concetto che, se la società è socialista, lo stato non esiste più, perché le classi sono scomparse.

Una seconda tesi che Stalin è quindi costretto ad affermare – in quanto discende dalla prima – è che in Russia socialismo e legge del valore possano coesistere. La legge del valore, e quindi lo scambio mercantile vige, secondo lui, nell’economia agricola. Sulla legge del valore si regge lo scambio mercantile; si regge quindi sul concetto di equivalenza tra merci, e in particolare nell’acquisto di quella merce particolare che è la forza-lavoro. Noi sappiamo che è proprio dietro la non-equivalenza in questo scambio che si cela la “falsa facciata di ‘libertà, uguaglianza, e Bentham»’ che Marx abbatté, mostrando che il capitalismo non produce per il prodotto [e quindi per l’uomo, o per la società umana, ndr] ma per il profitto” (“Dialogato con Stalin”, ibid.).

Una terza tesi caratteristica dello stalinismo affermava che la Russia era socialista sulla base dell’assenza di una classe borghese chiaramente definita. A questa affermazione, il marxismo aveva risposto con alcuni decenni di anticipo, dimostrando che tutto il percorso storico del capitalismo doveva necessariamente portare all’abolizione della figura fisica del capitalista, e perciò alla formazione di società anonime controllanti interi settori della sfera di produzione e di scambio. “In un modo o nell’altro, con trust o senza trust, una cosa è certa: che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo stato, deve alla fine assumerne la direzione […] Ma né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive […] Lo stato moderno è l’organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale” (Engels, Antidühring, III: Socialismo). In queste poche, chiarissime e decisive righe, troviamo la condanna sia di quel “comunismo” che si votò alla causa dell’antifascismo in nome della difesa dello stato democratico; sia di quello stesso “comunismo” che, in seguito, si votò alla causa dell’antistalinismo sempre in nome della democrazia; sia dello stesso stalinismo che, sotto le bandiere dell’economia nazionale statizzata, aveva gabellato il pieno sviluppo del mercato e della produzione di merci in atto in Russia – e in una delle sue forme più spietate – per socialismo, sulle rovine e sulle ceneri della Rivoluzione d’Ottobre. Per giungere a tanto, si dovette procedere alla distruzione fisica, in Russia, di una generazione di militanti rivoluzionari e al pieno appoggio, in Occidente, di partiti ex comunisti disposti ad abbracciare ogni compromesso con il nemico di classe.

 

 

17. Bancarotta dello stalinismo, trionfo del marxismo rivoluzionario

 

 

Nel corso del terzo decennio dello scorso secolo si è assistito alla sinistra saldatura tra la prassi, in corso di consolidamento in Russia, e la teoria, più volte denunciata con largo anticipo dalla Sinistra comunista, dell’interclassismo gradualmente filtrato attraverso la politica dell’unità popolare. Questa saldatura inaugurò da una parte la elementare strategia dei plotoni di esecuzione contro i vecchi capi bolscevichi; dall’altra, il pieno appoggio ai fronti popolari e ai fronti nazionali, la combutta con le proprie borghesie da parte di ampi settori di un movimento operaio ormai sbandato, oppure l’appoggio al capitalismo di stato russo da parte di ciò che restava delle sezioni nazionali dell’Internazionale comunista. La teoria del “socialismo in un solo paese”, facendo leva su mai sopiti pruriti nazionali e locali, era la pietra tombale sui pochi anni in cui la rivoluzione aveva fatto sentire la sua voce formidabile in tutta Europa. Ma la vittoria dello stalinismo, attuata col terrore e con la falsificazione, è una vittoria condannata dalla storia. Questa vittoria ha avuto l’effetto di ritardare il crollo della società borghese, prolungando per decenni i tormenti dell’umanità sotto il dominio del capitale, nelle crisi croniche e nelle guerre mondiali o regionali. Lo stalinismo è stato l’elemento cementante delle rivolte di ex colonie contro le metropoli, non in nome di una doppia rivoluzione nel quadro di un’alleanza col proletariato di queste, ma in nome dello sviluppo di forze produttive nazionali – almeno entro i limiti loro imposti dall’imperialismo – in un quadro pienamente capitalistico. Il terrore stalinista, esercitato per decenni contro il comunismo rivoluzionario, è stato il puntello delle democrazie borghesi occidentali, e non vi è storico borghese che oggi, dopo essersi battuto il petto in nome delle libertà violate e degli eccessi di violenza praticati in Russia, non sia pronto a riconoscere il ruolo fondamentale che la Russia stalinizzata ha giocato nella guerra mondiale e, poi, nella ricostruzione degli “equilibri” imperialistici mondiali.

È chiaro che tutto ciò ha causato un grave ritardo nel processo di riorganizzazione dell’avanguardia rivoluzionaria. Tuttavia, il processo storico non parla a favore dello stalinismo, cioè della politica degli equilibri fra imperialismi; esso parla il linguaggio della crisi e della guerra che sta al termine di ogni ciclo di accumulazione; esso parla il linguaggio della ripresa delle lotte di classe a scala non più locale ma mondiale. Sono le basi materiali, oggettive, del procedere storico a imporre la rinascita dell’internazionalismo e la sconfitta del “nazionalcomunismo”. Certo, decenni di lavaggio di cervelli – quanto più “colti” o impegnati nelle “sofferte decisioni” degli stalinisti pentiti, tanto peggio – non sono passati invano; i catechismi antimarxisti cacciati a forza in teste non più pensanti di due o tre generazioni hanno prodotto danni duraturi, e il riorientamento verso la lotta di classe e la ripresa dell’organizzazione rivoluzionaria possono richiedere ancora parecchio tempo. Ma le voragini che si stanno aprendo in tutti i settori del Capitale sono la condanna finale di coloro che, sotto la menzogna organizzata a sistema e il terrore fisico ed ideologico, sono riusciti a rendere alla borghesia mondiale l’immenso servizio di fare apparire odioso ai proletari il nome stesso di comunismo.

 

 

 Le puntate precedenti sono state pubblicate sui nn. ... di questo giornale

 

 

 

 

Note


 

1. Lenin, “Sull’imposta in natura”, in Opere, Vol. 32, Ed. Riuniti, 1967, pag. 330. [back]

 

2. Manifesto del partito comunista (1848), Cap.IV. [back]

3. L’Opposizione operaia russa aveva almeno la giustificazione di parlare in nome di una classe operaia vittoriosa al potere. Peggio aveva sostenuto l’operaismo occidentale, per esempio quello gramsciano, secondo il quale le organizzazioni di fabbrica avrebbero potuto e saputo trasformare l’economia in senso socialista ancor prima della rivoluzione – argomento che trovò la immediata e articolata dura replica in senso marxista da parte della Sinistra “astensionista” del PSI, sulle pagine del suo organo, il Soviet. [back]

4. Si veda soprattutto Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, cit. [back]

 

5. “Dialogato coi morti”, cit. [back]

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2009)

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