In una corsia del manicomio civile di Roma si è spento il 16 giugno, l'anarchico Antonio d'Alba. Muratore, figlio di povera gente, Antonio attentò quando aveva venti anni, il 14 marzo 1912, alla vita di Vittorio Emanuele III. Venne condannato, dopo un processo durato meno di due giorni, a trent'anni di reclusione. Il nazionalismo forcaiolo fu spietato con lui. Ben nove anni dovette espiare nella tomba dei vivi dell'isolamento cellulare. Normalmente, i condannati all'isolamento scontano a periodi la loro terribile pena tollerando il regolamento carcerario che la segregazione si alterni con la vita in comune nel camerone e nel laboratorio. Al coraggioso proletario che aveva osato levare l'arma contro la personificazione del potere statale capitalista, senza peraltro neppure sfiorare la sacra epidermide di «Pippetto» la giustizia cristiana della reazione, ebbra delle buffonesche imprese della guerra di Libia non volle usare nessuna clemenza.

Antonio d'Alba  dovette pagare i nove anni di isolamento dal primo all'ultimo giorno senza interruzione, sepolto vivo nella sua cella non avendo altro rapporto con persone viventi, tranne che con i carcerieri e gli aguzzini che non gli lesinarono le bastonature, il letto di forza, gli insulti. Nel 1921 venne graziato, ma la grazia fu una crudele ironia, perché nove anni di cella gli avevano stroncato la ragione. Dalla cella dovette essere trasferito al Manicomio dove ha finito la sua esistenza.

Noi dissentiamo incondizionatamente dalle ideologie che indirizzarono la coraggiosa azione del giovane rivoluzionario e sostennero la sua volontà indomita di fronte ai giudici e agli ignobili sgherri del carcere di Noto. Ma l'odio violento e irreconciliabile di Antonio d'Alba verso le prepotenze e le infamie della classe dominante e dell'ordine costituito borghese, è, in quanto siamo rivoluzionari, il nostro odio. Troppe istituzioni e apparati di potere vegliano alla conservazione di mostruosi costumi sociali, così contrari alla natura umana e alla ragione, perché si possa biasimare il gesto disinteressato dell'attentato individuale. Alla sorgente della ribellione sta l'oppressione del capitalismo e della società divisa in classi, sta l'odio impulsivo, la spinta cieca al sovvertimento, impressa dal pesante giogo dello sfruttamento, solo al vertice del generale movimento anticonformista cui confluiscono tutti gli sfruttati e gli oppressi, si erge la coscienza. L'anarchismo pretende che ad impersonare la coscienza rivoluzionaria sia idealisticamente l'individuo. Il marxismo sostiene, in irreconciliabile antitesi, che solo il partito perviene collettivamente a farsi una conoscenza esatta del meccanismo dei fatti sociali, fino al punto di poterne prevedere lo sviluppo futuro adeguando alla previsione la propria azione. Un punto fermo della sua elaborazione teorica è il rifiuto della lotta individuale contro la dominazione di classe.

Ma ciò non significa che i rivoluzionari marxisti non stiano dalla parte dell'attentatore, allorché i poteri costituiti, la canaglia giornalistica, i bigotti e i cinici gaudenti formano il disgustoso fronte unico della Innocenza offesa. Al Congresso di Reggio Emilia del partito Socialista, tenuto nello stesso anno dell'attentato d'Alba, Mussolini capo della Sinistra approfittava del gesto dei deputati riformisti Bissolati, Bonomi, Cabrini, recatisi a congratularsi con Vittorio Emanuele per lo scampato pericolo per pronunciare una delle sue solite frasi a effetto. Alludendo al mestiere di Antonio d'Alba egli non sapeva fare di meglio  che giustificare il suo gesto regicida esclamando demagogicamente: «L'attentato è l'infortunio dei re, come la caduta dal ponte di servizio è l'infortunio  dei muratori». Non a caso l'autore di queste abili parole doveva, dieci anni dopo, porsi al servizio della dinastia dei Savoia e del capitalismo. E' la ideologia dell'attentato, altra faccia del personalismo e del ducismo dei capi, che è un infortunio ma del movimento rivoluzionario, condotto nelle secche dell'opportunismo ogni volta che al programma rivoluzionario si sostituisce il successo contingente di partito, al partito i capi glorificati da vivi, alle classi in lotta il vuoto duellare di «uomini rappresentativi»

La rivoluzione che è liberazione delle forze produttive non è neppure una somma di attentati, un attentato collettivo, che sarebbe sempre un fatto di volontà. Affinché la rivolta sociale contro gli apparati di potere trincerati a difesa dei vecchi rapporti di produzione e di convivenza sociale esploda, occorre che non solo le classi oppresse siano spinte all'azione rivoluzionaria ma che anche i poteri dominanti attraversino una profonda crisi. Cento anni di lotta contro il capitalismo stanno a mostrare che la crisi sconvolgitrice della società non segue il segnale del colpo di pistola o della carica di dinamite lanciata da audaci mani contro rappresentanti della classe dominante.

Una rievocazione del gesto risoluto e del duro calvario di Antonio d'Alba che fosse andata disgiunta dal ribadimento dei contrasti insanabili che ci dividono dall'anarchismo volontaristico e libertario sarebbe stata slealtà. Abbiamo voluto, sia pure con ritardo rendere omaggio alla sua memoria, perché di fronte allo spettacolo penoso del dilagante pantano dell'elettoralismo e del legalitarismo smidollato che sommerge il movimento operaio, chi non vuole lasciarsi soffocare dalla pesante atmosfera dell'opportunismo gode, come di una boccata d'aria fresca, di riandare [al]le tradizioni rivoluzionarie. Infiammati dall'odio irrefrenabile e temerario che non si spaventa del sacrificio e armati della tempra marxista, presto o tardi, ma certamente, i proletari scenderanno sul terreno del duello all'ultimo sangue con la putrida classe borghese.

 

 

Da “Il Programma Comunista”, n. 13, 9 - 22 luglio 1953 

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